La miglior vita

recensione di Anna Balducci


La storia si svolge in un paesino vicino a Umago non troppo lontano dalla costa, ma non ancora nell'interno, uno di quei paesi che Tomizza ama, in cui vivevano uomini dall'anima doppia (come la sua), un po' italiana e un po' croata, che parlavano un dialetto misto, ma in cui l'italiano, anzi il veneto, predominava nella lingua dei signori, il croato in quella dei poveri. Il protagonista del libro è Martin il " nonzolo" che, divenuto ormai vecchio, ricorda la vita che ha trascorso e ci parla con rimpianto di un mondo ormai scomparso.

Martin, la voce narrante, all'inizio del libro è ancora un ragazzo ed è stato incaricato dal padre, che fa in sagrestano, di percorrere la campagna versando l'acqua santa nei quattro cantoni, funzione questa che dovrebbe preservare il raccolto dalla grandine. All'acqua benedetta sono stati aggiunti una lacrima di cero pasquale, un pezzetto di ostia non consacrata, un filo d'oro strappato al piviale e uno d'argento caduto dalla pianeta. Per il giovane Martin questo è un avvenimento importante, è la prima volta che suo padre gli dà l'incarico di sostituirlo nel mestiere che lui erediterà, e, mentre ci descrive questo rito antico, probabilmente ereditato da antenati pagani, l'autore ha modo di illustrarci la campagna e i paesini che il "nonzolo " attraversa.. Quello che Tomizza ci fa conoscere in questo romanzo é un mondo di usanze abbandonate da tempo e non solo per le note vicissitudini storiche, ma anche perché la vita è cambiata e tradizioni antiche di secoli si sono perse. E' un paese, quello che Tomizza ci descrive, pieno di vecchie superstizioni, in cui vive la vecchia Tupa esperta nel " butar i bronzi" ossia nel buttar la brace in una scodella piena d'acqua e nel fare con questa brace ancora fumigante dei segni mormorando degli scongiuri per guarire le bestie malate, i vecchi afflitti da torcicollo e i bambini con la tosse pagana.

E' un paese in cui i poveri si sentono in diritto di maltrattare quelli più poveri di loro, come gli zingari, su cui grava una maledizione perché, si raccontava, uno di loro era passato in Palestina accanto alla Madonna e le aveva pestato il manto, i Cici e i Morlacchi colpevoli di aver rubato in chiesa l'olio delle lampade e di aver percosso un prete e che perciò erano alla mercé dei cani e dei ragazzi. Accanto a questo mondo di contadini ci sono i signori, che gran signori non erano, giacché ogni loro sforzo era volto a elevarsi dalla melma della parrocchia per accostarsi ai veri signori che vivevano in città: Giocasta, che un maiale aveva privato in tenera età degli attributi maschili, Jure Radovan, ricco e prepotente, l'unico in paese ad avere la bicicletta, il conte Lazarich, i Bonifazi.

Ma il personaggio, a parer mio, più significativo del libro è don Stipe. Quando giovane prete si presenta in parrocchia si rivolge a Martin" nel croato più limpido che questi avesse mai udito e subito nota scolpiti su una pietra dei gradini della chiesa i tratti di un aratro, della paletta per staccare la terra dal vomere, di una scure.

"E' una pietra tombale dei contadini croati del millecinquecento." Esclama.
Don Stipe è un prete colto, sta preparando una tesi di laurea sui glagolici, la prima scrittura slava portata da San Metodio in Moravia e tramandata dai suoi discepoli fuggiti in Istria dopo la sua morte. Già il primo giorno del suo arrivo, dopo aver letto una stele funeraria, spiega a Martin che la parrocchia non ha avuto inizio, come tutti avevano creduto fino allora, con Capo Zorzi Radovan che aveva combattuto i turchi sotto i Veneziani, ma che esisteva una precedente comunità, probabilmente distrutta dalla peste del 1630, retta da un prete illirico che usava il glagolitico. (Come a dire, noi croati c'eravamo per primi.)
Don Stipe e Martin giungono in sagrestia e il prete consulta i vecchi registri della parrocchia in cui i suoi predecessori annotavano chi " passava a miglior vita" .

Don Stipe, che come si vede fin dal suo primo apparire, è un prete croato nazionalista come ce n'erano tanti, cerca di diffondere fra i suoi parrocchiani croati l'orgoglio della loro origine. Tomizza ce lo descrive come un buon prete dotato di una grande fede, ma dice che "amava il Cristo dei vangeli, ma con Lui e attraverso Lui amava la sua gente..... Per sua disgrazia gli era toccata una parrocchia sbagliata dove non c'era alcuna fierezza che non derivasse da un affare concluso bene."
Spesso dall'altare diceva:
"Voi siete e non sapete di esserlo. Potreste salutarvi quali figli eletti dal Signore e vi accontentate del ruolo di gregari."
Quando parlava con gli Jugovaz, con i Coslovich il suo discorso era più esplicito, e ricordava loro il loro sangue croato, mentre quando si rivolgeva ai Bassanese ai Fabris, dal cognome dichiaratamente italiano, usava il tono umile e schietto di un prete missionario, ma a Martin che lo accompagnava, non sfuggiva un segreto impaccio e un'evidente fretta come "se si accorgesse di star sciupando il suo tempo con persone che rimanevano fuori dal suo disegno, se addirittura non lo intralciavano"
Passa il tempo, preti buoni e cattivi si susseguono, alla fine della grande guerra alcuni italiani sposano ragazze del posto e si stabiliscono nella zona. Anche Martin si sposa e gli nasce un maschio, Antonio. Passano altri anni, giunge la seconda guerra mondiale e il figlio del "nonzolo" , si arruola tra i partigiani e muore.
Don Stipe ritorna al paese da Vescovo, è invecchiato, il tempo è passato anche per lui. Martin spera di leggere nel suo volto il disinganno, la sua battaglia civile é stata coronata da successo, ma a detrimento della speranza che il giovane prete aveva in una fede rinata in un mondo slavo. Ma il vescovo Stipe ha perduto la sua fierezza, vivendo in un regime che esercita il suo controllo sul clero, ha imparato a misurare le parole, ad usare l'arma dell'allusione. Il ritorno del prete da lui tanto ammirato si risolve per Martin in una delusione." La vecchiaia - conclude alla fine di un lungo ragionamento- la vecchiaia brucia tutto." Passano ancora gli anni, muore la moglie e " il nonzolo" resta solo. Non ci sono più preti e così lui lascia la sua casa per andare a vivere in parrocchia. Prende in mano i vecchi registri abbandonati ed inizia ad annotare le nascite e le morti.
L'ultimo giorno della sua vita si trascina allo scrittoio e dalla sua penna esce un brano di grande bellezza e poesia. Penso sia giusto riscriverlo con le esatte parole di Martin-Tomizza, sono certa che le mie sarebbero inadeguate.
"Da un sole che non vedevo, sul campanile, sulla chiesa e sul muro bianco di cinta cadeva una luce appena dorata: Dentro a questa luce tutte le cose liberate dalla loro pesantezza, quasi svuotate da ogni materialità, parevano mescolarsi e sollevarsi insieme. Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo muore a ogni morte di un uomo."