di
Angelo Silvano de Angelini
Tratti da una lettera inviata a Gianclaudio de Angelini
Voglio menzionare qualcosa della mia vita vissuta.
Mio padre e' stato trasferito all'ufficio postale di Pola l'anno 1925, io avevo solamente due anni. Terminate le
scuole superiori presi un lavoro d'ufficio. Durante l'occupazione tedesca decisi di arruolarmi all'U.N.P.A (Unione
Nazionale Protezione Antiaerea ) assieme a mio fratello Domenico e Nicolò, per non esser chiamato alle armi.
Purtroppo dopo sei mesi circa dovetti passare la leva, mi misero nel corpo degli alpini e destinato ad un caposaldo,
fuori di Fiume, chiamato Veli-Vrk (Grande Cima ). Ben presto gli abitanti dei paesi non tanto lontani da noi,
seppero che noi fummo arruolati contro la nostra volontà.
Quando attraversavano il confine le ceste alle spalle erano piene di ogni cosa che poi loro passavano ai partigiani,
tutto questo perchè noi chiudevamo un occhio e delle volte tutti e due.
Una decisione ben presto venne presa e cioè di far prigionieri i tedeschi stanziati assieme a noi, di caricare nelle
carrette indumenti ed altro e di unirci ai partigiani. Tutto era stato organizzato per bene, purtoppo tutto finì male,
perchè uno dei nostri riportò immediatamente il piano ai tedeschi e ben presto fummo fatti prigionieri. Ci portarono
alla caserma di S. Caterina (Fiume) dove fummo rinchiusi per due giorni, lì subimmo pure un bombardamento,
qualcuno fù ferito (2 giorni senza cibo). Il terzo giorno ci misero in un vagone ferroviario, arrivati a S. Pietro del
Carso, alla mezzanotte circa, una forte esplosione causata da una bomba posta (non si è saputo da chi) sulle
rotaie, qualche vagone capovolto e qualche altro deragliato, per fortuna nessun ferito (terzo giorno senza cibo).
Tutta la notte sdraiati sopra un prato, stanchi, e affamati. Al mattino del quarto giorno venne un locomotore per
prenderci, ma ben presto arrivarono due apparecchi che cominciarono a mitragliare a rotazione riducendo il
locomotore come un colabrodo, noi non eravamo tanto distanti però potevamo sentire i proiettili tutto attorno a noi
aspettando che qualcuno ci colpisca da un momento all'altro.
Dopo questo ci fecero camminare attraverso boschi e prati quasi tutto il giorno sempre inseguiti dai due apparecchi
che spesso ci mitragliavano. Ogni tanto i tedeschi si fermavano per mangiare e noi niente da masticare non
solamente cibo ma nemmeno acqua.(il quarto giorno). Durante il cammino abbiamo attraversato molte
campagne, però l' ordine era di non prendere niente altrimenti venivi fucilato. All'imbrunire raggiungemmo un
paesetto e lì un treno ci aspettava per portarci a Trieste. Arrivammo alla stazione di Trieste circa a mezzanotte, due
o tre automezzi erano pronti per portarci al campo di concentramento di S. Sabba.
Nell'oscurità abbiamo visto un grande stabile di mattoni e fummo rinchiusi al terzo piano in un grande salone
sporco e lugubre. Al mattino ci portarono un po di caffè nero che sembrava bere veleno, pranzo e cena consisteva
di acqua bollita senza sale (non credo ci sia stato nessun condimento) e con qualche pezzetto di zucca,
ogni giorno la stessa cosa. Dopo qualche settimana ci chiamarono giù nel cortile, lì c'erano degli ufficiali tedeschi e
diversi ufficiali italiani. Uno dei tanti ufficiali italiani ci disse: - Voi volevate scappare e unirvi ai partigiani questo è
un reato molto grave. Noi siamo qui per aiutarvi e liberarvi da questo posto lugubre, perchè speranze
non ne avete di ritornare nelle vostre case, sempre se voi accettate le nostre condizioni. Per prima cosa dovete
arruolarvi al corpo delle brigate nere, secondo dovete partecipare a tutti i rastrellamenti, voi inoltrerete molti
pericoli potrete pure perdere la vostra pellaccia. Chi accetta faccia un passo avanti - solamente uno lo fece.
L ufficiale disse : - Mi dispiace per voi, rimarrete qui a marcire. Il comandante della risiera di S. Sabba era Joseph
Oberhauser. Lo stabile dove noi eravamo rinchiusi era composto di diverse e ampie camerate dove stavano pure
rinchiusi gli ebrei, civili e militari destinati alla deportazione in Germania. C'erano pure le stanze occupate dagli
ebrei chiamate celle della morte. Con il passare del tempo la fame si faceva sentire sempre più, rinchiusi in quelle
quattro mura per di più sapevamo che da lì non c'era via di scampo, quello era il principio della fine.
