Istria, luglio 1998 : diario di una vacanza indimenticabile

di Cerboncini Alessandro

Non so se esistono delle motivazioni razionali ben precise, o piuttosto una somma di eventi casuali, che mi hanno portato in contatto con una famiglia di italiani residenti in una cittadina della costa istriana. Fatto sta che questo contatto, seguito da un intenso scambio di esperienze ed opinioni, mi ha talmente coinvolto, che ora mi trovo qui, con la prepotente esigenza di esprimere le mie emozioni, sia alle persone che hanno vissuto certe vicende storiche e che tuttora ne vivono le conseguenze, sia a quelle che, loro malgrado, non ne sono neppure a conoscenza.

Ricordo le cartine geografiche appese nelle aule delle scuole elementari e medie, che ho frequentato negli anni 60 e che mi davano l'occasione di volare con la fantasia da un luogo all'altro, cercando di immaginare terre e popoli lontani.
Mi sono quindi rimasti ben impressi nella memoria i nomi, scritti in italiano, di Pola, Fiume, Zara, Spalato, Ragusa. Gli insegnanti, ancora di vecchio stampo, sulla spinta delle domande di noi ragazzini, dicevano che quelle terre erano italiane.
Ma il discorso, purtroppo è sempre finito lì, e ho quindi dovuto accettare come ineluttabile un destino che, per ragioni che allora mi erano sconosciute, segregava quei luoghi dai nomi così familiari, al di là di una barriera invisibile.

Le esperienze di un giovane italiano cresciuto negli anni 70 e 80 meriterebbe non un capitolo, ma forse un libro a parte, e forse sarebbe di interesse per uno scambio con un giovane della stessa età nato in Istria, ma , ai fini del nostro tema, posso qui soltanto dire che, nonostante abbia macinato centinaia di libri durante il mio percorso studentesco e nonostante i mezzi di comunicazione di massa siano, durante quegli anni, entrati prepotentemente nella vita quotidiana della gente, non ho mai letto né sentito niente riguardo alle vicende storiche di quelle terre, anche se era latente in me la curiosità che nasce ogni volta che una verità viene presentata come dogma senza alcuna spiegazione razionale.
Ricordo soltanto alcuni racconti di un mio amico che ha fatto il servizio militare agli inizi degli anni 70 in una caserma al confine italo-jugoslavo ,nella zona di Banne : mi parlava di forti tensioni fra i reparti militari lungo il confine con la "Zona B", ma, a quel tempo, attribuivo queste tensioni al fatto che si trattava di due paesi schierati su fronti diversi nel panorama internazionale, né conoscevo il significato del termine "Zona B".

Soltanto dopo il 1989, dopo il crollo del muro di Berlino, sono cominciate a trapelare sui mass media, molto timidamente e per le prime volte probabilmente dopo decenni, alcune notizie su quanto avvenuto.
Mi ricordo ancora vivamente che sono rimasto sconvolto dalle immagini di un documentario storico trasmesso dalla Rai, una sera molto tardi, delle truppe jugoslave a Trieste, dei quaranta giorni di terrore e delle stragi delle foibe e allora quello che fino ad allora era stato soltanto un sospetto che qualcosa di terribile fosse successo in quegli anni in quel lembo di Italia, si è trasformato bruscamente in certezza attraverso la brutalità di quelle scene.
Da allora mi sono sempre riproposto di visitare questi luoghi, anche se le difficoltà legate ai primi anni della mia vita professionale e lo scoppio della guerra nel 1991 mi hanno momentaneamente distolto da questo proposito.
Finchè, nella primavera dello scorso anno, vistando una libreria, mi è capitato in modo casuale tra le mani il libro del prof. Novak - Trieste 1941-1954 : la lotta etnica, politica, ideologica - e subito è riaffiorata in me la voglia e la curiosità di approfondire la conoscenza dei fatti storici. Ho letto questo testo con grande passione e poi, quando con mia moglie si è trattato di decidere dove trascorrere qualche giorno di vacanza, a quel punto finalmente mi è scattata spontanea la proposta di andare in Istria.

Ho richiesto del materiale pubblicitario illustrativo direttamente all'Ente del Turismo Croato, in una delle sue sedi in Istria, e ricordo che sono rimasto colpito ed entusiasta quando ho visto, sui depliant che mi sono arrivati, le immagini bellissime delle piccole città della costa, Pirano, Parenzo, Rovigno, ecc., che non avevo mai visto, con il loro carattere inconfondibilmente veneto, i campanili che riproducono lo stile di quello di S. Marco, le isolette e la costa frastagliata, che ricorda quella della laguna e mi sono messo subito a volare con la fantasia per immaginarmi quanto poteva essere affascinante l'atmosfera di quei luoghi.
Ma quello che è più straordinario nella sua casualità è che, proprio negli stessi giorni, attraverso dei contatti personali puramente occasionali, ho avuto la possibilità di mettermi in contatto con una famiglia, proprio della località nella quale avevamo già deciso di passare alcuni giorni. Mi ricordo l'emozione grandissima che provai la prima volta che mi misi in contatto telefonico per prendere i primi accordi e, sentendomi rispondere in perfetto italiano sentii una sensazione come di aver ritrovato un amico o un parente lontano, di cui non avevo da lungo tempo notizie.

Durante le settimane prima della partenza mi sono venuti molti dubbi e interrogativi sul fatto che sarebbe stato possibile parlare più o meno apertamente con queste persone di tutti quegli aspetti della vita e della storia di quella gente, che per me avevano costituito un mistero nel corso della mia esistenza : che problemi quotidiani incontravano? Qual'era tuttora il loro rapporto con l'Italia e con gli italiani? C'erano ancora delle tracce di italianità nei luoghi che abitavano o i fatti della storia avevano inghiottito tutto nell'oblio? Quali erano i rapporti con le nuove popolazioni? Avevano mantenuto una loro identità o si erano definitivamente mescolati e confusi con la massa dominante?

Mi ricordo il turbinio di emozione e curiosità, come quella di un bambino, quando passammo la frontiera con la Slovenia, e poi con la Croazia, e cominciammo ad attraversare quelle campagne meravigliose in cui era evidente lo sfumare del paesaggio carsico-alpino in quello mediterraneo, sia come conformazione del terreno, sia come varietà e ricchezza della vegetazione. Già dal primo impatto con l'ambiente si aveva la sensazione, quindi, che non ci fosse soluzione di continuità e che la separazione fosse fittizia ed artificiale.
Ma non mi bastava, e, mentre guidavo, cercavo insistentemente con lo sguardo qualche segno che mi confermasse la presenza della nostra storia e della nostra cultura da quelle parti.
E così mi sentivo confortato ogni volta che vedevo, in mezzo o di fianco alle scritte in lingua slava, per esempio i cartelli in legno scritti a mano e posti sul bordo della strada dai contadini: "Vendo vino e grappa", oppure le insegne: "Pizzeria da Gaetano", "Taverna La Grotta" e anche cartelloni pubblicitari in italiano: pensavo che forse non eravamo definitivamente morti!
Ogni tanto si incontrava uno di quei cartelloni enormi con la foto della stupenda vista aerea di Rovigno, con sotto la scritta "ROVIGNO" in italiano e tutte queste piccole cose mi facevano star meglio.

Anche il personale di frontiera e all'ufficio cambi, sebbene con accento slavo, parlava in italiano ed era molto gentile, e ho considerato subito questi entrambi degli indizi molto positivi, anche se non sapevo che peso potessero avere, visto che potevano essere legati alla particolarità dell'attività svolta.
Comunque, anche quando siamo giunti a destinazione abbiamo trovato molta gentilezza e disponibilità all'ufficio informazioni ed anche ad un altro posto pubblico in cui abbiamo telefonato ai nostri amici per farci venire a prendere.
Ci siamo, in quelle occasioni e anche per tutta la durata della nostra vacanza, rivolti alla gente che incontravamo, volutamente in italiano, sebbene ci arrangiamo anche in inglese e tedesco. Ebbene mi ha fatto piacere notare che tutti, salvo pochissimi casi, ci hanno risposto tranquillamente in italiano molto corretto e in modo gentile, e, anzi, avevano tutta l'aria di essere abituati a farlo.

