"Gave(vi)mo l'Aquila..."
di Amleto Ballarini
Quell'aquila monocipite scomparve poi, stando alle cronache,
nel 1890 e fu rinchiusa nella gabbia discreta del Civico Museo.
Nessuno all'epoca scomodò per lei un qualsivoglia legame
tra il "comune italico" e le insegne delle quadrate legioni
romane che, stando a Senofonte, sarebbero state precedute,
nell'uso militare dall' esercito persiano.
L'araldica ci insegna che a partire dal XII secolo negli
stemmi patrizi e comunali si fece uso abbondante d'ogni tipo
d'animale: aquile (più con una testa che con due), leoni,
cinghiali, cani, colombe, anatre, gru e perfino galline,
sì che ognuno poteva sbizzarrirsi nell'adattare i propri
simboli secolari alle contingenti necessità della politica.
A Fiume, l'aquila ricomparve bicipite, trionfante e
bronzea, per grazia imperiale (risalente al 6 giugno 1659)
e, con muliebre peculio borghese, la si eresse, tra musiche
e canti, la mattina del 15 giugno 1906. ( 1 )
Non ebbe vita serena: mutilata d'una testa, con "ardire
legionario", nel pomeriggio del 4 novembre 1919, sarà
abbattuta e frantumata, per fede proletaria, in un giorno
a me sconosciuto che fonti precarie, sulle quali non giuro,
mi dicono sia corso nel 1949 , ma che varrebbe la pena di
collocare, almeno nelle intenzioni, in quel furore "liberatorio"
che sin dal 3 maggio 1945 in poi privò la città, con le buone
o con le cattive, oltre che di simboli, anche di uomini,
interpreti entrambi, a larga maggioranza, secondo dottrina
creduta dalla fede di pochi e sostenuta dalle armi di
molti, di una "oscura reazione in agguato".
Degli esuli fiumani, molti non ebbero più bisogno d'aquile
per tutto il resto della loro vita, avendo pagato ben caro
quelle in cui credettero sia per amor di campanile, sia per
le idee di cui s'erano, liberamente o forzatamente nutriti
nell'Italia imperiale voluta dal fascismo;
altri, tra gli esuli, ricucirono un pò di membra sparse per
tutto il mondo proclamando tutti la fede nel ritorno, ma
seguendo due vie politiche e due aquile diverse:
Zanella ripropose per primo quella bicipite e la riesumazione
del "suo" Stato Libero ma, firmato il Trattato di Pace, su di
lui calò il "parce sepulto";
il Libero Comune in Esilio, ben dopo di lui, rivendicando
un ritorno "italiano", adottò, ovviamente, l'aquila "romana",
con una testa sola che oggi, convertitasi dalla romanità
all'europeismo, s'adatta saggiamente al dialogo con quella
(d'origine imperiale o autonomista, a seconda delle stagioni)
che ne esibisce due.
Infatti, scioltosi, per cause endogene, il regime comunista jugoslavo, l'aquila é riapparsa rigorosamente bicipite, sul
finire degli anni '90, non senza polemiche e con qualche opportuno ritocco, appiattita sulle insegne comunali del comune croato di Rijeka, ma non sulla vetta della torre civica che le rimane tuttora, non so se per mancanza di vile pecunia o di democratico coraggio culturale, rigorosamente inibita. ( 2 )
Un'aquila, insomma, quella di Fiume, che, pur apparendo e pur sparendo, con alterne fortune e con molteplici interpretazioni ideologiche, ora con una testa e ora con due, sotto e sopra la
torre, in patria e fuori, mi sembra essere a buon diritto, soprattutto, un'aquila "sfigata".
Le voglio bene lo stesso.
Dipendesse da me, creerei un'aquila bicorpo sì da offrire
Spazio e quiete a entrambe le povere bestie, vittime ignare
non di araldiche necessità, ma di simbolismi ideologici eretti
spesso su cumuli di cadaveri e di umane imbecillità.
A proposito di quest'ultime, osservate qui di seguito quanto s'assomiglino le cronache che ci narrano l'eroica impresa della mutilazione e l'esaltante furore deìla distruzione finale:
"La Vedetta d'Italia"" del 6 novembre 1919 sotto il titolo
"Una testa di meno":
"...Due giovani impazienti, stanchi di attendere... arrampicatisi sino all'aquila -- col rischio di precipitare giù ad ogni istante - si diedero pieni di ardore a segare il collo a una delle due teste.
