Nereo Lorenzi giaceva nella bara. Il cerone ne aveva alterato
l'espressione. Il volto era liscio ed il profilo affilato. "Ha il
naso di Dante Alighieri", avevo udito mormorare uno dei presenti.
Proprio strane queste usanze funerarie nordamericane, avevo pensato.
Si esorcizza l'orrore della morte attraverso un accorto belletto e
si interdice l'abbandono al dolore ed al rimpianto, divenuti
sentimenti inopportuni e imbarazzanti, frutto di concezioni
primitive.
Ai lati e dietro la bara, le corone con le dediche, quasi tutte
provenienti dalla Casa d'Italia e dagli organismi ch'essa ospita.
Ero arrivato da pochi minuti. Avevo ritrovato facilmente il salone
funerario, in "rue Ontario". Era situato non lontano
dall'"Université du Québec" dove lavoro, in quella specie di corte
dei miracoli che è la parte orientale del centro di Montréal,
intorno alla Via Sainte-Catherine, con il "villaggio omosessuale" -
"le village gai" - e la sua fauna di mendicanti, di personaggi
tatuati, di coppie ambigue, di giovani discinti nella calura, di
gente anziana dall'aspetto malandato; e con i suoi ristoranti,
taverne e bar, in cui la sera la musica è troppo forte, il buio
quasi pesto e vi è un pesante odor di birra. Quella sera, martedì 4
luglio, l'animazione era invece a qualche strada più all'ovest, dove
impazzava all'aperto il Festival del Jazz.
Mentre lo guardavo fissamente, la suggestione me lo faceva
immaginare, per un attimo, che muoveva la bocca. Parlava, così
com'era nella bara, sotto l'intensa luce bianca. E Nereo Lorenzi,
con quel suo riscoperto profilo alla Dante Alighieri, assurdamente
contraddiceva, criticava, precisava; puntiglioso, insistente,
irremovibile. Era lui, il Nereo di sempre: bastian contrario,
testardo, inflessibile, granitico.
I medici del Royal Victoria Hospital erano rimasti sorpresi nel
vedere la sua incredibile resistenza al male. Era in coma da
settimane, ma non voleva affatto andarsene. Teneva duro. Noi, che lo
conoscevamo bene, sapevamo che era fuori questione che Nereo se ne
andasse così, mollemente. "No way!"
"He is a big, strong man!" aveva detto con tono ammirato al nostro
editore, Basilio Giordano, uno dei medici che, al pari dei colleghi,
cercava di capirci qualcosa su questo paziente che non aveva
pronunciato una sola parola - era in coma - ma che sembrava
nascondere un mistero. Il medico che l'aveva accolto al pronto
soccorso aveva persino chiesto da che paese venisse, perché non
poteva credere che un abitante di Montréal potesse aver aspettato
così a lungo, lasciando il male avanzare tanto, prima di chiedere
aiuto. E in realtà l'aiuto lo aveva chiesto Basilio Giordano, contro
la volontà di Nereo, ormai ridotto al lumicino, ma che poco prima
dell'arrivo dell'ambulanza - come rivela un'ultima, struggente
fotografia - nelle lenzuola del letto di casa abbozza, di proposito,
una mimica beffarda con le braccia magre che cerca di sollevare in
un gesto comico di ribellione, ma che tradiscono un desiderio di
difesa, e con gli occhi che vogliono mandare un ultimo bagliore di
derisione canagliesca e che rivelano già la morte. Forse i guerrieri
muoiono così. I guerrieri in giacca e cravatta, educati e
puntigliosi, e pieni di amarezza, perché sopravvissuti a mondi
lontani, ad universi inghiottiti dal tempo, e che all'improvviso, in
un momento agghiacciante, si scoprono al termine del viaggio. Come
in quella poesia cantata da Leo Ferré, si ritrovano inchiodati sul
fondo della barca della vita, simili ad un cavallo vecchio e
stremato, schiantati dalla fatica e dalle delusioni, soli, e
raggelati dalla coscienza dell'assurda legge del caso.
