“Ricordi di un esule” di Francesco Covelli

 

Eravamo nel 1915, per ordine della Marina Imperiale Austro-ungarica, migliaia di treni bestiame allontanarono dall’Istria donne e bambini. Gli uomini no! Dovevano rimanere per produrre o per essere arruolati.

La nonna paterna, con cinque figli, ebbe la fortuna di essere trasferita nei pressi Wiener Neustadt in Austria. Non ebbero sofferenze salvo la fame. D’altra parte questo era il problema di tutti gli austriaci. Il nonno, con i restanti due figli, rimase a lavorare in arsenale. Mio padre, verso la fine della guerra, fu richiamato a Pola per essere arruolato nella marina e destinato all’imbarco sui sommergibili.

La nonna materna, con cinque figli e due nipoti fu inviata in Ungheria, nei pressi di Mohac. Per loro e logicamente per tutte le migliaia di persone che erano in quel campo furono quattro anni di sofferenze. Mia mamma era una bambina ma ricordava tutto, quando raccontava di quei tempi. Mi raccontava sempre di quel lunghissimo viaggio nei carri bestiame. La sete, la fame, le scomodità fisiologiche, i pianti dei più piccoli ed infine le preoccupazioni dei grandi per i congiunti lasciati a casa.

Sarà forse una malattia della razza tedesca l’utilizzo dei campi di concentramento e dei carri bestiame per il trasporto delle persone indesiderate?

Di quegli anni, la mia mamma, si ricordava bene solo della fame, del freddo in inverno ed il caldo estivo.

Ricordava le paffute contadine ungheresi che ridevano delle disgrazie dei profughi e “sporchi talianski”. Ricordava i carri di queste contadine che trasportavano in città i loro prodotti: latte, burro, formaggi, carne.

Riesco immaginare le sofferenze di quei bambini abituati alle loro case abbandonate dove non mancava mai un pezzo di pane, del formaggio ed un bicchiere di latte.

In quel campo la mia mamma lasciò il suo fratellino più piccolo, morto di bronchite e di stenti.

Finita la guerra ritornarono tutte alle loro case, sia la famiglia di mia nonna paterna che quella materna. Non ebbero altre sofferenze dai congiunti rimasti a casa.

Finalmente arrivò il 1940! L’anno della riscossa! L’anno della vittoria del bene sul male! L’anno dell’espansione delle italiche legioni! L’anno del riscatto!

La nave sulla quale era imbarcato mio padre, mi sembra il “Carducci”, fu una delle prime ad affondare nei pressi di Durazzo. Trasportava merci e militari. Mio padre si salvò per miracolo, riuscì, nonostante la sua mole, ad uscire dall’oblò! Dei militari imbarcati, quasi nessuno si salvò! Immaginatevi, in divisa, con gli scarponi e quelle famigerate fasce, come potevano salvarsi. Logicamente la nave non viaggiava da sola, ma in convoglio fortemente scortato.

Per mio padre iniziò la giostra di tutti i marittimi dall’ora, Napoli - Tripoli, Napoli - Tobruck, Napoli - Bengasi, cambiava delle volte il porto di partenza ma quelli d’arrivo, erano sempre quelli. Mi parlava dell’ansia durante i viaggi. Delle navi che, vicino alla sua, affondavano e pochi erano i superstiti, tra i quali tantissimi amici che anch’io conoscevo.

Merci trasportate in Libia e prigionieri trasferiti in Italia.

Arrivò la sera del 13 dicembre 1942. Partirono dal porto di Trapani due navi mercantili stracariche di fusti di benzina, scortate da un cacciatorpediniere, destinazione Tunisi. Erano i tempi della ritirata da El-Alamein.

