S.Eufemia - settembre 1999

di Cerboncini Alessandro

Durante le mie ultime vacanze, ho avuto la fortuna e il piacere di trascorrere a Rovigno proprio la settimana dedicata ai festeggiamenti della santa patrona della città. Come immaginavo, è stato impossibile che anche questo mio secondo soggiorno in Istria non si trasformasse per me in una ulteriore fonte di emozioni e riflessioni, oltre che l'occasione per la riscoperta di antichi, profondi ed autentici valori e vorrei cercare di esprimere qui quanto ho provato.

La sera stessa del mio arrivo, il giorno 11, ho assistito, presso la sede della Comunità Italiana, al raduno dei rovignesi ed al concerto in onore di Piero Soffici.
Sono rimasto veramente colpito e, direi quasi commosso, nel constatare la forza con cui, sia gli esuli che i "rimasti", sono in grado di mantenere così vive certe tradizioni, pur in condizioni così difficili. Mi si accapponava la pelle vedendo i bambini piccoli che canticchiavano anche loro le vecchie canzoni mentre venivano eseguite sul palco, vedendo la fierezza con cui le donne del coro ribadivano, dietro il palco, quello che il "Gato" cantava di fronte al pubblico.
Sono rimasto felicemente colpito dal fatto che i cori maschile e femminile siano così numerosi e anche dal fatto che la banda, pur essendo cittadina, sia composta per la maggior parte da italiani. E mi sono anche un pò inorgoglito, sentendomi parte della cultura italiana in generale, nel pensare che, anche in condizioni disperate, e in una situazione di inferiorità numerica, gli italiani sono sempre in grado di produrre manifestazioni culturali apprezzabili. Ero anche felice di sentire il festoso chiasso e rumoreggiare del pubblico dietro le quinte ("ciacolare" si dice?) tipico di noi italiani tutti e mi è venuta in mente, compiaciuto, la puntuale battutaccia toscana (che non ho pronunciato) : "Per farci stare zitti, l'unico sistema sarebbe farci fuori tutti!"
Ho quindi passato una serata piena di emozioni in compagnia dei miei amici del posto.

Dagli scambi di idee che ho avuto a mente fredda nei giorni successivi, così come del resto da tutto quello che avevo letto in precedenza su varie pubblicazioni che ho letto, questi eventi, così come tutto quello che riguarda le vicende della questione istriana, vengono vissuti in modo completamente diverso dagli esuli e da quelli che sono rimasti ("Con la nostalgia non si mangia!" ho sentito dire da qualcuno di questi ultimi).
In pratica mi sembra che non corra esattamente buon sangue tra questi due gruppi di persone, che rappresentano in modo differente, ma egualmente drammatico, due volti della stessa tragedia. C'è una frattura che ancora non riesce a essere completamente colmata e penso che, al riguardo, sarebbe fondamentale un coinvolgimento più profondo delle nuove generazioni (che per la verità mi sono sembrate piuttosto tiepide sull'argomento), da entrambe le parti, che forse potrebbero offrire una analisi più serena e distaccata di quanto è successo.

La sera del 15 ho assistito, nel Convento Francescano, ad un concerto del gruppo veneziano Nova Accademia, che ha eseguito dei pezzi interessantissimi di musica barocca di Francesco Sponga. I connotati del concerto erano quindi tipicamente italiani, sia per l'ambiente, che per la musica, che per l'esecuzione, ma, nel bel mezzo del programma era previsto un pezzo di un autore croato contemporaneo (Massimo Brajkovic).
A parte le considerazioni artistiche sul pezzo in sè (noiosissimo!), mi sembra proprio che in un concerto di musica barocca veneziana, eseguita da un gruppo che lavora solo con strumenti originali o copie fedelissime, questo pezzo c'entrasse come il cavolo a merenda. Appena mi sono accorto di questo mi è subito venuto il solito sospetto della volontà dei croati, a volte subdola e strisciante, a volte marcatamente pacchiana, di inficiare col loro marchio tutto ciò che è italiano. Non mi meraviglierei che trovassero il verso di dimostrare che anche Sponga, pur essendo nato a Parenzo nel XVII secolo, sia in realtà croato.
Nell'ipotesi più ottimistica, spero che quell'autore sia della zona e che, in occasione dei festeggiamenti della patrona, abbiano approfittato della presenza di un gruppo qualificato per eseguirne l'opera. Ai posteri l'ardua sentenza!
Ironia a parte, ho appreso di recente che diatribe di questo genere sono state montate ad arte, da parte slava, a proposito delle origini del pittore Carpaccio e dell'architetto Orsini (ma ci saranno sicuramente altri casi del genere che ignoro), la cui italianità è messa in dubbio nonostante lo stile evidente delle loro opere.
Ciò che sfugge completamente a questa gente, fatto che può essere facilmente individuato attraverso lo studio della storia balcanica, è che il senso di appartenenza in una società civile ed evoluta, non è costituito tanto dal fattore etnico, quanto da quello culturale e che la simbiosi creatasi in queste terre nel corso dei secoli, tra l'elemento italiano e quello slavo, con la progressiva assimilazione, pacifica e consenziente, del secondo nel primo, poteva essere spezzata e distrutta soltanto dalla bestiale violenza di popoli estranei, ignoranti questa cultura. Una piccola esperienza ad ulteriore supporto del concetto sopra esposto, l'ho avuta proprio quella sera, prima del concerto, in città, quando ho chiesto a diverse persone informazioni su dove si trovasse il Convento Francescano. Ebbene la maggior parte non sapeva dove fosse e tanto meno era informata del concerto che doveva essere eseguito. I pochi che rispondevano a colpo sicuro, dimostravano di essere autentici rovignesi, mentre tutti gli altri erano, evidentemente, immigrati da chi sa dove, e non conoscevano affatto la città in cui vivono, le sue radici culturali e le sue più autentiche tradizioni.