Ho giudicato quindi il primo approccio positivo, anche se riuscivo già ad identificare l'accento slavo in quell'italiano, e soprattutto una gestualità ed una cadenza particolari che non appartengono né a noi, né agli altri popoli che conosciamo di più.

E' stata perciò diversa, fin dal primo contatto e dalle prime battute scambiate, l'impressione e l'interesse che ha suscitato in me l'incontro con il nostro ospite che è arrivato all'ufficio di informazioni turistiche per condurci a casa sua.
Quando siamo arrivati a casa, dopo i primi momenti, per la verità un tempo piuttosto breve, di imbarazzo, dovuto alla situazione del tutto particolare e al fatto che ci siamo accorti che, contrariamente a quello che pensavamo, saremmo stati ospiti nella loro stessa casa, da lì in poi, dicevo, le cose hanno proceduto ad una velocità folle.
Dopo pochi minuti ci siamo resi conto di essere di fronte a delle persone di una ospitalità, di una cortesia e, allo stesso tempo, di una apertura mentale per noi inconcepibile. L'immediatezza e la spontaneità con cui siamo stati accolti ci ha lasciato stupefatti e, pur giudicandomi persona incline a stare volentieri in compagnia, sono stato sopraffatto e frastornato allo stesso tempo da una cordialità, che difficilmente ho visto altre volte, e che istintivamente sentivo sincera e al di là di ogni formalismo.

Non sapevo, e tuttora non so, se il modo in cui si è svolto il nostro incontro e poi si è sviluppato successivamente il nostro rapporto, tramutatosi rapidamente in amicizia, sia dovuto al fatto che, essendo noi italiani, hanno sentito anche loro l'impulso di aprirsi e di comunicare con noi molto intensamente, oppure al fatto che vivendo in un paese che non ha vissuto come l'Italia l'impatto di un consumismo sempre più esasperato, le persone riescono a mantenere in vita ancora vecchi valori, oppure perché semplicemente questa e la loro indole.
Fatto sta che fin da quel momento, ogni giorno, dopo che noi avevamo fatto il nostro giro che ci eravamo prefissi di fare, per visitare città, paesi e tutto quanto potevamo dell'Istria, di sera ci vedevamo a casa e così un semplice saluto si trasformava in ore ed ore di piacevole conversazione, su ogni argomento possibile, così come degli amici di lunga data avrebbero potuto avere.
Io ascoltavo senza battere ciglio il mio amico che mi raccontava le sue storie, affascinato da ciò che imparavo istante per istante, momento per momento, e che mi arrivava così in profondità che non riuscivo assolutamente a distogliere l'attenzione, anche se avessi voluto.
Avrei potuto, ogni sera, ascoltare per ore ed ore, fino al mattino, quelle cose, la maggior parte delle quali inquietanti, ma spesso anche sconvolgenti, dette con garbo, con quella cadenza tipica del dialetto veneto e con quelle espressioni colorite, forti, ma anche gentili, che ho conosciuto da qualche mio collega di lavoro e università, oltre che durante un anno di servizio militare svolto a Treviso.
Sarei potuto rimanere anche un mese solo ad ascoltare i nostri amici e, dopo poco tempo, mi sono reso conto che ero stato fortunato, perché avevo incontrato delle persone che rendono interessante la vita, che la rendono viva. Non ce ne sono molte di queste persone in giro, cioè persone che escono dalle banalità e dai luoghi comuni, e il cui incontro ti riempie una parte importante della vita.
Non sono intellettuali o scienziati, ma persone semplici, che mi hanno insegnato molto sul mondo in cui viviamo e mi hanno fatto capire molte cose, e per questo li ringrazierò sempre.

E man mano che ogni sera passavano i minuti e poi le ore in compagnia, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, prendeva sempre più corpo in me un concetto che, dapprima con contorni indefiniti, ma poi sempre più chiaramente avrebbe dominato il mio punto di vista sulle cose che vedevo e notavo in Istria, anche rivisitandole dopo averle vissute.
Quelle persone erano nate in un paese che non era (o non si chiamava) più Italia, anzi un paese comunista, dall'altra parte della "cortina". Avevano vissuto in un modo e secondo regole completamente diverse dalle nostre, avevano subito le difficoltà di una economia con inflazione al 1000%, avevano vissuto, seppur in maniera non diretta, una guerra di divisione di quel paese, in altri paesi ancora diversi da quello di prima, ma ancora molto diversi dall'Italia, e di questa guerra però ne hanno subito in pieno le conseguenze economiche; essi hanno avuto, insomma, tutta un'altra storia dalla mia, tutt'altre esperienze, tutt'altre sofferenze.
Eppure, cos'era che ci accomunava così fortemente? Qual'era la forza che ci aveva attirato verso un terreno comune di comprensione mentale ed emotiva, in modo così rapido e, direi, al primo scambio di sguardi e dopo poche parole?
"Ma è semplice!" mi balenò una sera in testa l'idea : "Una lingua, una cultura, 2 o 3000 anni di storia! Ecco cosa ci accomuna e che nessuno potrà mai cancellare!"
Mi è apparso estremamente chiaro da allora, l'incredibile legame che costituisce per i popoli la loro storia e la loro cultura, e tutto quello che hanno costruito i nostri padri in generazioni e generazioni. Nel caso della cultura italica questo legame si è sviluppato addirittura nel corso di millenni, e quindi mi ribellavo, e mi ribello, all'idea che soltanto 50 anni di follia e di barbarie possano aver cancellato completamente tutto ciò in Istria.

Fin dall'inizio quindi, le mie visite ai luoghi di questa splendida terra sono state vissute da me con uno stato d'animo contrastato: da una parte la gioia per l'ammirazione di fronte ai gioielli d'arte e di architettura rappresentati da città e paesi unici, all'amenità del paesaggio nelle campagne e sulla costa, dall'altra il subbuglio interiore per gli orrori che sono avvenuti in quegli stessi posti, l'angoscia all'idea dei drammi personali e collettivi che si sono consumati in quelle stesse case, tra quelle stesse mura, sotto gli stessi alberi, la tristezza che a volte scaturisce in rabbia, tutto un insieme di sentimenti che alla fine poi annega in una sconfinata malinconia per il timore che tutto ciò sia irrimediabilmente perduto.

Una delle visite più emozionanti da questo punto di vista è stata quella dei vicoli del centro storico della bellissima Rovigno.
E' talmente evidente lo stile e l'atmosfera totalmente italiani, e veneti in particolare, che anche un bambino o una persona rozza e da noi a malapena alfabetizzata potrebbe accorgersene. Eppure, mentre mi aggiravo per quei calli ammirando i palazzi veneziani, i balconi, le decorazioni, persino gli infissi e ogni cosa che parlava veneto, mi chiedevo se quella massa di turisti che vagava col naso all'insù,per la maggior parte provenienti dai paesi dell'est, ma anche tedeschi e italiani, si rendesse conto minimamente di ciò che stava vedendo e ciò che avevano visto nei secoli quelle stesse pietre che calpestavano.
Mi ricordo i mormorii di ammirazione quando ci siamo infilati in uno splendido cortiletto interno, con le case prospicienti completamente in pietra originale, i vecchi infissi e le porte in legno, i fiori sui davanzali delle finestre. Mi è venuto l'impulso di voltarmi e di dire ad alta voce alle persone che mi seguivano : "Qui siamo a Venezia!", ma non l'ho fatto perché avevo timore di essere preso per pazzo.
Mi aggiravo per quelle stradine e mi soffermavo ogni volta che vedevo una vecchia scritta in italiano, vecchie insegne non so se dimenticate o di proposito conservate. Le fotografavo e allo stesso tempo mi si scatenava quella bufera di sentimenti di cui parlavo prima e mi sconvolgeva anche fisicamente lo stomaco.

