Maggio 2002: Ritorno in Istria

di

Alessandro Cerboncini




LUGLIO 2003: PREFAZIONE

Mi sono deciso dopo oltre un anno, finalmente, a tirar giù questi appunti sul mio viaggio in Istria dell'anno scorso.
Rileggendoli oggi, a freddo, mi rendo conto chiaramente che, ad una distanza tale di tempo, certe situazioni sono già cambiate notevolmente e quindi alcune affermazioni sono superate, altre possono apparire oltremodo forti, direi tendenziose e chiaramente di parte.
E' per questo che vorrei che fosse ben lontana da queste righe e da me la presunzione di una qualsiasi validità scientifica, quanto piuttosto la raccolta di sensazioni ed emozioni che ho provato in quel preciso e circostanziato periodo di tempo durato poco più di una settimana.
Inoltre anche quest'anno, ritornando negli stessi posti, ho provato, se non le stesse, almeno simili impressioni sull'atmosfera generale, che respiravo attraverso la pelle, mi si aggrovigliavano nello stomaco e infine mi attanagliavano la gola, istintivamente, senza che evidenti ragioni razionali riuscissero a spiegarmi tutto ciò.
E' per questi motivi che ho voluto riportarli più o meno così come sono stati scritti, l'anno scorso, di getto e a caldo, seduto su uno scoglio, davanti al mare d'Istria che, come tante altre cose da quelle parti, ha sempre la stessa voce: l'unica però che va al di là ed è al di sopra delle diatribe umane.



Sono ormai circa 4 anni che visito più o meno regolarmente queste terre e i miei amici italiani che ci vivono, e ogni volta è un'emozione diversa. Si sono sempre succeduti in me sentimenti contrastanti, a volte opposti, e comunque molto forti.
Stavolta devo però ammettere che prevale in me la sensazione di rassegnazione e quasi di sconforto. Fin da quando mi avvicino al primo confine, e poi, poco dopo, al secondo, cerco, come al solito, di rendermi conto della situazione, cercando di captare tanti piccoli, impercettibili segnali che giungono dal mondo esterno.
E subito mi accorgo che niente è cambiato negli ultimi due anni, nonostante i proclamati cambiamenti politici, sia da una parte che dall'altra, che avevano dato l'n-esima speranza alla gente che vive a cavallo di queste tormentate quanto insulse barriere.
Le solite code ai confini, i soliti controlli, specialmente alle auto targate in un certo modo, i soliti sguardi sospettosi, umilianti per qualsiasi persona libera, senza più senso nel terzo millennio, proiettato verso l'Europa unita, ma che hanno ancor minor senso qui, in una terra da sempre abituata alla convivenza di popoli diversi.

La strada dal confine sulla Dragona verso Rovigno, specialmente nei primi chilometri, è una cosa veramente oscena e indegna di un paese civile. Stretta, tortuosa, piena di buche e avvallamenti, a tratti liscia come uno specchio. La trovo addirittura peggiorata rispetto a due anni prima, trovando conferma di quella pervicace e insulsa politica di mantenere, scientemente e consapevolmente, l'isolamento che da 50 anni a questa parte si è creato tra l'Istria e Trieste e l'Italia.
Si è fatto ogni sforzo, secondo me ancora invano, per legare questa penisola all'entroterra croato, abbattendo barriere, come quella del Monte Maggiore, verso Fiume, si sono costruite strade anche più veloci, ma che portano tutte verso Pisino e da qui a Fiume, ma la strada per Trieste è sempre la stessa, tortuosa e pericolosa. E in più quei due confini, tra due paesi che messi insieme non fanno la Lombardia! La strada per l'Italia è quindi sempre lunga e difficoltosa, per percorrere distanze che normalmente potremmo percorrere in poco più di un ora.