In quei giorni, passati a Rovigno, sono venuto a conoscenza di tanti altri piccoli aneddoti che, se fossero accaduti in una qualsiasi provincia, vallata o paesino italiano, liberi ormai noi da qualsiasi pregiudizio razziale o nazionalistico, potrebbero assumere i connotati di un innocente, sano e pittoresco campanilismo; qui invece si colorano e si caricano immediatamente di oscuri significati sciovinisti e revanscisti, di odio, di livore e torvo risentimento, in particolare nei confronti di tutto ciò che è specificamente italiano, anche se non necessariamente appartenente al periodo fascista.
Come quel distinto signore croato-bosniaco che, sul prolungamento di una strada alla periferia di Rovigno, che ha da sempre avuto un nome tipicamente italiano, ha costruito un bel condominio. Quando le autorità cittadine hanno deciso, come normale, di regolarizzare il prolungamento della strada, installando il cartello civico con il suo nome nei pressi della nuova costruzione, questo signore è uscito, fuori si sé, urlando e sbraitando che lui viveva in Croazia e non voleva saperne di queste cose, e ha pensato bene di sradicare di sua mano il palo e di gettarlo lì per terra. Non so se il gesto abbia avuto qualche conseguenza per il nostro colto e fine signore (il cartello tuttora non c'è), ma l'ho trovato molto significativo quando mi hanno detto che egli ha costruito questo nuovo palazzo con i soldi guadagnati in 20 anni di lavoro in Germania. Ciò significa che questa persona, nel corso del suo lungo soggiorno in un paese che dopo la tragedia dell'ultima guerra mondiale si è profondamente trasformato in senso democratico, non ha imparato assolutamente niente. Intendo dire che quello che deve essere fatto per una profonda e completa civilizzazione e democratizzazione di questi popoli va ben al di là della sconfitta politica di certi vertici autoritari, ma deve agire in profondità partendo proprio dalla base della cultura popolare: è proprio quella che è radicata su concetti arcaici di identificazione nazionale con la etnicità e che è il sintomo più evidente di un percorso storico completamente diverso dal nostro fin dal più profondo medioevo.
La festa della Marina Militare Croata cadeva, se non sbaglio, il 17/9. Un articolo comparso il giorno dopo sul giornale "Glas Istre" spiegava che quella data era stata scelta perché in quel giorno, nel lontano anno 887, un conte croato di cui non ricordo il nome, in una baia della Dalmazia, aveva sconfitto i veneziani in una battaglia navale.
Quando D. mi ha tradotto l'articolo, ho subito pensato all'assurdità, completamente estranea ormai al nostro modo di interpretare la civiltà e la storia, nel ricercare in un evento così lontano, oltre che una artificiosa motivazione di coesione nazionale (le coste istriane e dalmate sono sempre state di cultura italiana, e la Croazia si è affacciata al mare, come ben sappiamo, solo praticamente ai giorni nostri con la violenza e la forza), un ulteriore motivo di contrasto e contrapposizione con tutto ciò che rappresenta l'Italia.
Se tutti i popoli avessero radicato in sé questo profondo astio, non sarebbe stato mai possibile costituire l'Unione Europea, né sarebbe possibile nutrire fondate speranze per una solida cooperazione futura tra i paesi del Mediterraneo.
Inoltre se noi ricercassimo nella nostra storia di 3 o 4000 anni tutte le date che possono essere motivo di lutto o di gioia, in Italia penso che staremmo tutto il tempo a commemorare eventi importanti e non si lavorerebbe più.
Su un vecchio numero del giornale "Famiglia Ruvignisa" ho letto dei vari pasticci che sono stati combinati in occasione del restauro, eseguito tempo fa, della statua in bronzo di S. Eufemia, posta sulla sommità del campanile.
Quando, dopo il lavoro, si è arrivati a rimettere al suo posto la statua, sono state eseguite delle manovre simili a quelle che servirebbero per disporre un'arma nucleare segreta in una base atomica, per tener lontano il pubblico dall'immagine e far sì che la gente non si avvicinasse troppo.
Ciò nonostante, ad un foto-cineamatore locale ben attrezzato, non è sfuggito il fatto che la mano destra della santa sia stata tagliata e rifusa. Dal confronto tra le due foto, eseguite prima e dopo il restauro, risultava evidente che era cambiata anche la posa della mano: mentre prima appariva con tutte e cinque le dita distese, in quell'atteggiamento di materna protezione di tutti i fedeli, comune a tutte le immagini sacre, dopo aveva solo il pollice e l'indice allungati e le altre dita piegate.
Quando ho visto l'articolo mi sono indignato e stizzito, oltre che per la barbarie con cui, scientemente, è stata rovinata un'opera d'arte e prodotto un falso, anche per il fatto che, come mi hanno fatto notare, nel linguaggio gestuale croato quell'atto ha un significato particolare. Era evidente quindi che il cambiamento non era dovuto ad un involontario, se pur deprecabile, errore, ma sempre alla stessa perfida, subdola e pervicace volontà di snaturare tutto ciò che è italiano.
Ho pensato alla sofferenza dei rimasti nel vedere ogni giorno queste violenze, che non sono migliori di quelle fisiche, e che, non solo l'Italia, ma l'intera comunità internazionale dovrebbe fare di più per tutelare un patrimonio che appartiene a tutto il mondo, e non è proprietà esclusiva di un popolo ignorante.
Ma, ad onor del vero, bisogna dire che non tutti sono così. In particolare la gente croata di radice autenticamente istriana, da quello che mi hanno detto e da quello che ho potuto constatare personalmente nei miei sporadici e casuali contatti quotidiani, è completamente diversa : li riconosci subito anche dalla fisionomia, hanno un'espressione più aperta, vedono di buon occhio il turista italiano, sono gentili e non ti guardano con quel cipiglio torvo e truce, tipo fratello brutto di Milosevic, parlano un italiano correttissimo in cui l'accento slavo si riesce a malapena a distinguere perché sfuma quasi completamente in quello istro-veneto e, soprattutto, hanno una di quelle caratteristiche che distinguono l'uomo da tutti gli altri esseri viventi: sorridono!