Ma le sensazioni più forti le ho provate quando, allontanandomi dai vicoli più frequentati turisticamente, come mio solito, per scattare foto e diapositive, mi sono inoltrato nel cuore del centro storico della città, frequentata soltanto dagli abitanti del posto.
E mentre osservavo con ammirazione i selciati delle strade, originali in pietra ricavata dalle cave locali, le case lungo gli stretti vicoli con gli antichi ornamenti veneziani, i porticati, le serrande delle finestre in legno, tutto molto consunto e trascurato, ma per questo ancor più ricco di quella autenticità che ogni restauro inesorabilmente attenua, mentre mi risuonavano nella mente alcune note della musica di Vivaldi (dell'Estro Armonico o dei Concerti per violino) che mi riportavano idealmente all'atmosfera della Venezia più autentica che ho avuto la fortuna di visitare nel mese di novembre, al di fuori dei periodi di più intenso afflusso turistico, mentre mi cullavo in questa pura illusione mentale ed intellettuale, ho notato che i volti e gli sguardi delle persone che abitavano quei vicoli non avevano niente a che fare con tutto questo e che la lingua che avrebbe dovuto risuonare, come musica, tra una casa e l'altra, tra un cantone e l'altro, era completamente diversa da quella che avrebbe dovuto espandere naturalmente la propria armonia.

Le voci, i suoni, gli sguardi, le facce: questo stridente contrasto tra ciò che udivo e ciò che vedevo, tra ciò che era stato immortalato da secoli di storia e quello che quotidianamente veniva detto e fatto in quelle strade, rivelava, come un libro aperto, e dichiarava, tutto quello che di tragico era avvenuto in quei luoghi e tutto il dramma che si era consumato in tempi rapidissimi. Cominciava ad apparirmi chiara l'entità e le dimensioni di tutto quello che era accaduto.

In qualsiasi posto in Italia, ma penso anche nell'Europa industrializzata, si è andati incontro negli ultimi decenni, con l'incremento della mobilità delle persone e delle merci sul territorio, a profonde variazioni degli equilibri etnici, sociali ed economici.
In Italia si ricorda ancora l'enorme afflusso di persone dal sud al nord negli anni 50-60, per la richiesta di lavoro che c'era nel settentrione a fronte della grande povertà del mezzogiorno. Ma pur riferendosi a movimenti di massa enormi, tali cambiamenti erano avvenuti in modo graduale nel corso di 10-20 anni.
Qui no! Qui era ancora evidente che qualcosa di terribile e di enormemente traumatico era avvenuto nel volgere di un periodo di tempo molto limitato, per cui era stata completamente sconvolta la carta di identità di questo posto, violentandone ogni più sano rispetto delle tradizioni, delle origini e dell'ambiente storico.
Non poteva, quello che stavo vedendo, essere il risultato di una graduale e pacifica trasformazione del tessuto sociale, economico ed etnico, oltre che politico, così come ci siamo abituati a vedere con l'evolversi dell'economia moderna.
Qualcosa di "biblico" doveva essere successo!

Io, in virtù di alcune letture, ero già uno dei pochi italiani, penso, ad avere una qualche conoscenza di questi fatti, ma toccarli con mano e vederne di persona gli sconvolgenti risultati, mi stava toccando ben più profondamente di quanto avessi potuto immaginare.
Queste impressioni mi sono state ben presto confermate dai racconti delle persone che ho conosciuto, e che hanno vissuto quelle vicende, seppur in età molto giovane.
E ne ho trovato conferma in maniera, diciamo, più compiuta in alcuni libri che ho letto successivamente, come per esempio "Istria contesa" di Fulvio Molinari, riferendomi in particolare alle pagine che riportano le strazianti immagini dell'esodo di Pola.

Sono originario di una cittadina della Toscana e, sebbene abbia dovuto lasciare i miei luoghi di origine per motivi di lavoro, ho avuto senz'altro una vita privilegiata rispetto ai miei genitori e ai miei antenati. Comunque riesco ad intuire ciò che significa lasciare la propria terra, i propri cari e tutto ciò che si ha alle spalle.
Anche perché i toscani, in genere, al di là di quell'aria perennemente scanzonata, nascondono in realtà un profondo pessimismo ed una struggente nostalgia. Infatti, come si dice, i toscani, prima o poi, ritornano a casa.
E' per questo, che anche in questo momento, mentre scrivo queste povere considerazioni, ripercorrendo mentalmente i vicoli di Rovigno, di Parenzo, di Montona, le strade di Pola, non posso fare a meno di cercare di immedesimarmi, per quanto mi è possibile, in quella povera gente che ha dovuto lasciare, per motivi nella maggior parte ad essa estranei, le case in cui viveva da generazioni e generazioni.
Cerco di vedere quello che è successo con i loro occhi e non posso fare altro che intuire il loro dolore, il loro dramma, la tragedia per l'abbandono di ogni cosa e l'incertezza per il futuro. E tutto ciò nel volgere di pochi mesi di tempo!

Per me, cresciuto nel pieno del boom economico degli anni 60 in cui tutto era infarcito di ottimismo, risulta inenarrabile e sconvolgente l'esperienza narrata da un bambino istriano cresciuto negli anni 50, che racconta la graduale e inesorabile scomparsa dei suoi compagni di scuola, tutti italiani, perché le famiglie scomparivano o emigravano.
Intere città, vive, vitali e bellissime, ridotte a città fantasma nel giro di un batter di ciglio (storicamente parlando). Se n'è parlato spesso a proposito di una ipotetica guerra nucleare nel XX secolo, ma non si è detto chiaramente che è successo in un angolo della terra per altri motivi. Non so se riesco a spiegarlo, ma frequentando quei luoghi, quelle strade, qei vicoli, ma anche le campagne e le spiagge, cercavo di vederle con gli occhi ( e con il cuore) di una persona che era stata strappata da lì e che, per qualche strano e casuale motivo, aveva avuto la possibilità di ritornarci.
Cercavo anche, però, allo stesso tempo, di riprodurre dentro me stesso, per poi immergermi, nel sentimento di angoscia che poteva provare una persona che era rimasta là, tenacemente aggrappata alla propria esistenza, e che aveva visto, in modo così improvviso e traumatico, cambiare tutto quanto: la faccia e la lingua dei propri vicini, le abitudini secolari, le regole sociali e tutto ciò che riguardava la loro identità culturale, sociale e politica.

Mi rendo conto che parole come "capire", "comprendere", sono troppo grandi per il mio livello di recezione di quello che mi circondava e soprattutto, di tutto quello che stava al di là di esso, ma mi sforzavo, e mi sforzo, di intuire l'enormità degli eventi e dei drammi che si sono sviluppati, con la grande storia che ha schiacciato tanti piccoli mondi radicati in queste terre, insensibile ed incurante, quasi obbedendo ad una grande e universale legge deterministica.

Immagino che la maggior parte delle centinaia di migliaia di italiani che, in quattro e quattr'otto, hanno dovuto sgomberare e portare via con sé ogni cosa, ma lasciando qui la loro parte più importante, siano stati povera gente, pescatori, contadini, al massimo impiegati pubblici. Non dovevano essere certo l'avamposto dell'espansionismo imperialista fascista, così come gran parte della storiografia immediatamente successiva, fortemente influenzata dal condizionamento comunista in Italia, e gran parte dell'opinione pubblica stessa li dipingeva, ma gente più che normale, che possedeva soltanto la propria barca, la propria casa, la propria terra e per la quale lasciare tutto quello che avevano costruito i propri avi doveva essere peggio della morte.