Nonostante la nuova era di democrazia annunciata in Croazia, e in particolare in Istria, i cartelli bilingui sono sempre gli stessi, e cioè i pochi che si trovano dopo il confine. Man mano che si percorrono i chilometri pian piano spariscono, e rimangono solo alcune scritte bilingui con evidente unico scopo a livello pubblicitario e turistico.
Quando si entra nell'area urbana di Rovigno, questi aumentano, ma si ha subito la sensazione che niente è cambiato: il bilinguismo resiste nelle insegne e nella cartellonistica per tenace volontà individuale dei singoli, e non per una scelta sociale, che fa parte della tradizione di queste terre.
D'altra parte ciò non mi meraviglia affatto, essendo quasi metà della popolazione dell'Istria, non solo non italiana o italiofona, ma neanche istriana, essendo composta da gente convogliata qui, più o meno forzosamente, dall'interno della Croazia, dalla Bosnia e immigrata dall'Albania.
Oltre a questo ho la percezione chiara che la gente istriana, e italiana in particolare, si mantiene ancora coperta e ben nascosta, senza dichiararsi o rivelarsi apertamente, diffidente ormai da decenni di cambiamenti che, anche quando annunciavano miglioramenti formidabili, si sono sempre rivelati disastrosi.
E' quello che ho avvertito anche stavolta parlando con i miei amici e guardandomi attorno per le strade. Ne ho avuto tante piccole conferme.
Non saprei altrimenti spiegarmi il fatto che, nonostante a Rovigno gli italiani siano più del 10%, non si senta quasi mai parlare italiano in giro. Il nostro carattere è notoriamente estroverso e festoso e circa 2.000 italiani per le strade e i calli di questa meravigliosa cittadina dovrebbero farsi sentire.
Temo che continui un lungo processo di assimilazione che, purtroppo, non si è mai basato sulla libera scelta, ma sull'intimidazione, sul terrorismo spionistico e poliziesco, anche presso la singola famiglia. Sono rimasto letteralmente esterrefatto e sbigottito quando, chiaccherando tranquillamente con i nostri amici la sera in cui siamo arrivati, ci hanno rivelato che il pacco natalizio che avevamo spedito loro in dicembre è arrivato dopo circa 40 giorni, aperto, con il contenuto completamente sconvolto da un evidente, accurato controllo delle autorità: perfino i pacchetti dei biscotti erano aperti!
Vorrei, se possibile, diffondere al massimo queste righe per dare la più ampia risonanza a questa denuncia di questa oscena realtà dei fatti: i proclami di democrazia fatti alle televisioni e sui giornali non contano assolutamente niente quando nella realtà quotidiana le persone, ed in particolare le famiglie appartenenti ad una minoranza già costituzionalmente in difficoltà, sono costrette all'umiliazione da questo stato di terrorismo poliziesco.
Gli uomini politici, in particolare quelli italiani, devono rendersi conto di questo e non dare per scontata l'acquisizione di principi liberali e democratici da parte di popolazioni che sono ancora lontane dal nostro standard culturale, consolidato ormai da secoli. Questo è indispensabile per poter colloquiare con loro e comprenderli.
Compresa la lingua: è assolutamente indispensabile che la classe politica si serva della collaborazione di quella ristretta fascia di intellettuali italiani che conoscono la lingua e la cultura croata, per poter comprendere ciò che scrivono i quotidiani ogni giorno contro di noi, e comprendere le radici di questo sentimento antitaliano.

Un'altra piccola conferma di questa visione l'ho avuta quando F. mi ha detto che, a distanza di un anno dal censimento degli italiani, non se ne conoscono ancora i risultati.
Ciò è molto sospetto nel senso che, a meno di una clamorosa inefficienza da parte dell'organizzazione statale, cosa sempre possibile, nasce spontanea l'ipotesi che, dopo le elezioni e la nuova speranza di democratizzazione del paese dell'anno scorso, gli italiani si siano dichiarati in numero maggiore di quanto previsto. Ciò può aver provocato reazioni non positive da parte delle autorità che tenderebbero a nascondere i risultati.
Può apparire un'ipotesi assurda in una realtà democratica consolidata, ma in questo caso, ripeto, è d'obbligo tener conto con chi abbiamo a che fare.
In questa situazione mi appare comprensibile, anche se non del tutto condivisibile, il caso di alcune famiglie miste di cui mi è stato raccontato, che preferiscono mandare i figli alla scuola croata anziché italiana, e scelgono di parlare quotidianamente il croato.
Evidentemente si ha ancora paura di ritorsioni e discriminazioni, e nelle famiglie non si tenta di salvare, non dico l'italianità, ma nemmeno il bilinguismo.
Il rischio di una completa assimilazione della minoranza italiana autoctona è quindi avvertito come reale, anche dalla gente del posto.
Questo avrebbe conseguenze catastrofiche per il mantenimento della memoria storica, delle tradizioni e della cultura autenticamente istriane.

