Considerazioni sul patrimonio artistico proveniente dall'Istria

di Alessandro Cerboncini

Ho letto con estremo interesse e, direi, affascinato, l’articolo comparso su “Il Piccolo” di sabato 4 maggio sulla pagina Cultura&Spettacoli riguardante il patrimonio artistico proveniente dall’Istria e che viene esposto in questi giorni a Palazzo Venezia a Roma, dopo che per oltre 50 anni era rimasto chiuso in casse.

Sono rimasto però letteralmente angosciato da una frase, inquietante quanto vaga, sul fatto che occorrerebbe dirimere una questione diplomatica con Slovenia e Croazia, debbo supporre sulla destinazione futura di queste opere.

La graduale scomparsa delle popolazioni e delle culture di lingua romanza dall’altra sponda dell’Adriatico trova diverse giustificazioni e motivazioni storiche e razionali, che sono diluite su un arco di tempo abbastanza lungo a partire dal declino della Repubblica di Venezia, la sua caduta, l’avvento dell’Impero Austroungarico, l’unità d’Italia che spezzò il legame secolare di quelle terre con la matrice italiana, la crisi dell’Impero stesso, che costrinse quest’ultimo, nella sua fase finale, a dare più peso interno all’elemento slavo numericamente ormai preponderante.

Tutto ciò comunque non basta a giustificare l’ultimo, tragico, traumatico atto di questo processo che ha portato allo sconvolgente abbandono dell’Istria, a cavallo della fine dell’ultimo conflitto mondiale, da parte della allora maggioranza italiana.

Nonostante i meccanismi politico-tattici con i quali questo si è determinato siano stati sufficientemente chiariti e appaiano ormai in gran parte noti, non riesco ancora a cogliere le profonde ragioni storiche per cui, a seguito degli eventi bellici, l’Italia abbia dovuto cedere una intera regione sotto la ridicola giustificazione di risarcimento dei danni di guerra. Se ciò fosse vero la Germania oggi non dovrebbe nemmeno più esistere, mentre al contrario ha potuto riunificarsi.

Partendo da queste considerazioni mi auguro quindi che, dopo aver venduto quelle terre in cambio non si sa bene di che cosa, l’Italia non venda anche la propria cultura e, con essa, la propria identità e, insieme a queste opere, una delle ultime testimonianze della sua presenza basilare e fondamentale in quelle regioni e che ne ha dato, e tuttora ne dà, l’impronta e il segno di riconoscimento primario.

Continuo a pensare, e il mio ultimo recente viaggio in Istria me lo ha confermato, che i nostri politici e storici italiani dovrebbero maggiormente conoscere le lingue e le culture slave e balcaniche (e in questo senso l’area culturale di Trieste è fondamentale) per capire con chi si ha a che fare.

Per avere un dialogo democratico bisogna essere in due o più a volerlo, e gli interlocutori devono essere più o meno allineati sugli stessi concetti. Noi occidentali da questo punto di vista diamo tutto per scontato, perché le nostre democrazie sono consolidate da tempo, ma per altri le cose non stanno in questo modo.

Nel caso specifico, e mi riferisco alla Croazia che conosco meglio, abbiamo a che fare con popoli che insegnano ai propri bambini nelle scuole che la presenza dei Veneziani nel corso di 1000 anni di storia era usurpatoria, che negano nella maggior parte dei casi che tale presenza ci sia stata, cercando di cancellarne le tracce. Nelle guide turistiche e per le strade difficilmente si fa riferimento alla storia, se non in termini molto vaghi, cercando di insinuare nel visitatore, nella maggior parte dei casi ignaro, la menzogna che tutto è croato. Basta vedere gli spot pubblicitari per rendersene conto. Si usa con riluttanza la vecchia, secolare, originale toponomastica che è stata usata per secoli fino a Ragusa ed oltre sull’Adriatico, sostituendola con la toponomastica croata, ben poco usata nel passato, e tutto è fatto ad arte per indurre chi si avvicina per la prima volta a questa realtà a credere di venire in contatto con una nuova realtà autoctona e quasi dal sapore esotico, mentre invece è tutto perfettamente logico e,direi, familiare se inquadrato nella storia d’Italia e d’Europa.Si disquisisce continuamente sulla vera origine di personaggi storici come Marco Polo, Carpaccio o Orsini, rivendicandone la paternità a fini puramente nazionalistici, cercandone le giustificazioni su base etnica, ben lungi dal concetto ben più profondo e civile che l’appartenenza ha soprattutto un connotato linguistico e, quindi, culturale e ancora ben lontani dalla comprensione degli affetti catastrofici che può provocare l’innesto di un gorgo etnico, vedi gli ultimi effetti su ciò che rimane della Yugoslavia. Anche il bilinguismo viene praticato con riluttanza, sebbene proclamato a gran voce ufficialmente, anche se tutti capiscono l’italiano e sono in grado di parlarlo per motivi essenzialmente utilitaristici, dando esso qualche possibilità in più di lavoro ai giovani vista la vicinanza con l’Italia, che non il solo croato. Credo che sia anche per questo che la minoranza italiana, sebbene non trascurabile numericamente, si sente poco, e se ne sta ben coperta e allineata. In questo contesto, restituire queste opere d’arte alla loro originale collocazione, significherebbe, attualmente, offrire un ulteriore pretesto a questi ottusi nazionalismi per impossessarsene in modo improprio e fuorviante, al di là delle assicurazioni formali che sicuramente ci sarebbero e di cui non c’è assolutamente da fidarsi.

Sarebbe necessario, ripeto, che i nostri politici, storici, giornalisti, capissero il croato, per leggere quante ne sparano, ogni giorno, i giornali della “democratica” Istria contro la cultura, la lingua e tutto ciò che è direttamente o indirettamente italiano.

Per tutto questo ritengo che non ci sia affatto nessuna questione da dirimere diplomaticamente e l’Italia deve (cosa che non ha quasi mai fatto) essere inflessibile nel suo ruolo guida nella democratizzazione di questi paesi.

Le opere, in breve, devono, prima di ritornare giustamente nella loro collocazione naturale che è l’Istria, rimanere in Italia fintanto che questa regione e tutto il litorale adriatico non si vedano riconosciute, in un contesto europeo, ma partendo da singole realtà nazionali consolidate definitivamente nei fatti in senso democratico, una loro autonomia e capacità di autodeterminazione, in seno alla quale siano definitivamente e ufficialmente riconosciute sia gli obiettivi decorso e memoria storici di queste terre, sia il diritto delle varie etnie, lingue e culture di coesistere effettivamente e praticamente nel contesto economico e di mercato europei.

Deve essere completamente superato,in sintesi, il concetto di vedere queste terre,da parte di tutti i nazionalismi coinvolti, come colonie e terre di conquista e permettere che loro stesse trovino la loro collocazione e equilibrio naturali in seno all’Europa.

Conoscendo la situazione, e non solo sulla carta ma anche un po’ nella realtà quotidiana, credo che non sia possibile che ciò si verifichi prima che passino parecchi lustri.

Alessandro Cerboncini