Quando mi trasferivo da un paese all'altro, attraversando l'interno dell'Istria, rimanevo affascinato da quel paesaggio, in gran parte disabitato, dominato da quella vegetazione che, sebbene non sia io un esperto, intuivo essere un misto, caratteristica di quei luoghi, tra carsico e mediterraneo.
Ma allo stesso tempo cercavo di immaginare, o meglio sarebbe dire sognare ad occhi aperti, come avrebbero potuto essere oggi quei posti, se potessero essere ancora abitati da 350.000 italiani in più.
Cercavo di immaginare, al posto di quella boscaglia pur affascinante, i casolari, le vigne, i campi coltivati. Volavo con la fantasia a gustare vini rinomati prodotti lì, con marchi di qualità, esportati in tutto il mondo civilizzato, l'olio buono in grandi quantità, che non avrebbe avuto niente da invidiare a quello toscano o ligure o pugliese e, allo stesso tempo, al turismo, che, sia all'interno che sulla costa, avrebbe forse avuto uno sviluppo ben maggiore di quello che ha avuto, in considerazione della grande tradizione e cultura che animano la gente italica. Alle industrie, grosse, medie e piccole, che avrebbero potuto sorgere nel dopoguerra.
Cercavo, insomma, di immaginare la ricchezza che avrebbero potuto costituire tutte queste risorse per i figli di coloro che se ne sono andati, ma anche per i croati e gli sloveni, che comunque avrebbero potuto vivere lì, come vivono oggi.
Infatti penso che, sotto l'amministrazione italiana, pur andando incontro a difficoltà e polemiche, tipiche del nostro carattere, prima o poi questa regione avrebbe avuto uno statuto completamente autonomo, come quello dell'Alto Adige, che è uno dei più avanzati e democratici che si possano concepire.
E in effetti penso che l'Istria, nei tempi moderni, avrebbe potuto essere ricca come e forse anche di più dell'Alto Adige.

E invece che cosa abbiamo avuto? Che cosa ci ha riservato la storia, per destino o per una somma casuale di eventi o per una somma di interessi politici internazionali?
L'orrore dello sterminio nelle foibe e il dramma dell'esodo o, meglio sarebbe dire, epurazione etnica.
Già, epurazione etnica, perché di questo si è trattato, portato avanti a volte con violenza, a volte con metodica rigorosa e scientifica, ma pur sempre barbarica, se si pensa al fine ultimo che si propone.

E mentre, appunto, ammiravo il paesaggio, oppure rimanevo affascinato dalla bellezza veneziana dei centri storici, bisognosi di urgente restauro, ai miei occhi di italiano, di paesi come Dignano e, a maggior ragione, di Bule, mi appariva sempre più chiara la differenza abissale che esisteva tra le nostre genti e quelle con cui, purtroppo, da sempre, si è venuti in contatto ai confini orientali. Sì, perché la cultura italica, fin dalle origini che si perdono nel tempo, con gli Etruschi, poi i Romani, i Veneziani, i Genovesi ecc., in tutte le sue forme possibili, quando ha imposto il proprio dominio sugli altri popoli, ha sempre "colonizzato", vale a dire ha sempre, oltre all'odioso aspetto dell'imposizione, esportato cultura, sapere e opere immortali, oltre che economicamente e socialmente utili.
Anche nella forma più deleteria di espansionismo che abbiamo avuto, il fascismo, quest'ultimo ha sempre cercato di "italianizzare" gli altri popoli.
Non è mai stato usato, né è mai stato concepito o pensato, un metodo simile a quello dell'epurazione etnica, accompagnato dalla più completa cancellazione della civiltà del popolo antagonista.
Viceversa, penso che i popoli balcanici, avendo vissuto per secoli in contatto o sotto il dominio dei Turchi, e dovendo da essi difendersi, hanno, nel corso dei secoli, da questi acquisito questi metodi barbarici, che sono a noi completamente estranei, e anzi, ci lasciano esterrefatti e impietriti al solo pensarci.
I popoli slavi balcanici hanno costituito per secoli il cuscinetto di protezione dell'Europa contro i Turchi, e da questi ne hanno assimilato la ferocia nel difendere il territorio, cancellando da esso, non solo la presenza fisica di abitanti diversi, ma anche cercando con tutte le forze di cancellarne le tracce culturali e storiche.
Queste differenze sono passate, nel corso dei millenni, nei nostri bagagli genetici, e sono esplose nelle vicende al confine orientale con l'Italia.

Infatti penso che le foibe e l'esodo, siano due aspetti terrificanti, ma in modo diverso, degli stessi problemi, aventi la stessa origine.
Le foibe hanno costituito una tragedia, misconosciuta, la cui follia e i cui effetti, si esauriscono nel dolore immenso degli interessati, dei parenti e per qualche generazione. L'esodo e l'epurazione etnica portano alla distruzione della cultura e della civiltà in una determinata zona, ed hanno effetti devastanti per molte e molte generazioni.
Entrambe sono una tremenda sconfitta per la civiltà, per la cultura e per il rispetto della vita stessa.
Certo è che, quello italiano, rientra tra il ristretto novero dei popoli che, almeno nell'era moderna, li hanno subiti e per questo penso che i rappresentanti della nostra cultura, della politica e tutti gli enti culturali, sociali e politici, anche se non direttamente coinvolti, dovrebbero fare di tutto perché queste vicende siano riportate alla luce e che ad esse si dia, pur nell'ambito della lucida e scientifica ricerca storica, il giusto riconoscimento come fatti oggettivamente accaduti e quindi riscattarne la dignità e la gravità restituendoli all'analisi della storia internazionalmente riconosciuta.

Ho pensato subito, ascoltando anche i racconti delle persone che ho conosciuto e componendoli con le impressioni raccolte durante le mie visite turistiche come in un collage, che l'Italia e tutta la ns. cultura millenaria, avevano pagato un prezzo elevatissimo alla storia e all'umanità, un pegno che non sarà mai più, probabilmente, restituito, per tutti i disastri combinati dal fascismo nel ventennio, ed in particolare nei pochi anni di ingresso in guerra.
Un prezzo che, per la verità mi chiedo se non sia stato enormemente sproporzionato e ingiusto, rispetto alle oppressioni che, oggettivamente, tale regime aveva attuato nei pochi anni di amministrazione, sulle minoranze slave in Istria e Dalmazia, e che non potevano aver cancellato, come un colpo di spugna, tutto quanto di positivo aveva diffuso la nostra cultura nel corso di millenni.
L'Italia aveva dovuto pagare in modo spropositato tutto questo, insieme al fatto di avere al proprio interno un partito comunista che era molto forte anche durante gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra e che, per questo, l'hanno costretta a cercare un equilibrio molto instabile fin dall'inizio della sua vita democratica, per scongiurare possibili colpi di stato provenienti da sinistra.
Inoltre c'erano stati sicuramente degli interessi internazionali che miravano, per l'equilibrio tra i due blocchi, a compiacere le mire di espansione sull'Adriatico di un paese comunista come la Jugoslavia, che molto abilmente aveva fatto credere di prendere equamente le distanze.

Quello che, comunque, stavo concretamente toccando con mano in quei giorni è che la mia libertà di italiano, nato e cresciuto nel pieno del boom economico degli anni 60, la libertà mia e delle mie generazioni, era stata pagata a caro prezzo anche dalle persone sterminate durante l'avanzata del comunismo, dalle sofferenze delle persone che hanno subito l'umiliazione dell'esodo e di essere state praticamente cacciate da casa propria e anche dal dolore e dalla mancanza di identità che subiscono ancora oggi i pochi italiani rimasti.
Ero e sono disorientato dal turbinio di pensieri che ciò suscita in me, e, in pratica, non saprei come riscattare questo enorme debito che, sia personalmente che a livello generazionale penso che sia dovuto, sia a quelli che hanno abitato queste terre, sia a quelli che ostinatamente continuano a ritenerle (giustamente) la propria dimora.
Penso di essere stato fortunato, e direi privilegiato, nascendo in un'epoca in cui, se pur tra tante difficoltà, la libertà era già stata conquistata.
Ma da quel luglio 98 penso anche che, oltre ai miei padri e ai miei nonni, di cui ogni tanto sento parlare nei racconti dei miei genitori, che hanno lottato nelle strade, nei vicoli e sulle montagne della Toscana, come in tutte le altre regioni d'Italia, contro il fascismo e il nazismo, devo un tributo inestimabile per la mia libertà anche, e soprattutto, a tutte le lacrime e a tutto il sangue di quelle persone che hanno resistito su quei confini, e per le quali, alla fine della guerra "ufficiale" se n'è aperta un'altra, misconosciuta, e ancor più dolorosa.