Nel salone funerario, quattro, calcolando me, erano le persone
presenti. Altri - pochi - arriveranno in seguito. Alla spicciolata.
Non tutti si riconosceranno fra loro, ma si rivolgeranno egualmente
uno sguardo d'intesa, come di gente che ha un legame profondo e può
riconoscersi ad un semplice cenno.
Se la vista della salma di un esser caro fa emergere prepotente
l'ingiustizia delle cose della vita, questa volta aleggiava sulla
bara una sensazione ancora più surreale ed assurda. Non riuscivo ad
analizzare però questa sensazione, che continuava a pesare sulla mia
anima e a tormentarmi. Volevo riuscire a trovare una formula,
un'idea, una connessione, che desse una logica a tutto questo, ma
non ne ero capace.
Avrei voluto spiegarmi le ragioni per cui un uomo dinamico come
Nereo Lorenzi fosse finito sempre ai margini, morendo praticamente
in povertà. Avrei voluto sapere perché a settant'anni suonati,
incapace quasi di camminare, andasse "in ufficio" ogni mattina alla
Casa d'Italia di Montréal, dove redigeva, per una retribuzione
irrisoria, "La Comunità" per il Congresso Nazionale degli Italo-
Canadesi del Québec, ma dove soprattutto si poteva sentire attivo e
utile. Perché i suoi tre bei figli, di cui aveva nel portafoglio la
foto e che avrebbe voluti tutti a Montréal, fossero così lontani.
Perché avesse vissuto con un male, ben visibile a lui - praticamente
una parte del suo corpo andava lentamente in gangrena - vantandosi
fino all'ultimo di non aver mai avuto bisogno di medici e di non
aver neppure la tessera del "medicare", che la burocrazia del
Québec, assurdamente, gli negava a causa del fatto che lui "per una
questione di principio" non accettava di ottemperare ad una semplice
formalità. Perché il Nereo Lorenzi, così testardo è vero, ma pieno
di idee e d'iniziative, uomo coerente, onesto, sempre pronto alla
battuta graffiante, coraggioso e indomabile, fosse uscito dalle
battaglie concrete della vita sempre sconfitto. Lui che aveva la
capacità di tirarmi su, con la sua straordinaria forza interiore.
Lui che sembrava avesse di fronte a sé un'altra vita da vivere.
"Tu vieni da Montréal?" mi aveva chiesto questo istriano [Fausto
Vardabasso], residente in Venezuela, ex giornalista della RAI e
direttore di un giornale di lingua italiana di Caracas. Ci eravamo
incontrati a Roma durante un viaggio per giornalisti italiani
operanti all'estero. "Ma allora tu devi conoscere Nereo... Nereo
Lorenzi..." Gli dissi di sì. Gli occhi gli si accesero. "Che tipo
straordinario, pieno di talento, di idee, di iniziative." Rimasi
sorpreso. Mi raccontò che avevano lavorato assieme, nel dopoguerra,
quando erano profughi, mi pare a Padova, nella redazione di un
giornale. Era curioso di sapere cosa facesse adesso
Nereo. "Certamente sarà riuscito in tutto quello che ha intrapreso",
commentò infervorato.
Invece non era andata così. Nereo non era riuscito sul piano
materiale e neanche su quello familiare. Io lo avevo visto pochi
giorni prima, nella "piccola Italia" della via Saint-Laurent,
ridotto allo stremo, che cercava di riprendere qualche magra
collaborazione con uno dei giornali di lingua italiana di Montréal.
Era rientrato in Canada con le pive nel sacco, in provenienza da
Cosenza, dove il progetto familiare di stabilirsi nella città natale
della moglie era miseramente naufragato, spezzando la famiglia in
due: lui da un parte e la moglie e i tre figli dall'altra.
Fui evasivo. Risposi a questo giornalista di Caracas che Nereo era
da poco rientrato dall'Italia e che non sapevo cosa facesse.
Aggiunsi che era stato sfortunato.