Un piccolo segnale positivo e un passo in avanti di cui vengo a conoscenza è il fatto che è da poco stata modificata la legge che impediva agli italiani di acquistare beni immobili qui in Istria.
Questo ha accelerato il processo già in atto di progressiva acquisizione e ristrutturazione da parte di gente proveniente dai vicini Veneto e Friuli di un gran numero di case.
Nella maggior parte dei casi però non si tratta di esuli o discendenti di esuli o parenti dei rimasti, ma di persone che hanno semplicemente esigenze turistiche, unite alla vicinanza geografica, senza alcun legame vero con il territorio e la cultura.
In effetti, specialmente in questi giorni, gran parte della gente per le strade ed i vicoli è italiana, ma si capisce subito che ha poca conoscenza della storia, dell'arte e della cultura di questi posti. Ne parla come si potrebbe parlare di un qualsiasi altro luogo di villeggiatura, senza particolari trasporti emotivi.
Non c'è da biasimare nessuno al riguardo, visto l'oblio in cui è stata tenuta tutta questa fetta di storia dalla storiografia ufficiale e dai mass media.
C'è soltanto da prendere atto che se, come è naturale, un giorno la lingua e la cultura italiana riprenderanno vita in queste terre, ciò sarà semplicemente dovuto all'unico motore veramente capace di muovere in questo momento le cose e cioè quello economico.
Sarà una cultura italiana reimportata per esigenze di compagnie turistiche, di imprese e di singoli privati con particolari interessi rivolti a quest'area, senza che ci possa essere grande continuità con la storia e le tradizioni passate.
La grande ferita non sarà rimarginata, ma sarà solo ricucita superficialmente.
Ciò è molto pericoloso perché, come sappiamo, se non si prende conoscenza del passato, si rischia di rivivere tutti i suoi problemi, magari accentuati da altri che si sono sovrapposti.
Non hanno questa memoria storica gli italiani, a cui è stata negata per decenni la conoscenza di quanto sangue versato in queste terre e dei motivi di ciò. Non può avere memoria storica la maggioranza dei croati residenti attualmente in Istria, per i quali la conoscenza della presenza passata della maggioranza italiana in quei luoghi risulta essere traumatizzante, essendo loro stessi sradicati. E così esuli e rimasti rischiano di estinguersi o di essere assimilati senza rimedio nel gorgo di quanto successo 60 anni fa.

L'errore fatto dal fascismo italiano prima, dal comunismo jugoslavo poi e dal nazionalismo croato adesso, di considerare queste terre una colonia, anziché una regione capace di autodeterminare la propria scelta di convivenza tra lingue e culture diverse, al di là e oltre le ideologie, rischierà di ripetersi se non si recuperano immediatamente la memoria storica e le spiegazioni razionali di una tragedia.
Questa forma di integrazione puramente economica e imposta da leggi di mercato, che pure in questo momento appare il male minore, risulta comunque ancora lontana.
L'imprenditoria croata e tutta quanta l'economia, sembra essere tuttora rivolta quasi esclusivamente verso il mercato balcanico, in una ottusa e miope protezione di un mercato in estinzione e chiusura verso il mercato europeo.
Ho avuto questa sensazione quando ho avuto la fortuna di visitare uno stabilimento produttivo della zona, ma anche andando in giro e osservando le vetrine dei negozi e i beni di consumo comunemente usati, ci si può facilmente rendere conto che questo paese è ancora molto isolato.
Sotto questo aspetto non sembra di essere a 100 km dall'Italia, ma a 1000 km, nella pianura ungherese. L'esempio del pacco natalizio che ci mette 40 giorni per arrivare, con costi 10 volte superiori a quelli per l'Austria o la Francia, perquisito e seviziato, ne è un esempio lampante.
Saranno ancora una volta, come nel passato, forti interessi esterni a decidere se quest'area debba essere riunita sotto un unico Dio economico o se debba rimanere divisa.
Saranno gli stati centrali di Italia, Austria, Slovenia e Croazia, oltre al grande fratello tedesco onnipresente, ogniscente, che vuole insegnare a tutti e che ha ancora molto da capire sui suoi errori.
A meno che le singole regioni come Veneto, Friuli, Istria, Carinzia, Dalmazia e Kraniska-Gorz non si muovano in anticipo per creare un legame, oltre che economico, anche storico-culturale e di convivenza civile.