Nonostante queste mie cu1pe riflessioni, cercavo ostinatamente, durante le mie visite a città e paesi, dei segni che mostrassero che la nostra presenza non era morta e da cui trarre conforto. Quando siamo stati a Dignano, ho visto per la prima volta, la bandiera italiana, accanto a quella croata, issata sul palazzo del municipio. Più tardi ho notato che ciò avviene in tutte le cittadine in cui esiste ancora una comunità italiana e questo mi ha fatto molto piacere. Ma sul momento sono rimasto veramente colpito.
Inoltre, mentre percorrevo a piedi la via centrale ammirando i palazzi veneziani, i balconi e gli archi gotici, venivo piacevolmente inondato dalla musica delle voci del paese: mi accorgevo all'improvviso che erano facce aperte e sorridenti, di mezza età, di persone che si chiamavano e si salutavano da un marciapiede all'altro della strada.
Mi sono presto reso conto che si trattava del dialetto veneto del posto.
Avrei voluto andare incontro a qualcuno di quei signori, che poteva essere mio padre o mia madre, e rivelare la mia identità, comunicare con loro, ma non sapevo quali potessero essere le reazioni e se sarei riuscito in pochi minuti a uscire dallo stereotipo del turista.
Ho dato 1 kuna ad un ragazzino di lingua croata, che me l'aveva chiesta, estorcendogli una promessa di imparare meglio l'italiano, e sono andato via più sereno, con la lontana speranza che, nonostante tutto, la vita normale stava ancora continuando e la cultura e civiltà, prima o poi, avrebbero ancora prevalso.
In effetti, dopo, ho saputo che il sindaco di quel paese è italiano. Ho pensato che qualcosa di atavico continua a vivere ostinatamente e che ciò avrebbe potuto costituire il seme per una futura maggiore diffusione culturale, se i tempi lo consentiranno.

Ho voluto ostinatamente entrare a visitare il centro del paese di Bale, nonostante non sia segnalato nelle guide come degno di sosta, poiché percorrendo la strada che porta a Pola, ne avevo intuito l'interesse e la bellezza vedendone da lontano la struttura urbanistica e il tipico campanile, che ne evidenziava il carattere marcatamente veneto-italiano.
E infatti, entrando nel paese, sono rimasto affascinato dalla bellezza dei palazzi veneziani, dalla porta di ingresso con sopra il leone di Venezia, la torre dell'orologio.
Era tutto cadente e trascurato. Si notava che tutti questi interessanti palazzi, ma anche tutto il resto del paese, compresa la chiesa sulla sommità dell'altura, non erano mai stati recentemente restaurati, forse dai tempi dell'amministrazione italiana.
Osservavo con stupore i selciati delle strade, consunti e, probabilmente, originali. Tale stato di degrado mette il visitatore nella condizione privilegiata di gustare opere d'arte ancora autentiche e non modificate dal restauro, ma allo stesso tempo, mi ritornavano alla mente gli stessi pensieri di cui parlavo prima, e che, cioè, senza l'oltraggio e l'ingiustizia della storia, quello stesso paese, in quello stesso momento, avrebbe potuto essere un gioiello ben conservato, pieno di gente residente e di turisti che andavano su e giù per quei vicoli, bambini schiamazzanti, con tre o quattro lingue parlate correntemente da tutti.
L'ombra della barbarie si allungava nuovamente sui miei pensieri.
Quello che rimaneva era la bandiera italiana all'esterno del municipio, quello, invece, ristrutturato alla perfezione. Doveva esserci una riunione in comune. Rimbombavano le voci nella piazzetta: ma era croato.
Ho trovato anche l'ingresso della sede della comunità italiana, in quel vecchio palazzo veneziano, indicata da una targhetta.
Avrei voluto quasi bussare, ma ho sentito dei ragazzi all'interno che parlavano in croato. Mi sono scoraggiato e me ne sono andato.
Prima di lasciare il paese ho dato un'occhiata al monumento ai caduti. La maggioranza dei nomi sono italiani e me ne vado col cuore triste e le idee molto confuse.

Questa inquietudine, questo contrasto tra bene e male, tra ciò che si intuisce poteva essere e non è stato, mi ha accompagnato per tutto il tempo.
Come quando, a Pola, ho visto con piacere i grandi lavori di ristrutturazione della sede della comunità italiana, le insegne delle strade in doppia lingua, di evidente recente installazione, la bandiera italiana al municipio e l'atmosfera stessa della città, insieme alla lingua parlata dappertutto, che ne evidenziavano l'italianità, con i suoi palazzi, le chiese, le porte romane, l'anfiteatro.
Ma quando sono entrato nel museo della Fortezza, e ho visto esposti gli atti di compravendita, in lingua italiana e croata, delle attrezzature e dei mezzi portuali, in cui se ne attestavano le vendite dagli italiani ai croati, tutte datate negli anni 47-48-49, allora ripiombavo in quello stato d'animo che mi riportava a quegli anni, e tutto ciò che vedevo era testimonianza non di una vendita, ma di una svendita, se non di una rapina, non di un distacco, ma di una fuga, obbligata dalla storia e dolore senza fine.

Alternanza di sensazioni e di sentimenti, che in certi momenti mi portavano, di fronte ad un affresco, ad una chiesa, nell'arena di Pola, o nella basilica di Parenzo, tra i balconi adorni di fiori o lungo le darsene di un porticciolo, a dimenticare di essere in Croazia, catturato dalle bellezze tutte nostrane di quello che vedevo e toccavo con mano.
Ma un attimo dopo notavo subito qualcosa che mi riportava alla realtà, ed era come settant'anni di storia si condensassero in un attimo.

Mi trovavo casualmente nel centro di Rovigno, la sera della partita del campionato mondiale di calcio Croazia-Germania. Eravamo in un ristorantino sul lungomare, di fronte al porto e mi gustavo l'incantevole atmosfera delle luci sull'acqua, lo spettacolo dei vecchi palazzi che si specchiavano sul mare, il luccichìo degli antichi lastricati, l'odore del mare e la tiepida brezza estiva.
Quasi tutti i locali avevano la televisione collegata all'esterno per consentire ai clienti di seguire la partita.
Io, sinceramente, tifavo per la Croazia, a causa di una mia antipatia recondita per i tedeschi, in qualsiasi loro manifestazione.
Ogni tanto sentivo un boato che si levava all'unisono, ogni volta che c'era un goal o qualche azione importante.
Tutto veniva amplificato, come in un teatro, dalla conformazione e disposizione stessa dei palazzi intorno al porto.
Quando la partita è finita, con la sorprendente vittoria della Croazia, tutto il lungo mare e i vicoli circostanti sono stati invasi, in un batter d'occhio, da una marea di gente festante e chiassosa, da una fiumana di automobili con i clacson spiegati.
Anch'io, in un primo momento, ero contento.
Ma poi, con il passare dei minuti, vedere la piazza della Torre dell'Orologio, con il leone di Venezia che campeggiava superbo, con quell'antico lastricato e con i palazzi di secolare superbia e austerità, invasa da persone con dei caratteri completamente diversi, che gridava tra quelle antichità delle cose per me incomprensibili, in una lingua completamente incompatibile con l'ambiente, e, infine, vedere quella strana bandiera a scacchi bianchi e rossi sventolare in cima alla fontana, tutto ciò ha ridestato in me i soliti mesti e tristi pensieri.
Mi sono immediatamente pentito di aver tifato per la Croazia: se non avesse vinto almeno mi sarei risparmiato di vedere quello scempio.
D'altro canto mi vergognavo anche un po', nel mio intimo, per questi cattivi pensieri, perché tutti erano stati gentili con noi nei locali e per le strade, pur essendo evidente che eravamo italiani dalla faccia stessa e parlando solo ed esclusivamente italiano, e non volevo offendere nessuno, neanche nel pensiero, con idee razziste e malsane.
Sono andato a dormire, come al solito, rimuginando tutto quello che avevo visto e pensato e alla fine consolandomi con l'idea che, come minimo, quella non poteva certo dirsi una vacanza come tutte le altre.

