Il figlio perduto - La mia storia dalla terra d’Istria

recensione di Anna Balducci


Il figlio perduto è un rifacimento, ampliato e rinnovato, di “Una storia istriana” che lo Zandel ha pubblicato nel 1987. A suo tempo ho letto il libro e ne ho anche scritto, rileggendolo a distanza di tanti anni mi ha coinvolto come la prima volta, anzi di più.

La miniera, presenza nera e immensa, nel suo ventre oscuro inghiotte gli uomini ed alle volte li trattiene con sé. Le donne li attendono nei loro drappi neri , in disparte dagli uomini. Forza negli uomini, rassegnazione nelle donne, ognuno ha il suo ruolo, ma Sime, il protagonista del libro, ci appare subito diverso, è grande, forte, bello, ama cantare e ballare, in paese lo considerano un po’ troppo matto ed un po’ troppo allegro. Ha un solo rammarico:aver sposato una donna sterile. Per questo deciderà di chiedere al fratello di affidargli uno dei suoi figli per poterlo allevare come fosse suo e per lasciargli la casa e la terra.
Non era un fatto insolito nelle società contadine affidare uno dei figli ad un parente più ricco, un figlio in meno era una bocca in meno da sfamare ed inoltre il prescelto avrebbe potuto ereditare, sarebbe andato a star meglio. Così probabilmente pensava il padre di Giacomo affidandolo a Sime e dando inizio al calvario del figlio.
Alla partenza della corriera la madre non c’è, forse non se l’è sentita di vederlo andar via, ma la spiegazione che gli dà il padre”La mamma ha tanto da fare” è davvero crudele.
Giacomo è una creatura troppo debole e sensibile in un mondo troppo duro, nessuno lo aiuta, nemmeno il padre adottivo, che solo alla fine ne intuisce la sofferenza.
Giovanna, la moglie di Sime, prova subito avversione per quel bambino, lo sente un rimprovero per la sua sterilità, fa per lui i gesti del dovere, mai quelli dell’amore.
Giovanna è una donna sterile nel ventre e nel cuore, a modo suo è una buona moglie, serve premurosa l’uomo grande e forte che tutte le notte le dorme accanto, ma non sa superare in uno slancio d’amore i rancori che anni di attesa inutile di un figlio le hanno accumulato dentro.
L’angoscia di Giacomo cresce ogni giorno di più, ripensa alla vita in famiglia, rimpiange quello che poteva essere e non è stato.
Nemmeno l’arrivo della primavera, il risvegliarsi splendido della natura, che porta ai suoi compagni una gioia nuova, lo solleva dall’abisso in cui è caduto, nemmeno l’arrivo tanto atteso dei fratelli - la mamma, la sola che poteva aiutarlo, non è venuta, forse verrà domani – anzi vicino a loro Giacomo prova un senso di estraneità.
Non c’è peggior solitudine di quella che si prova accanto agli altri.
I presagi di morte si susseguono, la trota che boccheggia, le voci dei fratelli lontane ed alla fine- qui il racconto raggiunge un alto grado di drammaticità- le parole del fratello maggiore più dure delle percosse.
E la morte annunciata viene, quella morte dovuta alla mancanza d’amore.

Giacomo è il protagonista della prima parte del libro, la seconda parte è dedicata a Mariza

In quella società povera a patriarcale dove l’uomo è padrone riconosciuto, le donne sono ombre senza volontà, tanto che la madre di Giacomo, quando Sime le chiede di affidargli suo figlio, dice:
“Che posso io decidere? Sono una donna io…”
Come se il figlio non fosse suo, non se lo fosse portato in grembo, non l’avesse partorito con fatica!
In questa società Sime conosce una donna, Mariza, diversa, viva, coraggiosa, capace di decidere, di farsi guidare dai sentimenti.
Mariza è una giovane vedova, ha perso il marito in miniera nei giorni in cui è morto il piccolo Giacomo, ha un bambino, Mario.
Tra i due nasce un autentico sentimento d’amore. Quando la donna gli dice che aspetta un figlio, Sime è al colmo della gioia, ma si preoccupa per lei, pensa alla gente, al modo in cui l’avrebbero guardata.
“Che farai ora?”Le chiede.
E la coraggiosa Mariza risponde:
”Lo porterò in faccia a tutti. Ciò che ho fatto l’ho fatto per amore.”
Sfidando il disprezzo e l’odio di tutti, per aver trasgredito alle regole, in attesa che il tanto desiderato erede nasca, i tre vanno a vivere in una casetta lontana dal paese.
Anche se il mondo è contro di loro, trascorrono giorni sereni. Sime inizia il piccolo Mario, a cui si sente legato da affetto paterno, alla caccia.
Immersi nella natura i due aspettano l’arrivo delle anatre.
“Era bello quel selvaggio impantanarsi tra le canne e i cespugli, avvertire il sapore fangoso della terra alle narici, i fili d’erba che ti solleticano il viso, il vento che ti solleva i capelli..” pag. 107. Il bambino è felice e lo sarebbe stato anche Giacomo se lo zio- padre si fosse dedicato di più a lui, ma forse, prima di conoscere Mariza, Sime non sapeva amare, forse la donna così coraggiosa e forte ha saputo risvegliare in lui il vero senso paterno.
Il libro si conclude tragicamente, nel momento massimo della gioia, quando Sime balla felice per la nascita del figlio. Quello è il suo ultimo ballo, un colpo di fucile lo raggiunge.
Le regole non vanno infrante, chi le infrange paga con la vita.