Sradicamenti

recensione di Anna Balducci


Solo ieri mi è venuto tra le mani il libro di Annalisa Vukusa ed ora, sono le quattro del pomeriggio, ho già finito di leggerlo. Non è il mio mestiere scrivere di libri, in questo campo sono solo una volonterosa dilettante che però da lunghi anni è un'appassionata lettrice e, proprio come appassionata lettrice, posso dire che, se un libro mi prende e non vedo l'ora di avere un po' di tempo per continuare a leggerlo, vuol dire che è buono.
Il libro è formato da vari capitoli che trattano argomenti diversi , ma che sono legati da un filo conduttore: lo sradicamento. La prima parte è autobiografica, nella seconda " Monologo interiore sull'esodo" l'autrice parla delle sue radici e riflette su quello che fu l'esodo.
All'inizio troviamo Chiara- Annalisa giovane insegnante in un paesino di montagna. Non sa nulla di insegnamento, ma ha come modello la scuola di Barbiana e si getta con entusiasmo in quel lavoro così difficile, ma così bello e capace di dare un senso a una vita. L'autrice guarda il suo passato con tenerezza e ci parla della se stessa di allora con un sottile umorismo. ( Quanto mi sono sembrate vere le due amiche femministe che, essendosi rifiutate di parlare di pannolini e pappine, passeggiando per il paese, discutono dei massimi sistemi!)
I personaggi sono vivi e restano impressi nella memoria: Giulio, il marito, persona con profonde radici, nato e cresciuto nel paese in cui prima di lui era vissuto il padre, musicista e liutaio, Maria, la madre lodigiana, anche lei con salde e sicure radici, che con buon senso ed amore riesce spesso ad ottenere quello che la figlia e il genero non ottengono con i loro studi di psicologia, il figlio Filippo che troverà le sue radici nella musica e tante figure minori: Nicolino, l'allievo difficile, Andrea, il ragazzo in affiliazione, Chiara la piccola brasiliana.
Nella seconda parte, il monologo interiore, Annalisa Vukusa riflette sulla sua situazione di profuga di seconda generazione. " E sentii che era un grande obiettivo, per me, dipanare la massa della memoria e sentii il bisogno di farlo" ( pag. 61) ed anche di scrivere per comunicare con chi ha provato o prova lo stesso sradicamento dalla realtà perché, dice ancora l'autrice, "Sentirsi estranei, esuli, profughi, magari nell'anima, è una condizione umana molto comune." (pag.62)
Ma la vita di ognuno- riflette Annalisa Vukusa- non è cementata solo dal luogo d'origine , ma anche dagli affetti familiari, e questi non le sono mancati, per merito di tutti i suoi, ma soprattutto dell'amatissimo padre, persona davvero eccezionale, che seppe dare ai suoi figli, che si sentirono comunque estranei in tutte le realtà, una vita familiare che fu un porto sicuro " in cui si ricucivano le continue lacerazioni."
Del nucleo familiare, faceva parte anche il nonno Bepi che, prima del " ribaltone", era stato proprietario di un avviato negozio di "coloniali", in cui aveva cominciato a lavorare da ragazzino come garzone, che poi aveva naturalmente perso, ma che "nella sua disgrazia era stato fortunato perché aveva potuto vivere con noi fino alla morte." (pag.79)
Tutti gli averi di nonno Bepi, al momento dell'esodo, stavano in due bauli che l'autrice del libro conserva ancora " E' come se lì dentro fossero conservate le sofferenze, mai ostentate, ma nascoste con pudore, di un'intera generazione." ( pag.80).
Poi sfila di fronte ai nostri occhi la saga familiare dei Vukusa: lo zio Tonci che da direttore di un importante cantiere si trovò custode di un condominio a Milano, il cugino Silvano che lasciò Zara ancora bambino, ma che non riuscì a levarsela dal cuore tanto da dire: "Questa tragedia ce la portiamo dentro ed essa fa sì che io mi senta sempre un diverso…….. Sappiamo inserirci in ogni nuova realtà, ma ci sentiamo estranei "(pag.82 ), Giacomino, la zia Gisella e tanti altri.
Su tutto emerge splendida la figura del padre, uomo di grande levatura morale. " Non ho mai sentito da mio padre parole di diffidenza o di odio verso i nuovi occupanti." ( pag.89) e più sotto "...in una visione della realtà che faceva spazio alla tolleranza, non quella passiva e indifferente di chi lascia fare, ma quella di chi vuol dimenticare i tempi dell'odio.."
Già nel '61 il padre porta la famiglia a Zara.
" Papà perché siete venuti via?" gli chiede la figlia.
"Perché eravamo e ci sentivamo italiani." Risponde il padre.
Di quel primo ritorno Annalisa ricorda le lacrime del padre che trovò la sua città così diversa da come la ricordava, ma che, nonostante ciò, volle che si creasse un legame tra lei e i suoi figli.
" A Zara non ci sentivamo solo turisti ed il papà faceva di tutto per farcela amare.
Zara e il suo mare sono sempre stati un tutt'uno nella mia memoria, profondamente inscindibili." (pag.72) Alla fine del libro l'autrice ritorna all'interrogativo iniziale, alla ricerca delle sue radici. " Dopo averle cercate dappertutto, non posso che riporle definitivamente in quel mare che ci ha sospinto un tempo altrove." (pag.117)
E più sotto." Il mare, il paese della mia anima che mi permette di essere instabile, eppure radicata, volubile e capricciosa eppur fedele, agitata, ma piena di energia e tante cose ancora…perché là, io ci sono." (pag.118)
Questo e molto di più si trova in questo libro, in cui l'autrice fa sue e rielabora le idee del padre che sempre cercò di capire e non di condannare, di quest'uomo che non disprezzava mai nessuno e che le ha dato una gran lezione di vita.