La spilla di Janesich

recensione di Anna Balducci


La gioielleria Janesich, fondata nel lontano 1835 da Leopoldo Janesich, buon disegnatore e orafo raffinato, è anche ora la più nota gioielleria triestina ed è rimasta sempre proprietà della stessa famiglia. La spilla di cui parla il libro, è stata acquistata nel 1920 - deve essere quindi stata creata da Giovanni Janesich - da Vittorio Saralvi che ne fa dono alla moglie Giuditta nel quindicesimo anniversario di matrimonio. E’ un gioiello esclusivo, di grande bellezza e di grande prezzo, ma Giuditta ci vede subito qualcosa di più: quella spilla sarà il simbolo dell’unità della famiglia, un talismano che passerà da suocera a nuora e che nessuna donna dovrà mai vendere.
I Saralvi sono ricchi ebrei sefarditi, il capostipite, Isacco, è giunto a Trieste da Ferrara, è fuggito dalla Stato Pontificio ed ha trovato un ambiente accogliente nella città che allora faceva parte dell’impero Asburgico.
Nel libro il passato e il presente si mescolano e, a capitoli che narrano di Marina, l’ultima discendente dei Saralvi, si alternano altri che tornano indietro nel tempo. Un romanzo mosso tra presente e passato ed anche tra favola - la spilla considerata un talismano che alla fine sorride- e realtà.
C’è tutta la storia di Trieste nella storia della famiglia Saralvi: irredentismo- gli ebrei triestini erano irredentisti, basti pensare al quadro che ne fa il bellissimo libro della Cialente “Le quattro ragazze Wieselberger- , nascita del fascismo, guerra, dopoguerra, governo militare alleato, arrivo dei profughi dall’Istria.
“Gente per bene, ma fuggiti senza mezzi e quindi percepiti da molti come una minaccia sul piano economico più che come fratelli da ospitare.”(pag. 82)
La prima donna di casa Saralvi è, come ho già detto, Giuditta née Cohen, quel née, che il Della Rocca mette davanti al suo cognome da nubile, ci fa capire che siamo nella buona società.
Giuditta è una privilegiata, è ricca, il suo matrimonio, che è stato combinato dai genitori, si è rivelato felice, Vittorio, il marito, la ama, le fa ricchi doni; che qualche volta abbia delle avventure extraconiugali lei lo dà per scontato, teme solo che il fioraio, che le ha appena confidato che il marito ha ordinato per lei un mazzo di rose rosse, non si tradisca e le dica che ha ordinato delle rose per una ballerina.
Guido, il primogenito dei Saralvi, scompiglia le carte, siamo nel ‘37 e le leggi razziali si avvicinano. Per sfuggire alle persecuzioni decide di farsi cristiano, inoltre sposa, per amore, Teresa, una ragazza povera e, per giunta,- riscrivo qui il termine usato dal Della Rocca - allogena.
Allogeni: quei cittadini che sono di stirpe diversa da quella dello stato nazionale entro i cui confini si trovano. Dal Devoto –Oli
Il termine, usato nel linguaggio burocratico, era, per lo più, sconosciuto ai Triestini che chiamavano i loro vicini, sloveni, o, più spesso, “sciavi.”
Teresa è un’altra donna forte e decisa, così come la nuora Marianna a cui lascerà il gioiello e come Marina, la nipote che, pur con sensi di colpa, lo venderà e spezzerà la tradizione familiare per intraprendere una vita diversa di single in carriera in un altro paese.
Finisce così la storia della famiglia Saralvi, ma non quella della spilla che, dopo essere stata comperata in un’asta a Londra, viene donata per il venticinquesimo anniversario di matrimonio, a Dagmar Du Trottel, ricca signora che vive nei dintorni di Vienna. La donna sente che la spilla è un simbolo di continuità e decide che la regalerà alla nuora, magari quando questa avrà un figlio, ma con l’impegno di tenerla in famiglia, di farne una tradizione. Un’altra storia ricomincia. Il primo dono di anniversario di un marito ad una moglie ha luogo a Trieste, già italiana, ma in cui si sente ancora l’ombra dell’Austria, il secondo ha luogo a Vienna, Austria quindi. Il tempo è passato, sono cambiate le mode, ma ci sono molti punti in comune tra Dagmar e Giuditta, la bellezza, la ricchezza e lo spirito con cui le due donne sopportano le inevitabili corna che i mariti, pur amandole, fanno loro.
“Ricordati- ha detto alla figlia la madre di Dagmar il giorno prima del matrimonio-che le corna le dovrai portare con dignità, sono il prezzo da pagare per una certa situazione sociale” (pag.144)
E sì, perché questa è anche una storia di corna, prima quelle discrete che Vittorio fa a Giuditta, poi quelle forse meno discrete che Guido fa a Teresa :
“Mio figlio era un puttaniere - dirà quest’ultima alla nuora e soggiungerà - come tutti gli uomini di famiglia.” Il che fa capire che anche Guido aveva le sue colpe.
E non avrà torto nell’usare quell’epiteto senza veli, il figlio di Giuditta, Umberto, bello e brillante, padre adorato dalla figlia Marina, trascorrerà la vita a correre dietro alle donne.
Interessante il linguaggio usato dal Della Rocca, lo stile dapprima è classico, ci si sente l’influenza degli scrittori dell’ottocento, poi cambia, si fa più stringato, appaiono le prime parolacce come quel “puttaniere” pronunciato da Teresa, parole che mia madre mai avrebbe detto preferendole il triestino “cotoler” che penso in italiano si potrebbe tradurre con donnaiolo.