Su una delle due navi, “Ugo Foscolo”, era imbarcato mio padre. A due ore dalla partenza, nella fitta oscurità, a 40 miglia di distanza dalla costa due idrovolanti, dopo aver lanciato i bengala e centrato le navi, lanciarono anche i siluri. Il cacciatorpediniere non “sparò neanche con le scacciacani”, queste furono le parole di mio padre. Sono certo della veridicità delle sue parole, confermate da Trizzino in un libro, del quale non ricordo più il titolo. Una nave riuscì a fuggire grazie all’oscurità, ma fu affondata nei pressi di Tunisi. Il cacciatorpediniere si allontanò senza dare alcun’assistenza ai naufraghi. Mi raccontò d’essersi salvato dal risucchio della nave perché era riuscito ad afferrarsi ad uno zatterone di salvataggio destinato alle truppe. Trascinato in fondo al mare, lo zatterone schizzò come un tappo di spumante. Si ritrovò a galla in mezzo ad un inferno di fiamme. Chiazze di nafta in fiamme. Fusti di benzina che esplodevano innaffiando le fiamme d’altro combustibile. Rimase in mare per tre ore e mezzo. Ad un certo momento senti il rumore di un motore di un’imbarcazione ed alcune voci che parlavano tedesco. Parlando perfettamente quella lingua, chiese aiuto e così fu salvato da un MAS tedesco.

Eccomi, a Fiume, alle 18,30 dell’8 settembre 1943.

Eravamo a tavola, stavamo per iniziare a cenare, quando dalla compagnia del genio che custodiva la polveriera, che si trovava a cento metri da casa mia, vennero delle urla di gioia: “Viva l’Italia”, “Viva il Re”, “Viva la pace”, ”Torniamo a casa”. Mio padre rimase un po’ in silenzio, poi disse: “Zighe, zighe stupidi! Apena adeso per noi ‘riva la guera!”.

Fu, certamente un vero profeta.

Nei tre giorni che seguirono, fu un susseguirsi di militari istriani, conoscendo il nostro indirizzo, venivano a chiederci abiti per cambiarsi.

Al terzo giorno, alla compagnia del genio giunsero sei tedeschi comandati da un sottufficiale. Si fecero consegnare le chiavi della polveriera, inquadrarono i nostri militari, li obbligarono a portare anche le armi e munizioni e s’avviarono verso la città.

Fu uno spettacolo triste. Molti di quei militari avevano giocato con me.

A prendere consegna della polveriera venne un reparto di truppe da montagna tedesche. Requisirono sei o sette case di Via Trento, proprio sotto la mia, e rimasero sino la notte del 2 maggio 1945.

Ho già detto, mio padre parlava tedesco e quindi approfittarono per venir ad ascoltare ogni tanto “Radio Londra”. Divenni la loro “mascotte”.  Mi facevano giocare con le loro armi, con il piccolo mortaio italiano “Brixia”, preda di guerra, con i loro fucili, piazzavano apposta per me anche la loro mitragliatrice. Un tedesco, addirittura, smontò due bombe a mano affinché fossi sufficientemente armato. Logicamente le armi erano state tutte rese inoffensive.

Non c’è che dire. In tutte le parti del mondo esistono delle bestie ma anche delle brave persone. 

Ritorniamo ai primi di settembre del 1943. Si udivano racconti incredibili. La gente, sottovoce, parlava non solo di militari uccisi, ma anche di civili.

Non era come ai nostri tempi che basta accendere il telefonino ed ecco fatto!

I mezzi di comunicazione erano scarsi se non inesistenti.

Mio padre non aveva notizie dei suoi familiari da Pola e da Trieste. Mia mamma dai suoi da Sanvincenti. Dopo essersi consultati tra loro, mio padre decise di partire, magari a piedi, verso Sanvincenti. Si presentò al comando tedesco per il lasciapassare che gli fu negato. Fu una fortuna. Erano i giorni della massima “mattanza” dei compagni slavi.

A metà ottobre riuscimmo arrivare a Sanvincenti. Nessuna notizia del fratello di mia mamma e del figlio più piccolo di mia zia. Il marito di mia zia era stato liberato dai tedeschi a Pisino. Era stato catturato assieme al figlio, a suo cognato ed altri sanvincentini. Si può ben immaginare la tristezza nella mia famiglia e, se non bastasse, mio padre fu informato della scomparsa di suo fratello a Spalato.

Ad ogni notizia di ritrovamento di cadaveri in qualche foiba, mio padre accompagnava mia zia per le eventuali identificazioni. Ai primi di novembre del 1943, giunse la triste notizia: nella cava di bauxite di Gallignana avevano estratto 44 salme. Tra queste c’era mio zio e mio cugino. Furono ritrovati tutti nudi, con le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro. Mio zio fu riconosciuto dalla fede nuziale e mio cugino da un calzino.