Come al solito ogni mattina venivano due tedeschi (S. S. noi li chiamavamo i carnefici) a portarci il caffè, l' unica
cosa che dicevano era 'aufsten' dopo questo noi ci dovevamo alzare, con grandi sforzi noi ci potevamo reggere in
piedi, perchè in caso contrario con molta probabilità si poteva andar finire nel forno. Nel nostro stanzone c'era una
sola e piccola finestra da dove si poteva vedere il cimitero e giù nel cortile gli ebrei che portavano il carbone per far
azionare i forni. Alla fine del mese di aprile, credo sia stato il giorno 28 ci portarono fuori dal campo, qualche
passante ci disse che la guerra era finita e abbiamo potuto vedere diversi che si salutavano con il pugno. In fretta
e furia ci fecero salire sopra i tram, questi partirono immediatamente. Io ho pensato come forse tanti altri, la
guerra è finita e questo è il giusto momento per scappare, per altro io ho pensato chissà dove ci porteranno. Io,
d'accordo con il mio amico abbiamo deciso di gettarsi fuori dal finestrino mentre il tram era in movimento,
subimmo delle brutte botte però noi non abbiamo sentito nessun dolore, l' importante era scappare. Un tedesco
vedendoci scappare (era facile individuarci , perche' avevamo ancora la divisa addosso). Ci raggiunse con la pistola
in mano e in procinto di spararci, per prima cosa ci disse; voi volere scappare; io cominciai a balbettare dalla
grande paura, poi dissi ; andavo a cercare qualcosa da mangiare, finito di dire questo lui vide molti altri che
scappavano, a questo punto lui ci disse; voi aspettare qui, voi scappare io ammazzare voi. Cominciò a correre per
prendere gli altri, quando fu un pò lontano siamo corsi via per poterci nascondere prima che arrivasse, però non è
stato facile, perchè tutte le entrate delle case erano chiuse, fortuna volle che una signora da un stabile non tanto
lontano ci fece cenno di venire. Quella brava donna ci nascose in una cantina però per noi era come una reggia.
Al mattino dell' indomani quella brava donna (così mi piace chiamarla, perchè se non era per lei chissà come
andava a finire) ci diede qualcosa da mangiare, un fiasco di vino e degli indumenti di suo marito. Lo stesso giorno
assieme al mio amico, ci dirigemmo all' ufficio comunale dove gli jugoslavi avevano preso possesso per farci
rilasciare il lasciapassare per attraversare l'Istria con il timbro e la stella rossa. Dopo questo salutai il mio amico
perchè lui andava a Fiume ed io a Pola. Lì incontrai sei persone che facevano ritorno alle loro case, abitanti a Pola
e dintorni. Lasciato l' ufficio abbiamo preso il nostro cammino e a tarda sera abbiamo preso riparo sotto un
porticato. Al mattino seguente abbiamo ripreso il nostro cammino e nel tardo pomeriggio siamo giunti al paese di
Visinada. Ci fermarono i partigiani jugoslavi , per primo il commissario ci chiese il lasciapassare, lo guardò sotto
sopra (questo dimostrava che lui non sapeva leggere ), lo passò ad uno dei soldati e lui ci chiese se eravamo
fascisti, io dissi che venivo da un campo di concentramento, dopo questo mi disse che la stella era falsa, perche'
aveva solamente i bordi rossi, abbiamo provato a spiegarli la cosa però non c'è stato verso. Fummo rinchiusi in
una stanza di un edificio nella piazza centrale del paese per ben tre mesi. In quella stanza abbiamo trovato altre
sei persone, cosi' tutti assieme eravamo in dodici. Più tardi apparve un soldato e ci diede un cucchiaio ciascuno,
abbiamo pensato che forse il piatto lo porterà più tardi, il piatto non è mai arrivato. Quel giorno non ci portarono
niente da mangiare, all' indomani verso mezzogiorno due soldati portarono un grande pentolone e lo posero nel
mezzo della stanza e se ne andarono, tutti noi verso il pentolone per poter avere la migliore posizione, i primi
erano i piu' fortunati però le loro teste erano tutte imbrattate di minestra. Un bel giorno ci dissero che noi eravamo
liberi, grazie ad un partigiano che ritornava a casa e s'era fatto fare il lasciapassare a Trieste e aveva la stella
identica alla nostra. Tra l'altro ci dissero che una autocolonna partiva da Visinada ed era diretta a Pola e noi
potevamo andare assieme a loro. L'autocolonna era formata di cinque autocarri, guidati da prigionieri tedeschi,
quattro erano carichi di materiale la quinta era vuota, su questa siamo saliti noi. Arrivati a Pisino invece di
continuarre diritti e seguire il resto dell' autocolonna il nostro autocarro girò a sinistra, una piccola stradella che
portava alle foibe. Immediatamente abbiamo pensato che questo fosse stato tutto un tranello, ci guardavamo
senza dire una parola, pallidi dalla paura, il cuore batteva cosi' forte che sembrava scoppiasse da un momento all'
altro, questa era la nostra fine. Due soldati jugoslavi con l' autista tedesco si avviarono verso un ripostiglio e
ritornarono con un carico di camere d'aria e copertoni e le posero nell' autocarro. Ripartirono verso la stessa
stradella che a noi ci ha portato tanto spavento. Questo spavento è stato molto peggiore di quello provato a S.
Sabba. Arrivati a Dignano ci dissero che l' autocolonna ripartiva per Pola all' indomani. Sfinito, magro e debole,
pero' ho avuto la forza di andarci a Pola un po camminando e un po correndo. Arrivai a casa alla mezzanotte circa,
mio fratello Domenico (Mimi) prese un mastello, lo riempì d' acqua e cominciò a lavarmi (per ben tre mesi non mi
sono lavato una sola volta) perchè nella stanza dove eravamo rinchiusi non c' era nessun rubinetto dell' acqua. L'
acqua diventò non solamente nera e sporca ma era pure carica di pidocchi. Dopo questo al letto per un buon riposo
e alla mattina quando mi svegliai ho pensato se tutto questo fosse stato un sogno.
La storia e' un po troppo lunga ma purtroppo non ho potuto farla molto breve, perche' avrebbe perduto molti
dettagli, se le fa piacere la legga. La ringrazio per avermi dato questa opportunita' di poter rievocare certi
avvenimenti. Non mi rimane altro che di salutarlo, le auguro ogni bene per il futuro.