E così altre volte ho udito parlare dei suoi brevi momenti "felici":
di quando era arbitro di gara, di quando era stato il primo a far
arrivare i giornali italiani a Montréal, di quando importava
prodotti italiani, di quando lavorava alla rivista "La Verità", di
quando era direttore del "Cittadino Canadese"...
Nereo mostrava con particolare orgoglio la sua vecchia tessera di
giornalista, ottenuta nel dopoguerra in Italia. Anche quelle tre o
quattro volte che aveva lavorato alla televisione e al cinema, qui a
Montréal, come caratterista, gli avevano fornito un motivo di
profonda soddisfazione. Tutto ciò aggiungeva qualcosa alla sua
tormentata identità professionale, o forse alla sua identità tout
court. Quante volte Nereo aveva dovuto difendere la sua identità
storica di italiano, nato a Fiume, con italiani che ignoravano tutto
delle nostra storia...
Sì, aveva sempre bisogno di precisare qualcosa su di sé con la gente
che incontrava per la prima volta, specialmente se la persona
proveniva dall'Italia. I suoi preamboli erano anche lunghi. Sembrava
che volesse dire: "Io non sono quello che sembro", oppure "Ho
conosciuto giorni migliori". Stentava a camminare, ma ci teneva a
farvi sapere che era già stato uno sciatore provetto. Una volta mi
disse: "Ho una salute di ferro... se non fosse per questo fastidio
ai piedi..." Il "fastidio ai piedi" era invece causato da un grave
problema circolatorio, ignorato da tutti, ma che lui certamente non
poteva ignorare.
Era un formalista, pronto ad arzigogolare su di un errore di stampa.
A parte la giacca e la cravatta che sempre indossava, ci teneva allo
stile, al rispetto e alla parola data. Veramente tutto d'un pezzo,
pochissimo elastico, era però capace di profonda riconoscenza.
Dino Fruchi mi ha raccontato: "Ricordo Lorenzi: alto, elegante,
brillante, simpatico. Veniva ogni tanto a vedermi quando ero parroco
alla Madonna della Difesa. Era una delle poche persone con cui si
provasse veramente piacere a parlare. L'ho rivisto tanti anni dopo e
l'ho trovato talmente invecchiato. Farà piacere, a tutti quelli
della nostra età che lo ricordano, di rivederlo in una fotografia di
quei tempi."
Monsignor Cimichella è giunto nel salone funerario all'improvviso.
Ho sperato che il suo intervento mi aiutasse a capire. Ho visto in
lui un padre che nel momento del dubbio rassicura i propri figli.
Invece la vista di quel Nereo, che conosceva così bene, ha provocato
anche nel padre dolore e smarrimento. L'arcivescovo ha detto delle
cose che non avevo mai udite e che è impossibile ripetere, perché
fatte di emozioni che la carta non può riprodurre. Chi era presente
potrà testimoniarlo. Il monsignore, vacillante e con la voce rotta
dai singhiozzi, ci ha portati sulle rive dell'enorme mistero, e per
un momento anch'egli ha vacillato, solo tra noi, che ci sentivamo
soli, e con al centro Nereo, ancora più solo.
Intorno a quel profilo plastificato e cereo, oltre alla sorella
Vanda - che lo aveva assistito quotidianamente per mesi
all'ospedale - vi era lo sparuto drappello degli amici giuliano-
dalmati. Vi erano i rappresentanti della stampa: Luciano Coraggio,
Giuseppe Mancini, Basilio Giordano. Ho scorto Giuseppe Di Battista
della Fiducie Canadienne-Italienne. Vi erano i rappresentanti dello
sport: l'ex campione canadese di pugilato Gaby Mancini e l'ex
campione canadese di marcia Nicola Marrone. Vi erano i
rappresentanti dei vari organismi comunitari. Beninteso, ognuno di
loro era venuto non per rappresentare, ma per un moto di affetto e
di rispetto.
In quel momento io avevo bisogno di trovare le cause, le ragioni, le
connessioni nascoste, i significati più ampi. Cercavo quel che Nereo
avesse rappresentato, nel convulso agitarsi della sua vita. Speravo
di trovare un disegno chiaro in tante linee confuse...