Era forse l’8 o 9 di novembre. La giornata era tetra, c’era stata quasi per tutto il giorno una pioggerellina fastidiosa. L’umidità stagnava nell’aria. Assieme agli altri ragazzini, come sempre, giocavo in piazza, intorno alla cisterna, proprio davanti al Castello dei Grimani. All’improvviso le campane iniziarono a suonare a morto. Credetemi! Le sento ancora oggi. Corsi verso il lato destro del castello e dalla strada di Pisino vidi avvicinarsi lentamente un’ambulanza militare. Vidi mia zia sporgersi dalla finestra e gridare “Renato! Renato mio”. L’ambulanza si fermò davanti al castello. Furono estratte le sei bare. Mio cugino Omero prese la bara di suo fratello e s’incamminò su per le scale verso la camera ardente, verso il salone delle feste del castello. Mentre saliva le scale, io dietro a lui, lo sentivo dire “ No Renato, non te laso portar da nesun, ghe son mi”. Lascio a voi giudicare lo stato d’animo di un ragazzo di nove anni che vede le casse da morto dove si trovano suo zio più adorato e suo cugino con il quale aveva trascorso un’infinità d’ore.

L’indomani il funerale. Mai si era visto in paese una cosa del genere. Sei morti dello stesso paese, accompagnati nel medesimo momento, al cimitero. Mi sembra che tre anni prima ci fu il funerale di cinque minatori uccisi nella miniera dell’Arsia ma erano delle varie frazioni, non abitavano una vicino l’altra.

Sei abitanti del paese massacrate per vendetta o per odio, mai!

Pochi giorni dopo ritornammo a Fiume. Le famiglie di mia mamma furono trasportate a Dignano, dove rimasero fino al 1948 quando, con il“Toscana” raggiunsero l’Italia, destinazione Torino, che divenne la città dei “bumbari”.

Eravamo ormai alla fine del 1943.

Strane voci circolavano nelle riunioni tra amici o amiche. Molti dicevano: “ciacole de babe”. Sembrava impossibile che fosse vero quello che si vociferava. Atti di una atrocità inimmaginabile. Militari ritrovati con il cranio completamente schiacciato dai calci dei fucili. Militari scuoiati. Militari con le loro stellette al posto degli occhi. Militari eccitati dalle “drugarize” e poi evirati. Sentivo parlare di queste mostruosità ma alcune non le comprendevo. Non sapevo nemmeno cosa fossero.

Certamente tutte queste voci non hanno contribuito a creare un’atmosfera tanto favorevole nei confronti dei “druzi slavi”.  Bisogna considerare che eravamo appena agli inizi del 1944. Più passava il tempo, più le voci aumentavano di ritrovamenti di cadaveri, di persone seviziate. Per completare le preoccupazioni cominciarono i bombardamenti dei nostri futuri liberatori. Le prime bombe cadute su Fiume, caddero proprio nei pressi della mia casa. Pensavano che un bombardiere di una formazione di B17, di ritorno da Vienna, si fosse liberato delle sue bombe. Doveva proprio sopra casa mia? D’allora furono tre, i bombardamenti, che sicuramente involontari, mi coinvolsero. Poi venne quello serale sulle raffinerie ROMSA, che colpirono anche il Cantiere di Cantrida e il Silurificio. Vedo ancora oggi il fumo nero se si alzava dalle cisterne di carburante in fiamme.

Che cosa posso dire ancora! Dei rastrellamenti ai quali ho assistito? Delle file fatte per tutto, dal cibo alle  frattaglie che, in tutte le famiglie, erano utilizzate per fare il sapone. Che puzza!

Una sera, ero sulla terrazza antistante la chiesa dei salesiani quando quattro cacciabombardieri attaccarono con bombe e raffiche di mitraglia il cacciatorpediniere “Pigafetta” uscito dal cantiere per le prove macchina. Che spettacolo! Per noi ragazzini era meglio di un bellissimo film d’avventura. Il caccia che viaggiava a tutta birra per scansare le bombe. Il fuoco delle sua contraerea. Il fuoco di sbarramento da parte delle postazioni fisse e dalle “maone” che cercavano di appoggiare quello del cacciatorpediniere.