Quando sono arrivato a Vermo, davanti alla chiesa del paese, non riuscivo a trovare la chiesa di Santa Maria delle Lastre. Non c'erano cartelli e non si capiva, dalle poche indicazioni della guida, qual'era la strada da prendere.
Alla fine decido di chiedere informazioni ad una anziana signora di passaggio, ovviamente in italiano.
Lei, prontamente, mi rispose, evidenziando una bella cadenza veneta, che la chiesa era a circa un chilometro e che le chiavi le custodiva una signora che abitava lì di fronte.
Io le feci i complimenti per come parlava bene l'italiano ed ella mi rispose, orgogliosamente: "Io ho fatto le scuole vecchie. Questi ragazzini qua, invece (indicando due bambini che giocavano in piazza), non sanno niente!"
Mi colpì l'aria altera con cui pronunciò la frase e il fatto che non abbia detto: "Non sanno l'italiano", ma: "Non sanno niente!"
Mi faceva anche piacere di essere capitato in un posto ancora semplice, in cui le chiavi di una chiesa così importante fossero custodite da una persona del posto e non da un impiegato venuto da chi sa dove. Tutto ciò aveva un sapore antico.
Quando bussai alla porta della signora delle chiavi, le chiesi se era lei che poteva condurmi alla chiesa, e lei mi rispose, con accento veneto: "S'è mi!"
Erano persone anziane e mi sembravano molto chiuse ed orgogliose. I miei contatti finirono lì e non avrei saputo come stabilire un contatto più profondo, nel timore di offendere la loro sensibilità.
Ho avuto la sensazione che certe cose siano sepolte in qualche angolo perduto della loro memoria, e non me la sono sentita di andarle a rimescolare, fermandomi alle solite frasi di circostanza.
Ho lasciato il paese con mille altre domande senza risposta dentro di me, e con l'unica bella immagine della commessa di un piccolo negozio di alimentari, lì vicino, in cui ci eravamo fermati, giovane, sui vent'anni, che ci ha servito parlandoci gentilmente e fluentemente in italiano, ignara probabilmente, beata lei!, di tutto quanto era accaduto.

Ma molti altri indizi, piccoli e grandi, testimoniavano che l'odio etnico, la paura versi il diverso e la volontà di cancellarlo dalla faccia della terra non erano affatto finiti e che la guerra e i contrasti continuavano anche tutt'oggi.
Ho sentito parlare, inorridito, di casi di profanazione di tombe italiane in diversi cimiteri delle città lungo la costa occidentale. Tanto che in una di esse, il rappresentante della comunità italiana ha dovuto fare un vero e proprio censimento delle tombe con i relativi nomi, che fino agli anni 60 erano esclusivamente italiani, e renderlo pubblicamente noto alle autorità cittadine per evitare il ripetersi di questi fatti e individuare le responsabilità.
Quando ho appreso tutto questo non ho potuto fare a meno di pensare che, sostanzialmente, in cinquant'anni non era cambiato niente.
Quelle popolazioni avevano mantenuto inalterata la loro feroce determinazione di distruggere, non solo la presenza fisica contingente degli "antagonisti", ma anche le loro radici, le loro memorie, la loro cultura. In pratica avrebbero voluto che non fossimo mai esistiti, cancellando tutto e negando l'esistenza stessa dell'evidenza della storia.
Tutto ciò è allucinante e, se non fossi convinto razionalmente che è impossibile (cancellare la storia), potrebbe portare a conclusioni fatalistiche e all'affermazione della barbarie sulla ragione.

Ho letto di una accesa diatriba che si è sviluppata in un paesino dell'interno, in cui, per restaurare una campana del XVI o XVII secolo (non ricordo) questa è stata fusa e ricolata. Nel fare questo è stato posto su di essa uno stemma croato.
La comunità italiana ha vivacemente protestato e, dopo vari tira e molla, è riuscita a far limare via lo stemma.
La sensazione che ho provato di fronte a questa storia, è stata la stessa di quando ho visto, nell'Arena di Pola, una scritta in lingua croata, non su una lapide appesa, ma direttamente scolpita sulla pietra millenaria di una colonna portante del monumento.
Pur non essendo un letterato od un esperto di storia dell'arte, sono rimasto inorridito nel vedere e nel sentire queste cose.
Sembrano di poco conto, ma in realtà rivelano una volontà di affermazione nazionalistica pronta a calpestare tutto e tutti, e quindi, anche ciò che, con evidenza della storia, non appartiene a quella cultura, distruggendo o, nella migliore delle ipotesi, danneggiando irrimediabilmente ciò che appartiene ad un'altra cultura, indebolendone così la presenza e testimonianza sul territorio. Nella più benevola delle ipotesi ciò testimonia una profonda ignoranza e rozzezza culturale, lontanissima dalla nostra, più simile a quella delle popolazioni delle steppe dell'Asia Centrale, e, comunque, non adeguata a gestire il patrimonio storico-culturale che si trovano tra le mani, e di cui non conoscono neppure l'entità.
E' come se la famosa scuola di restauro fiorentina, famosa in tutto il mondo, dopo aver lavorato su capolavori della scuola fiamminga o spagnola, mettesse il giglio dappertutto, disinteressandosi dell'origine dell'opera. Perfino i nazisti, che hanno commesso le più grandi atrocità della storia, rispettavano le opere d'arte e la loro cultura d'origine e si sono guardati bene dall'abbattere il Ponte Vecchio durante la ritirata da Firenze.
In Germania poi, nonostante i tedeschi siano più volte presi di mira per la loro rozzezza, sono nati eminenti studiosi della cultura e lingua latina, e della cultura classica in generale.