Ed è stato in quel momento che ho capito. Ho capito guardando il
volto dei giuliano-dalmati presenti, e intuendo le loro anime
plasmate dalla sconfitta, e ascoltando il fiumano Nino Florkiewitz,
che con espressione enigmatica, nelle conversazioni sul passato di
Fiume che si svolgevano nel salone funerario, con estrema calma ma
puntiglioso, precisava, correggeva, aggiungeva. Florkiewitz, il
rappresentante di Fiume e dei fiumani a Montréal, il contabile della
memoria collettiva. Una memoria che i libri di storia hanno distorto
o semplicemente ignorano. Ho capito allora che lì intorno a Nereo si
stringeva lo sparuto esercito dei profughi della Venezia Giulia e
della Dalmazia, gli ebrei del piccolo olocausto che non ha prodotto
film, i palestinesi di una diaspora che non ha causato terrorismo e
massacri. Sì, profughi... profughi, e non emigranti la cui storia è
sempre a tutto tondo, celebrativa e con successo finale. Non ci può
essere successo per chi ha perso il proprio universo fra
l'indifferenza di tutti, in un'Italia ufficiale che da sempre
inneggia alla sconfitta e celebra la "liberazione" delle terre
adriatiche e che ha osannato per tanti anni, Pertini in testa,
alla "civile" Jugoslavia.
Allora ho capito che con Nereo era caduto un soldato. Un soldato
intransigente, angoloso, senza compromessi, senza sfumature. Forse
troppo duro con chi, pur proveniente dalle nostre terre, non
riusciva a dimostrare una patente attiva di italianità. "Io non me
la faccio con chi va con i drusi", aveva risposto a me, che lo
incitavo ad andare ad una festa dei giuliano-dalmati di Montréal. E
siccome gli chiedevo chiarimenti, mi spiegò che lui aveva un test
molto semplice. Che gli si mostrasse il passaporto. Se la località
di nascita, per esempio Fiume, era scritta con la grafia jugoslava
ed accanto c'era scritto Jugoslavia, allora lui non poteva più
considerare italiana una tale persona. Sul suo, c'era invece
scritto "nato a Fiume, Italia". E lo mostrava come si mostra una
decorazione. Inoltre, puntiglioso, voleva sapere in che anno la
persona avesse lasciato le nostre terre. Se lo aveva fatto oltre una
certa data, allora a suo avviso si trattava di un emigrante e non di
un profugo. "Io sono un profugo", diceva.
Con Nereo era sparito un altro pezzo di un mondo che sopravvive solo
grazie alla memoria di questo esercito sparuto. È un mondo
minuscolo, di stampo austro-ungarico, prodotto dal confluire di
varie civiltà, di severa impronta morale ma dalla gioia di vivere
italiana, alieno dai compromessi, dagli equilibrismi, dai
voltafaccia. Nereo aveva incarnato questo mondo con la
determinazione di chi è cosciente di portare in sé qualcosa di
assoluto. Purtroppo questo mondo, inteso da lui in senso spasmodico,
era entrato in rotta di collisione, non solo con la vita pratica, ma
persino con quella familiare. Nereo, in una lettera che aveva
spedito alla figlia a Cosenza, nel preambolo, allo scopo di chiarire
non ricordo più che malinteso, diceva con forza che lui veniva da
una città civile e progredita; una città dove la mentalità era
aperta e schietta, per cui lui non poteva accettare certe mentalità
in cui a contare è soprattutto quel che pensano i vicini. In questa
perorazione io avevo visto il dramma di chi, solitaria vedetta, ha
valicato i confini, non riuscendo neppure più a riconoscersi nei
figli - assorbiti da altri universi - dopo essersi bruciato tutti i
vascelli alle spalle, per vigilare e proteggere la memoria del mondo
che gli era stato rubato. Ecco perché io dico: Nereo Lorenzi non era
un emigrante. Nereo Lorenzi era un profugo, un esule, morto dopo una
vita di soldato, lontano dalla sua piccola e grande patria: Fiume,
Italia.
Claudio Antonelli