Vicino ai salesiani, in cima di Via Trieste, c’era una caserma, mi sembra dell’ex nostra Divisione Lombardia, occupata ora dalle truppe tedesche. Qualche volta capitava che per noi ragazzini, eravamo in tanti, giungeva una cucina da campo che ci rifocillava. Che sbafate di risotto o di maccheroni!

E’ difficile raccontare delle tante piccole cose che per noi, a quei tempi, erano immense. 

I miei genitori, per farmi completare gli studi elementari, mi tolsero dalla scuola che frequentavo, quella di Via Trieste, e m’iscrissero come privatista presso il maestro Rabaz che abitava in Belvedere davanti al Sacrario di Cosala.

Qui completai la quarta e la quinta classe. Ricordo il bombardamento che molti fiumani ricorderanno come il bombardamento del cimitero. Il maestro Rabaz, faceva lezione, quando si udì il preallarme e subito dopo l’allarme. Uscimmo e, cominciarono a cadere le bombe. Corremmo tutti verso il rifugio che si trovava a circa trecento metri. Pensavamo, almeno io, di non farcela. Le bombe cadevano che sembra grandine. L’ultima cadde davanti al rifugio, pochi istanti prima che entrassimo. Che fortuna! Non è una cosa di tutti i giorni correre sotto una pioggia di bombe!

Dopo i grandi bombardamenti, giunsero quelli chiamati del “Pippo”. Una bomba, una sventagliata di mitragliatrice, e via. Questa era la classica guerra terroristica attuata dagli alleati dei nostri futuri liberatori.

Una mattina mi trovavo in “Braida”, nei pressi del cinema Impero. Sapevo che c’era in programmazione nel pomeriggio un film per i “grandi”. Avevo appena svoltato da Via Manzoni in Viale Mussolini, in cielo volteggiava “Pippo”, era una cosa normale, nessuno più lo notava. Udii il fischio di una bomba e, questa cadde sulle persone in fila. Immaginatevi le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi. Ero frastornato dall’esplosione ma, ancor più da quello che avevo visto e quello che vedevo.

Il 17 marzo 1944, una bomba, mi asportò tre dita della mano sinistra.

Inutile cercare di ricordare tutti gli avvenimenti del 1944 e dei primi mesi del 1945. Sì, ricordo tutto, ma non riesco a localizzare l’avvenimento nel tempo. Era un susseguirsi di bombardamenti, di mitragliamenti, di fame, giornate e notti passate nei rifugi.

Mi viene da ridere nel ricordare la faccia della signora Calcagno, una napoletana moglie del Direttore delle Poste fiumane, amici dei miei genitori, quando le riferii il messaggio di mio padre “c’è una buon’occasione d’acquistare dell’olio di macchina adatto all’alimentazione, l’avevano distillato dei bravi tecnici in Romsa”.

Il giorno di Pasqua, 1 aprile 1945, nacque mio fratello. Per me fu una sorpresa.

Uno strano uovo pasquale. Al posto di una “pinza”, un fratellino!

Certamente poche persone conoscono il “brodo brustolà”: olio, cipolla, farina e tanta acqua. L’avevo al mattino per colazione, a pranzo ed infine a cena. Non c’era pericolo di cattiva digestione! Sono sicuro che non necessitava il bicarbonato per digerire! Quanta fame! Riuscivo a mangiare qualcosa solamente quando i tedeschi, nostri vicini di casa, m’invitavano da loro. M’accompagnavano nella polveriera e mi regalavano, ogni tanto, qualche scatola di gallette o di marmellata. Ecco perché conoscevo perfettamente il contenuto della polveriera: testate di siluri, cariche per cannoni da marina, casse di spolette, casse di marmellata, di scatolette di carne, tonno e di galeotte. C’erano tante di quelle munizioni e di viveri da far paura. I corridoi erano intransitabili per la quantità di casse accatastate. Era a questo ben di Dio che facevano la guardia la compagnia di militari italiani prima dell’8 settembre, ed ora i tedeschi.