I contorni definitivi di questo evidente baratro che esiste tra queste due differenti culture, dovuta a due origini completamente diverse, l'ho avuta visitando il museo etnografico di Pisino. Nelle Stanze in cui sono esposti i reperti preistorici e quelli dei primi insediamenti anche dell'epoca storica (presumo illirici) e che quindi testimoniano la presenza di popolazioni che abitavano l'Istria in tempi molto remoti, le spiegazioni e le didascalie erano esclusivamente in croato (neppure in inglese).
Nelle stanze dei costumi tradizionali contadini, tra l'altro molto interessanti, le didascalie erano in croato e in inglese. Ma quello che mi ha colpito è che sotto ogni costume, nella descrizione, era riportato l'aggettivo "nazionale", per esempio "costume nazionale dell'Istria Occidentale", "costume nazionale dell'Istria Centrale" e così via.
Se tutto ciò non fosse tragico, l'avrei trovato estremamente ridicolo, ma intuivo che non era così e che quell'aggettivo nascondeva un'altra realtà, che mi suonava estremamente nazionalista e sciovinista.
Sebbene, come ho detto prima, ritenga che l'Istria e la Dalmazia avrebbero meritato la dignità dello status di regione autonoma o indipendente, l'aggettivo "nazionale" applicato poi dai croati, mi sembrava del tutto fuori luogo.
E' come se trovassi, nei musei della Val Sesia e dell'Ossola, la scritta "Costume nazionale dell'Alta Val Sesia" o "Costume nazionale della Valdossola". Ma la più buffa che mi viene in mente è : "Costume nazionale della Media Val di Serchio" (Lucca).
L'unica sala in cui c'erano scritte delle istruzioni in italiano era quella in cui venivano narrate, con l'ausilio di riproduzioni di foto d'epoca, la vita e le vicende di quel famoso sacerdote croato, di cui ora mi sfugge il nome, che aveva sacrificato tutta la sua vita per il riscatto degli "schiavoni" dall'oppressione dello straniero.
Si capiva che questo messaggio propagandistico era rivolto soprattutto ai visitatori italiani. La traduzione dei testi era infatti integrale.
Per quanto riguarda invece gli attrezzi agricoli e di vari altri mestieri, della fine del secolo scorso e dell'inizio di quello attuale, molto interessanti, nessun cenno veniva fatto alla presenza coloniale delle popolazioni italiane, che sicuramente erano state presenti. Infatti ho letto successivamente su più di un libro che i primi contatti tra le popolazioni slave e quelle latine in Istria si sono avuti verso il VII secolo. E quindi da esse avranno sicuramente imparato le tecniche agricole, la coltivazione della vite e dell'ulivo, oltre al fatto che, subito dopo, l'influenza di Venezia è stata determinante fino, praticamente, all'era moderna.
Tutta l'impostazione del museo mi è parsa quindi didatticamente tendenziosa.

Ma mi rendo conto che la parola "tendenzioso" non è proprio adatta.
Anche parecchi nostri studiosi e storici che hanno trattato la questione dell'Istria sono stati, e sono, considerati tendenziosi. Ma essere tendenziosi significa prendere atto, prima di tutto, che esiste o è esistita una serie di fatti, di vicende, di situazioni e poi, di esse, darne una interpretazione che va ad esclusivo vantaggio di una delle parti interessate.
In questo caso, nel caso dell'Istria e della sua storia recente fino alla situazione attuale, l'atteggiamento è molto peggiore perché si negano persino i fatti, o meglio si disconoscono e volutamente si ignorano.
Si ignora che sia mai esistita la presenza etnica italiana su questa terra e si disconosce l'influenza della sua cultura, sia nel passato che nel presente.
"Tu, in quanto mio nemico, non esisti e non sei mai esistito, perché ti ho cancellato dalla faccia della terra e dalla storia": questa è l'impostazione del museo di Pisino.

Una ulteriore conferma di queste angosciose considerazioni l'ho avuta all'uscita del museo, dove ho chiesto se potevo avere un opuscolo o un libro da acquistare, che illustrasse il contenuto del museo stesso. Tutto quello che c'era disponibile era un vecchio libercolo, con poche e insignificanti informazioni e qualche fotografia in bianco e nero.
L'ho acquistato come ricordo e come testimonianza dell'unico documento che ho acquistato in quei giorni e come indice del livello culturale che ho trovato.
Da quel giorno infatti, assillato dal dubbio, mi sono messo a cercare disperatamente, nelle città più grandi che ho frequentato, Pola, Rovigno, Parenzo, una libreria in cui acquistare uno o più libri sulla storia dell'Istria, ma invano.
Ho trovato solo delle guide turistiche, con le informazioni più importanti per le visite, le foto, le illustrazioni, tra l'altro costosissime, e niente più.
Ma quello che è più grave è che non ho trovato librerie nel vero senso della parola, né libri in croato o in qualsiasi altra lingua, degni di questo nome.
Non vorrei sbagliarmi, perché la mia presenza è stata troppo breve per dare giudizi definitivi, ma ho avuto l'impressione netta che l'informazione culturale libera non abbia una grande diffusione e che, anzi, la circolazione delle notizie e dell'educazione sia rigidamente controllata. Questa considerazione, se è vera, confermerebbe le sensazioni avute nel museo di Pisino, che, a livello generale, consistono in una voluta ignoranza della storia in quanto pericolosa testimonianza della non veridicità di quanto un regime radicalmente nazionalista ha sostenuto per decenni, seppur, all'inizio, nascondendolo sotto falsi propositi e affermazioni comuniste e internazionaliste.
Scavando nella storia, si potrebbe scoprire che queste persone, queste popolazioni, questa cultura, non hanno niente a che fare con i luoghi che abitano e da ciò potrebbe derivarne un trauma molto grande.
Ma tutto ciò è anche spaventosamente pericoloso, perché, come si dice, chi non studia il proprio passato è destinato a riviverlo, e mi chiedo come possano i giovani del posto sviluppare una propria coscienza libera e critica senza avere ciò che spetta loro di diritto, e cioè la coscienza delle proprie radici e del proprio passato.
Come potrà non accadere di nuovo, prima o poi, quello che è successo, senza che le nuove generazioni imparino dagli errori passati? Cos'è che distingue l'uomo dagli animali se non il fatto di imparare dagli errori del passato, non soltanto dalle informazioni che passano nel bagaglio genetico, ma anche da quelle tramandate sotto forma scritta o di altra documentazione? Persino in Turchia, fuori da ogni chiesa, ogni monumento, ogni museo, ho trovato libri in tutte le lingue, e anche in italiano, sulla storia e la cultura del luogo, anche se non aveva caratteristiche islamiche o turche, ma potevano essere, come sappiamo, greche, romane, bizantine, ittite o addirittura celtiche.
Non credo che anche i turchi amino molto la nostra cultura occidentale, greco-romana, ma, almeno dopo il processo di occidentalizzazione portato avanti da Ataturk, hanno fatto notevoli sforzi almeno per tollerarla e, sebbene con qualche remora, si vede che cercano di valorizzarne la presenza sul loro territorio.
Qui invece non trovavo traccia di documenti o libri e mi giungeva anche notizia che le uniche iniziative valide in campo culturale venivano prese dalle comunità italiane e dai loro centri culturali e di ricerca, a conferma del bagagli culturale e della tendenza mentale completamente diversi che caratterizzano la nostra gente da millenni.

Ho ancora ben presente, di fronte a me, l'immagine del mio amico che, mentre mi conduceva per le strade e i vicoli della sua città, mi mostrava la grazia e l'eleganza degli ornamenti delle facciate dei palazzi, dei balconi, dei portali in pietra e mi spiegava con passione la raffinatezza con cui erano stati costruiti persino i travetti di sostegno dei canali di gronda! "I croati non avrebbero neanche potuto concepire tutto ciò!" diceva, e quel fervore mi illuminava in una frazione di secondo, più di mille altre parole, di quello che, nel più profondo del nostro essere, ci accomuna, che siamo noi istriani, veneti, toscano o siciliani.
Millenni di storia civile che si esprimono in un profondo attaccamento per la propria terra, le proprie radici, la propria città e quel senso della nostra comune storia.
E' per questo che, mentre ascoltavo il mio amico, pur essendo toscano fino all'ultima cellula, mi sentivo veramente a lui vicino, pur avendo vissuto centinaia di chilometri lontano, in un mondo completamente diverso. Penso che sono riuscito veramente a calarmi in quell'ostinato attaccamento dei pochi italiani rimasti, a quei profumi, a quei sapori, a quelle luci particolari, così come particolare e unica è ogni città o paese, di ogni angolo d'Italia.
Quell'unicità che ne fa, per i propri abitanti, una piccola capitale.
Riuscivo a comprendere come quei pochi sopravvissuti non vogliano assolutamente saperne di andarsene. E riesco anche a comprendere la nostalgia struggente di chi se n'è andato. Per pochi attimi, nella mia mente, era come se le colline intorno alla mia città, in Toscana, abbracciassero quella piccola città sul litorale adriatico e due terre così lontane si fondessero in un unico spettacolo di luci, di suoni, di odori e di sapori.
Riuscivo a vedere le cose con gli occhi e con il cuore di chi aveva vissuto e viveva in quei luoghi, perché, in realtà, un pezzo di me stesso era sempre stato lì.