Naturalmente una gran folla di cittadini si radunò tosto sul Corso a guardare incantata, lassù, verso i due temerari che lavoravano proprio di lena. La testa finalmente si staccò e sul tronco fu
rizzato il tricolore italiano, che sventolò tra gli applausi degli spettatori". ( 3 )
"Difesa Adriatica" del 26 marzo 1949 sotto il titolo
"In frantumi l'Aquila della Torre Civica di Fiume":
"...Poi due giovinastri furono veduti arrampicarsi, dal tetto
di una casa lungo il cornicione della Torre e, con un sistema di
corde e di altri sostegni, raggiungere faticosamente lo zoccolo
su cui posava l'Aquila...
Per una buona mezz'ora, gli operai o altro che fossero,
si affaticarono a smuovere l'Aquila dalla sua base. Ma invano.
Quei due primi uomini vennero sostituiti da altri due che
recavano un apparecchio con la fiamma ossidrica...
Non potendo recuperarla intera, i rappresentanti della civiltà balcanica se ne impadronivano facendola a pezzi...
A ogni pezzo che cadeva rimbalzando suli'asfalto, la folla degli spettatori dava in urli... la folla protestava... molti andavano raccogliendo i frantumi e se li portavano via come reliquie...".
Non so quanto quest'ultima cronaca, basata sulla narrazione di terzi e non sulla testimonianza diretta dell'autore, sia fedele
alla realtà dei fatti, ma ritengo che ben poco se ne discosti.
L'aggiunta di colore, data nella prima dagli applausi della folla verso il tricolore e nella seconda dalle proteste degli spettatori
per quel gesto di "civiità balcanica", credo che stia alla realtà
come i cavoli a merenda.
Prova ne sia che, dopo aver fatto doveroso cenno a quegli applausi di qualche fanatico alla mutilazione, lo stesso cronista della Vedetta ritenne di dover interpretare la pubblica opinione aggiungendo:
"Si poteva cioè evitare l'inutile mutilazione di un monumento
il quale, comunque si voglia considerarlo, rappresenta pur sempre
un ricordo storico...
Tuttavia si è ancora in tempo a rimediare, incollando la testa recisa sul tronco e contentando l'altra testa, che un pochino ha l'aria di reclamare la compagna assente".
Fatto che la "civiità italiana" disperse per sempre quel collo tagliato e ritenne addirittura di dover precorrere i tempi della "civiltà balcanica" approvando, nella seduta del Consiglio Comunale del 27 novembre 1919 su proposta di Gino Antoni, "...di scomporre l'aquila in diversi pezzi e cosi farla discendere:
il materiale sarà conservato e servirà per la fusione della nuova aquila ad una testa".
Salvarono temporaneamente la vita all'aquila decapitata l'intervento congiunto di Host-Venturi, di Iti Baccich e della signora Kucich che ottennero, in caso di rimozione, di poter conservare il monumento nel Civico Museo.
Le lungaggini burocratiche, fors'anche la voglia inespressa della maggioranza di lasciarla anche così, per non uccidere la propria storia, poi la guerra, le bombe, la sconfitta, i tedeschi, la
resistenza e gli jugoslavi alle porte, distrassero l'attenzione di tutti da quel povero emblema sfregiato, che i nati dopo il 1919 impararono comunque ad amare nello stato in cui si trovava, pregando ogni giorno il Padreterno di non doverlo mai abbandonare.
Quando lo tolsero del tutto, nel 1949, gli italiani di Fiume avevano già scelto a larga maggioranza la strada dell'esodo. Quell'aquila, bicipite o monca che fosse, faceva parte integrante della loro storia e prima ancora che d'Annunzio, il fascismo e Tito venissero a interpretarla con idee, ritualià e dottrine del tutto estranee
alle sue origini, essi cantavano per lei:
"...dighe ai popoli - anche lontani,
che qua i fiumani - parla italian.".
Che senso aveva quell'aquila per un popolo e una città
che parlavano croato?
Nessuno, se Fiume, chiamandosi Rijeka, non avesse avvertito
il bisogno di ritornare all' Europa riscoprendo cosi la propria vocazione multiculturale che l'Impero aveva a lungo protetto e consolidato.
Per questo la cultura dell'esodo festeggia con italiani e croati nella città d'origine il suo primo e timido ritorno.
Quando riapparirà lassù, così com'era in quel lontano giugno del 1906, contribuiremo alla fusione con le reliquie che conserviamo a Roma e di cui a Fiume/Rijeka, purtroppo, non c'é traccia alcuna.
( 1 ) Allegata una "cartolina ricordo" del' Aquila donata dalle
Donne fiumane e collocata sulla cupola dell Torre Civica :
Opera dello scultore Vittorio de Marco ; fusa dal fonditore
Giovanni Legan nello Stabilimento "Matteo SKULL" .
Alta metri 2,20 , larga metri 3.00 , peso complessivo 2.000 Kg.