Circa alla mezzanotte del 2 maggio 1945, sentimmo bussare con violenza alla porta. Dormivamo tutti. Da noi abitavano degli amici sloggiati dai tedeschi. Mio padre andò ad aprire: “Il tenente dice d’andare in rifugio e d’avvisare tutti perché avrebbe fatto saltare la polveriera”.

Corremmo in rifugio, riuscimmo ad avvisare tutti gli abitanti di Via Trento e di Via Pola. Per noi bambini, il sonno, la fame, la noia fu insopportabile. Per i grandi la tensione, l’attesa doveva essere stata snervante. Circa alle 2,30 un’esplosione indescrivibile, un boato da stordire, uno spostamento d’aria che fece cadere quasi tutti in terra, tutte le luci artificiali si spensero. Che inferno! Donne che urlavano, bambini che piangevano, uomini che cercavano al buio di mantenere unita la famiglia! Più tardi, uscimmo dal rifugio. L’odore aspro dell’esplosione ci attanagliava la gola. Ricordo gli urli di dolore di una mamma che, in Via Pola, chiedeva aiuto per disseppellire i suoi figli che, incuranti alle esortazioni, erano rimasti in casa ed ora erano coperti dalle macerie del tetto.

Era la mattina del 3 maggio 1945. Il giorno della liberazione!

Per la prima volta vidi le truppe dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo!

Ricordo solo la paura che avevo nei confronti di questi uomini sporchi e puzzolenti. Ricordavo i racconti intesi ai primi dell’anno precedente. Abbinai la loro presenza all’uccisione dei miei parenti. Avevo sicuramente paura!

Poiché la nostra casa, causa l’esplosione della polveriera, era inabitabile, ricevemmo dal Comune l’abitazione, in Via Acquedotto, di un gerarca fascista che era riuscito a scappare in Italia con la famiglia. Nella vita succedono tante cose peggiori, ma è indescrivibile il disagio che si prova nell’entrare in un appartamento lasciato in fretta e furia. Letti sfatti, piatti sporchi ed il gabinetto abbandonato senza tirare la catena. 

Abitammo in quell’appartamento fino al 16 marzo 1947.

Mio padre abbandonò il suo lavoro alla “Vulkan” di Sussak e riuscì ad ottenere un’imbarco, a Trieste, su una nave italiana che faceva viaggi verso l’India.

Al suo primo ritorno a casa ci portò una valigetta di cartone piena di pane bianco (non l’avevo mai visto in vita mia), di cioccolata di tutti i gusti e di frutta (banane).

Non potete immaginare la mia gioia a vedere il pane bianco, il mio stupore nel vedere le banane, frutto che conoscevo solamente perché l’avevo visto sulle figurine che esaltavano le nostre conquiste nell’Impero, prima della guerra, d’assaggiare la cioccolata ripiena d’arancio o di menta.

Però, come dissi in un’altra occasione, sentivo cose non piacevoli. Non comprendevo bene a cosa si riferissero, però ero certo che dovevano esserci.

Nei primi giorni dopo la guerra, feci con mio padre alcuni viaggi a Trieste, a trovare mia zia e mia cugina. Allora avevo visto il “cimitero delle navi” nella baia di Muggia. Avevo visto il movimento di gente e di mezzi completamente diverso da Fiume. A Trieste si riusciva a mangiare cose buone, quasi senza alcuna preoccupazione.

A Fiume si facevano code per tutto. Una volta fui inviato a fare la coda per acquistare patate liofilizzate, fiocchi d’avena tedeschi e scatolette americane di noccioline. Non n’avevo mai mangiato. Imparai a mangiare stufato di maiale con lo zucchero e, qualche volta, riuscivamo acquistare, raramente, qualche razione K.

All’inizio del 1946, mio padre, dopo un colloquio con mia madre, scelse la via del non ritorno a Fiume. Avrebbe anticipato quello che avremmo fatto di lì a poco anche noi. Era troppo pericoloso vivere in quella città. Aumentavano le persone che chiamate dalle autorità per un colloquio, sparivano.

Già una volta raccontai delle raffiche di mitra che si sentivano provenire dal cimitero di Tersatto. Purtroppo non è fantasia di un ragazzo. Il fatto è menzionato in altre fonti. Ho paura che non si saprà mai il numero esatto dei “nemici del popolo” giustiziati.