Pensavo a quel tipo di socialità, tipica della nostra cultura, che ci porta, direi quasi, al culto del centro della città o del paese, come punto di incontro della comunità, ritrovo per le discussioni politiche, sociali o sportive. In ogni nostro piccolo paese c'è sempre una piazzetta, con una chiesa, il municipio, il bar, dove ritrovarsi quasi come in una seconda famiglia o una famiglia allargata, tra le mura calde e protettive di antiche costruzioni, che ci guardano come se la nostra storia vigilasse su di noi.
Questo aspetto l'ho ritrovato in Istria, tra la gente che ho conosciuto. Tanto è vero che il giretto in centro, o al mercato, con i miei amici, era lo stesso rito di quello che trovo in Toscana ogni volta che vi ritorno a fare visita ai miei.

Ma, vi sembrerà strano quello che sto per dire, la sensazione più forte di questo legame indissolubile l'ho avuta una sera quando, dopo una giornata di visite in giro per l'Istria, dopo aver cenato fuori, siamo tornati a casa dei nostri amici, che erano ancora svegli e guardavano la televisione.
Dopo esserci salutati cordialmente, lui si è alzato, ha aperto il frigorifero e ha tirato fuori un piatto in cui erano accuratamente sistemate alcune acciughe, delle fette finissime di cipolla bianca, il tutto immerso in un centimetro di olio buono dell'Istria.
Lui mi ha guardato con la sua aria scanzonata, ma che riconosco tipica dell'umorismo veneto, e mi ha detto: "Lo so che avete già cenato. Sai, non è granch'è: ma è solo per bere insieme…" e allora mi sono sentito veramente a casa!

Certo che l'ambivalenza dei miei sentimenti era pur sempre presente e, a volte, mentre ammiravo la splendida bellezza "lagunare" delle cittadine della costa, mi tornavano alla mente, come dei flash, delle cose che erano in stridente contrasto con quello che vedevo, o che ne costituivano la negazione o l'ignoranza.
Per esempio mi si sono ripresentate davanti le immagini di un servizio televisivo, che una volta ho visto in Italia, nella trasmissione "Sereno Variabile" su Rai 2, in cui venivano presentate le attrazioni della Croazia, attraverso delle splendide immagini di vedute panoramiche di piazze e monumenti delle città della costa dell'Istria e Dalmazia.
Per qualsiasi persona italiana con un minimo di sensibilità, e cioè penso la maggior parte, era evidente già da quelle immagini che l'architettura e l'arte erano di origine veneziana. Ma ad un certo punto appariva una signorina bionda e molto carina che, in un italiano molto fluente e corretto, seppur con un accento slavo appena accennato, invitava tutti a visitare la Croazia per apprezzare le sue bellezze naturalistiche e le sue città in "tipico stile croato". Tipico stile croato!? Avrei tirato una ciabatta dentro il video! Ricordo che già allora mi vennero in mente almeno cento aggettivi, certamente non gradevoli, per definire quell'osceno sproposito, sicuramente non involontario, che trasformava una innocente pubblicità turistica in una evidente propaganda, non solo tendenziosa, come dicevo prima, ma addirittura consapevolmente mirata a negare la presenza degli italiani in quelle zone e, ancor peggio, a ignorare la storia e che quella presenza c'era sempre stata.
All'improvviso mi veniva in mente anche che sul piccolo atlante geografico De Agostini, alla voce Croazia, la minoranza italiana non è neppure segnalata, mentre, stando a quello che mi hanno detto, gli italiani sono circa 30.000, numero degno di una indicazione su quella pubblicazione, visto che alla voce Slovenia ne sono indicati 5.000. E, visto il clima che si respira, non mi meraviglierei se parecchia gente avesse paura a dichiararsi italiana e che tale numero sia in realtà molto maggiore.

Lentamente, tutte le informazioni, gli indizi, le sensazioni raccolte e recepite in quei giorni, ma anche quello che avevo intuito prima, si andavano componendo come in un mosaico. Trovavo così risposta ad alcune domande, mentre il mosaico si faceva indefinito ai contorni e se ne aprivano cento altre a cui non sapevo rispondere: potevano tale ferocia e odio etnico trovare una adeguata spiegazione nell'oppressione delle minoranze etniche slave e nel tentativo di italianizzarle a tutti i costi, attuate dal fascismo durante l'amministrazione italiana?
Tale odio etnico, in breve, era di origine recente o aveva origini più antiche, magari durante la dominazione asburgica o, addirittura fin dalle origini, quando, nell'alto medioevo, le popolazioni slave vennero a contatto con quelle latine che già popolavano la zona da centinaia di anni? Che ruolo e che responsabilità, o che interessi, avevano avuto le potenze alleate nell'imporre una soluzione come quella che si è attuata per il problema della Venezia Giulia, chiaramente ingiusta e fuori da ogni giustificazione storica?
Non era stato troppo alto il prezzo pagato dall'Italia per gli errori commessi durante il ventennio e potevano quest'ultimi cancellare quanto la nostra cultura aveva contribuito alla civiltà umana? Poteva tutto ciò giustificare lo scempio dello sterminio, seguito, per di più, dall'umiliazione infame di essere cacciati da casa propria?
Che responsabilità hanno avuto, in tutto questo, la passività del popolo e dei governi italiani, che da quel periodo oscuro sembrano aver tratto una fonte inesauribile di disistima verso se stessi e le istituzioni che, a mio avviso, si protrae fino ai giorni nostri?
Che cosa sarebbe successo e come sarebbe oggi l'Istria, se in quegli anni, invece di incoraggiare l'esodo, si fosse, al contrario, incentivato quelle centinaia di migliaia di italiani a resistere e a continuare ad abitare quelle terre?
E' stata, la soluzione tragica finale, un compromesso, non soltanto col pesante fardello dei disastri del fascismo, ma anche con la fortissima inflenza delle forze comuniste interne che in Italia, nell'immediato dopoguerra, fino alla fine degli anni 50, minacciavano di portare un paese, dalla posizione debolissima, sull'orlo di un colpo di stato e una ulteriore guerra civile? E ancora, ai giorni nostri, che interesse hanno avuto le potenze europee, durante la guerra degli anni 90, a riconoscere immediatamente la sovranità di piccoli paesi come Slovenia e Croazia, con le conseguenze ovvie che si sono avute sull'Istria?
Esiste ancora oggi un interesse internazionale per cui questa costa non rientri di nuovo sotto l'influenza italiana?
E, quindi, per il futuro, c'è la possibilità, nell'ottica di una possibile unione europea, non dico di riaffermare il predominio della cultura e civiltà italiana, ma almeno che la loro presenza ritorni ad essere quella che compete loro storicamente, in una regione pacifica, multietnica e multilingue, che renderebbe questi posti un vero e proprio paradiso, anche economicamente?
Sarà possibile, attraverso un futuro libero scambio di merci e di persone, che diventi più tranquilla e rassicurante la vita degli italiani di qui, attraverso una maggior influenza e una maggiore presenza dell'Italia, se non attraverso nuovi afflussi di persone dovuti al normale evolversi della situazione economica?
Sarà di nuovo possibile, un giorno, per questa gente, affermare orgogliosamente di essere prima di tutto istriani, e poi italiani, come avviene in qualsiasi regione italiana, sconfiggendo quell'angosciosa crisi di identità che ora li attanaglia?

Tutte queste domande, ed altre ancora, hanno fatto sì che, da quando sono ritornato dalla mia singolare vacanza, unica, non ho mai smesso di cercare libri, documenti e informazioni che mi permettano di capire di più e di approfondire questi problemi.
E non mi ha più lasciato neanche il pensiero di questi amici, che ho sempre avuto, anche se non lo sapevo, e il desiderio di rivederli presto, per condividerne per qualche istante, se possibile, le emozioni e i sentimenti.