Una speranza viene da C., il figlio di F., che sembra aver realizzato il suo sogno istriano. Dopo aver passato qualche anno in Italia alla ricerca di un improbabile inserimento in qualche azienda, l'amore verso la sua terra e la passione per il mare l'hanno spinto di nuovo a casa.
Ora , con un amico anche lui italiano, ha avviato felicemente una attività di commercializzazione, prendendo la merce in Italia e distribuendola in Istria e Dalmazia, con un negozio di appoggio a Rovigno.
A volte esce di notte a pescare con la sua barca, dotato di una tecnica particolare e sembra l'uomo più felice di questo mondo. Ha trovato come compagna una bella e fiera ragazza istriana autentica. Tutto questo mi riempie di gioia e di speranza e, allo stesso tempo, mi inorgoglisce come italiano, perché una idea imprenditoriale come quella di C., sebbene a noi possa sembrare semplice, non lo è da queste parti e non è facile da realizzare.
Comunque sono convinto che è più probabile che venga da gente della nostra estrazione culturale, piuttosto che ad altri. I fatti lo dimostrano.

Una delle caratteristiche che ci salva sempre è poi la nostra autoironia, il nostro non prenderci troppo sul serio.
Avevo già notato, appena arrivato 4 anni fa, che la casa di F., sebbene molto bella e curata, nella sua semplicità, aveva qualcosa di incompiuto, come se all'improvviso il tempo si fosse fermato.
Ciò aveva poi la sua giustificazione nel lungo travaglio che queste terre, che F. mi ha raccontato, hanno subito anche negli ultimi 15 anni di storia.
Infatti, dapprima il crollo verticale dell'economia jugoslava, poi la guerra del '91, hanno interrotto uno sviluppo che sembrava ormai avviato.
Cosi' uno dei tanti servizi che sono rimasti in sospeso nella zona di residenziale è stata la denominazione di tante nuove strade e la numerazione civica.
Ho così notato con piacere che, dopo oltre 10 anni da che questo quartiere è sorto, quest'anno ho trovato nuovi, fiammanti cartelli di identificazione delle strade e nuove targhette di numerazione delle case. Inoltre la maggior parte delle strade intorno sono intitolate a personaggi storici, molto probabilmente istriani, ma dalla chiara estrazione italiana.
Il giorno in cui abbiamo notato questo e che, invece, l'unico nome esclusivamente di carattere croato, certo M. B. R.(quasi uguale la traduzione in italiano, diligentemente e correttamente riportata), era stato attribuito alla strada in cui abita F., ci siamo fatti insieme a lui delle sonore sghignazzate a questo proposito, fantasticando di ipotetici complotti a livello comunale, per fargli dispetto in questo modo. Anche lui ha ammesso divertito. "Hai ragione! Mi hanno dato proprio un nome "catastrofico" e impronunciabile anche per me!"

La vista al cimitero di Rovigno, che volevo fare da tanto tempo e che abbiamo fatto durante una passeggiata nella zona di Valdibora, ha confermato le mie sensazioni negative sulla volontà di mantenere nella più completa indifferenza ed oblio la passata presenza della maggioranza assoluta italiana.
Nonostante siano passati oltre 50 anni dall'esodo, più della metà delle tombe sono ancor oggi di persone e famiglie italiane. Basta notare questo per rilevare un evidente contrasto con quello che succede al di fuori di quelle mura, nel mondo dei vivi, in cui la presenza italiana, se ancora esiste in una certa percentuale, è tenuta ben nascosta.
Man mano che gli spazi sono liberati, si vede che le nuove e luccicanti lapidi delle tombe croate sono mescolate qua e là con le più vecchie e consunte lapidi incise in lingua italiana.
Ad un certo momento, aggirandomi assorto per i tranquilli vialetti fiancheggiati da cipressi, penso che se, come d'incanto, si dimenticasse tutto quanto è successo, questa mescolanza pressoché omogenea potrebbe indicare all'ignaro visitatore una pacifica coesistenza.
Ma subito mi ravvedo, considerando che ci sarebbero, comunque, due fatti che contraddirebbero questa ipotesi.
Il primo è la frattura temporale che comunque si noterebbe tra i due tipi di sepolture e il secondo è che i nomi non si mescolano quasi mai e le iscrizioni in doppia lingua sono veramente in numero esiguo. Pur avendo sentito di episodi passati di profanazioni di tombe italiane, sono comunque preoccupato perché, anche a cose normali, è legge di mondo che, dopo un certo tempo, se le tombe non vengono più curate e non esistono più parenti interessati, lo spazio venga liberato per nuovi "inquilini". In questo senso mi fanno tristezza due o tre lapidi italiane che sono state recentemente rimosse e che vedo giacere appoggiate al tronco di un cipresso.
Mi tranquillizza però la sera F., quando mi dice che le lapidi vengono non già distrutte, ma depositate in un apposito lapidario. Inoltre tutta l'operazione di conservazione delle tombe e delle lapidi è finanziata dallo stato italiano. Ritengo questo uno dei piccoli aspetti positivi che osservo durante il mio viaggio e indispensabile per mantenere la memoria.