Mio zio, fratello maggiore di mio padre, ex funzionario delle Miniere dell’Arsia, dopo sei mesi di prigione nelle carceri d’Albona, era stato liberato. Dall’Eritrea era rientrata in Arsia, mia zia che con il marito era partita per fare fortuna. L’aveva fatta ma, causa la guerra, anche perduta. Ora tutti aspettavano l’occasione d’andare a Pola e da lì, in Italia. Infatti, da lì a poco, riuscirono a partire e, dopo un’attesa nel campo profughi di Venezia, mio zio ottenne un posto di lavoro alle miniere di Bacu Abis in Sardegna. Giunsero pochi mesi prima delle elezioni del 1948. Ebbe un’accoglienza inaspettata: ”Vede”, disse un’amico del popolo, “dopo le elezioni l’impiccheremo a quell’albero, sporco fascista”. Già, essere un’esule era la dimostrazione evidente che eravamo tutti dei fascisti, secondo loro, come poteva una persona scappare dal paese dove “governava il popolo?”.

Ritornando a Fiume, con mia madre andammo a Dignano a trovare mia nonna e tutti gli altri parenti. Anche loro aspettavano l’occasione per evadere.

Passando da Barbana, mia mamma offrì a mia zia, moglie dell’infoibato, l’occasione di prendere una sua figlia, giacché con l’altra figlia piccola e con il padre anziano, avrebbe avuto più facilità di espatriare. Mia zia accettò, mia cugina rimase con noi ma, sua madre e la sorella non ebbero la possibilità di partire. Solo molti anni dopo seppe, che non ottenne il permesso d’espatrio solamente per una questione di odi paesani non di problemi cartacei.

Fu in quel breve soggiorno a Barbana che fummo informati delle gesta del famigerato gobbo: Ivan Kolic. Giacomo Scotti l’ha soprannominato il terrore di Barbana” io, alcuni anni dopo lo conobbi come “il gobbo di Saini”. Le gesta di questo condottiero dell’ Esercito Jugoslavo, eroe del popolo, furono di un’inaudita violenza. Gli infoibati di Barbana, furono opera sua. Riuscì ad uccidere 15 persone schiacciandole la testa con il tacco degli scarponi. Potete ben immaginare che le notizie erano sussurrate. Il terrore era tangibile. Purtroppo sono passati più di cinquant’anni e di testimoni viventi c’è ne sono, forse, molto pochi.

Mia mamma, perdeva delle giornate in code per ottenere la documentazione per l’espatrio. Si sentiva parlare di sequestri da parte dei doganieri di tutti i beni di un certo valore. Tutti cercavano di vendere le macchine da cucire, gli apparecchi radio, tutti i gioielli rimasti dalla svendita per acquistare dei viveri durante la guerra. Alcuni si facevano modificare i mobili per creare uno scomparto ove nascondere qualche gioiello, caro ricordo, che non avevano voluto svendere. Parlarne oggi, sembrano racconti da giornaletti umoristici.

Due cugine di mia mamma, di Montona, furono liberate dal carcere. Raccontarono delle persone condannate senza processo. Della fame, della sporcizia, della paura, subita nei lunghi mesi di prigionia nelle carceri di Via Roma.

Finalmente il 15 marzo 1947, dopo aver espletato tutte le mille formalità doganali, il pomeriggio verso le 16, partimmo verso l’Italia, verso l’ignoto. 

Il viaggio sino a Trieste, già di per sé lungo, non finiva mai!

Al confine la sosta fu snervante. Tutte le persone furono fatte scendere e perquisite minuziosamente. Poi rifatti salire ad attendere. Era buio, freddo, i bambini piccoli che piangevano, le persone si chiedevano il perché di quest’attesa. Erano tutti trepidanti. Avevano paura di essere rispediti indietro.

Finalmente, verso le 23, il treno si mosse. Si fermò dopo pochi minuti. Quale diversa accoglienza! Le guardie confinarie, le crocerossine, tutti si prodigarono a rifocillarci, a darci del tè, della cioccolata calda. Nel treno ci fu un urlo di gioia, di liberazione, la fine di un incubo.