Ma non è sufficiente a controbilanciare il generale senso di travisamento e stravolgimento della realtà e della storia che ti pervade, anche semplicemente passeggiando per i calli della vecchia città. Mi riassale di nuovo la traumatizzante certezza della volontà assoluta di questo popolo di negare la storia. Non sia ha assolutamente sentore che, sia la gente che popola i vicoli, sia i turisti che vi vagano a naso in su, come galleggiando, abbiano la consapevolezza che tutto ciò, da Capodistria a Ragusa, è veneziano.
Più volte F. Mi ha raccontato che nelle scuole di qui viene insegnato ai bambini che prima i Romani, e dopo i veneziani, sono stati degli usurpatori.
Questa mentalità barbarica e balcanica li porta alla convinzione che tutte le città da loro popolate da appena 2 o 3 generazioni siano opera croata.
Le calunnie diffuse sull'origine di Marco Polo, Carpaccio od Orsini vengono diffuse nei depliants e negli spot pubblicitari prendendo probabilmente all'amo anche ignari turisti occidentali, molti dei quali sappiamo essere sprovveduti, più per demerito delle nostre scuole che per colpa dei croati.
Si continua a far leva sull'origine etnica delle persone, non rendendosi ancora conto che l'appartenenza ha un significato assolutamente culturale e linguistico.
In questo senso i personaggi in questione, istriani e dalmati, avevano una componente italiana, se non assoluta, per lo meno predominante.
Questi fatti dimostrano ancora una volta il carattere balcanico di questi popoli, che continuando a far leva sul fattore etnico, spingono le relazioni tra i popoli in un gorgo di cui abbiamo visto i risultati e civiltà composite meravigliose come quella istriana e dalmata alla quasi completa estinzione.
Non riesco a capire e a capacitarmi di questo odio profondo che aggroviglia le budella dei croati per la gente e la cultura di origine italica.
Sia leggendo che viaggiando, ho avuto notizia e toccato con mano, che ovunque nel Mediterraneo le vestigia e i monumenti romani e veneziani, così come di tutte le altre civiltà italiche precedenti, contemporanee e successive, vengono esposte e valorizzate con orgoglio, come testimonianze di periodi storici apportatori di civiltà e ricchezza in quelle terre.
Ciò è stato riconosciuto da tutti gli storici del mondo civile, e non è solo retaggio di un gretto e ristretto circolo culturale italiano.
Ne è testimonianza tutta la letteratura, la storiografia, la glottologia e tutte le altre scienze annesse di origine anglosassone, tedesca e di ogni altra area linguistica del mondo democratico. Solo questo piccolo popolo di pastori balcanici, che una somma casuale di eventi storici favorevoli ha portato solo di recente ad avere uno sbocco significativo al mare, ha questo astio ancestrale contro la cultura e civiltà latina.
Ciò li porta a negare completamente la passata presenza di altri popoli e a stravolgere completamente la realtà, facendo passare per croate le città e i palazzi che sono stati costruiti quando i loro avi erano all'interno e vivevano di pastorizia o facendo passare per croati dei personaggi storici che vivevano culturalmente secoli avanti ai loro contemporanei pastori dell'interno.
Penso che ciò richieda un approfondimento e la ricerca di una razionale spiegazione storica. Se mai qualcuno dovesse leggere queste righe, chiedo umilmente lumi al riguardo.

Pensando a tutto questo mi si è scolpita ancor più chiara in mente l'impressione che ho avuto per la festa del 1o maggio.
Nel parco di Rovigno, a Punta Corrente, sono allestiti per tradizione banchetti, orchestrine, giochi e balli. E' una giornata solare e festosa, con centinaia di persone che percorrono a passeggio i vialetti e i prati verdissimi, pieni di ragazzi che giocano chiassosamente e festosamente a pallone o altri giochi. E' una bella festa di gente, di colori e di suoni, oltre che di odori e sapori delle grigliate.
Ma, allo stesso tempo, è la prima volta che mi sento veramente straniero, e direi, estraneo in quel posto, dove assolutamente nulla, sia nella lingua che nella gestualità di quella gente mi suona familiare. E quello che ancora mi fa più male è l'inquietudine del nostro amico, che ci accompagna, che sento non troverà più pace per l'eternità.
E' come se fisicamente avvertissi il suo sguardo, che in mezzo alla folla cerca disperatamente qualcosa di familiare.
Ogni tanto il miracolo accade e, come dei fantasmi, compaiono dalla massa indistinta della folla delle persone dai volti più familiari e dall'espressione più aperta, che si avvicinano e, come d'incanto, ci salutano nella bella parlata istro-veneta, scambiano quattro battute con F., si uniscono a noi in un caloroso saluto. E' così che incontriamo G. e la M., quelli del vin bon, G. e gli amici che suonavano insieme a F. Ai tempi d'oro della band e altri ancora che, con le loro battute, rendono più colorita e umana quell'atmosfera. Ma sono veramente gocce in un mare, e non posso fare altro che prendere atto, con infinita tristezza, della tenacia e perseveranza che ha avuto in tutti questi anni questa gente per mantenere un minimo di identità propria.
Solo l'orchestrina, ad un certo punto, attacca dei motivi tradizionali italiani. Ma è roba del tipo "Romagna mia" che si potrebbe suonare in qualsiasi posto al mondo e che quindi non mi sembra un particolare riconoscimento all'italianità residua del posto.
Poco più giù, di fronte al ristorante, si esibisce invece il gruppo folkloristico locale "La viecia Battana" che esegue malinconici motivi istriani.
Mi chiedo però quanti dei sopravvenuti, locali o turisti, siano veramente consapevoli del valore tradizionale di quelle canzoni, e quanti, al contrario, considerano quel gruppo uno dei tanti stereotipi del pittoresco folklore italiano che gira per il mondo.
Sembra che un'onda telepatica tenga legati i miei pensieri a quelli di F., e camminando lungo la via del ritorno, lui dà sfogo ancora una volta alla sua amarezza, come continuando un discorso appena interrotto. Ha ripercorso ancora la sua vita che affonda le proprie radici nel ricordo di suo padre, militare con l'esercito italiano per ben 7 anni, umile e povero pescatore, a cui fu negata l'opzione per la cittadinanza italiana con motivazioni pretestuose. La sua sofferenza e della sua famiglia per potersi ritagliare una posizione dignitosa nella società, mantenendo la propria identità. I sacrifici per potersi costruire la casa sotto la Yugoslavia e subito dopo il disastro economico quando appena le cose sembravano andare per il meglio. La sua tenacia nel ricuperare la propria cittadinanza e passaporto italiani, essendo nato pochi mesi prima del trattato del '47, per poter dare continuità alla propria identità a quella di suo figlio e, di conseguenza, ai suoi discendenti.
E' per tutto questo, pensando a questi 50 anni passati oltre una barriera invalicabile e sotto un regime oppressivo, mantenendo la testimonianza della presenza italiana qui, che F., come i pochi altri autoctoni rimasti, non possono che guardare con diffidenza, se non con ostilità, al futuro che si prospetta, in cui da un lato ci sono i nuovi padroni, insediati da 2 o 3 generazioni, che non hanno niente a che spartire con l'identità del luogo, e dall'altra ci sono i nuovi italiani, discendenti o no degli esuli, che se ne ritornano dopo tutto questo tempo esibendo la loro ricchezza, le loro automobili e comprando case.
La gente di qui pensa che anche a questi ultimi non interessi molto la sorte di queste terre.