Ma una ulteriore e più grande sensazione della grande e quotidiana sofferenza di chi è rimasto l'ho avuta proprio la sera del 16, giorno di S.Eufemia, durante i festeggiamenti.
Sono sceso in città col mio amico D. verso le 20. A quell'ora stavano cominciando ad esibirsi i vari cori tradizionali che erano stati invitati. Nel frattempo abbiamo girovagato un pò per le strade, dando un'occhiata ai vari banchetti con la loro merce esposta. Non abbiamo trovato niente di interessante, che ricordasse le vecchie tradizioni di Rovigno, riguardo alla vita di mare, artigianato particolare, per non parlare di antiquariato. Solo anonime cianfrusaglie.
L'unica cosa che mi ha incuriosito sono state delle riproduzioni di una vecchia carta geografica dell'Istria, che però, ad uno sguardo attento, risultavano malfatte, con i nomi delle città illeggibili e senza traccia dell'anno a cui si riferivano. Ho scambiato quattro parole con il povero diavolo che le vendeva e ho subito dubitato che lui stesso sapesse esattamente di cosa si trattasse. Mi è venuto anche in mente che al posto del negozietto dove, l'anno scorso, avevo acquistato alcune cartoline con immagini d'epoca di Rovigno, vicino alla stazione degli autobus, ora c'è un negozio di biciclette e, inoltre, ho dovuto girare tutta la città per trovare una cartolina in cui il nome fosse scritto anche in italiano.
C'erano molti dolci e poi mi hanno molto colpito due o tre capretti (o non so quale altro animale fossero) che venivano fatti cuocere istantaneamente allo spiedo lungo le banchine del porto. Ecco! Ho avvertito questi animali cotti allo spiedo, con lo sfondo delle luci che illuminavano il campanile di S.Eufemia, come il simbolo del completo sradicamento delle tradizioni originali da queste terre, come la violenta imposizione di altre tradizioni completamente estranee, come il completo snaturamento di un ambiente dalle caratteristiche plasmatesi nel corso di diversi secoli. Ho dato un occhiata di sotterfugio a D. e, percependone quasi fisicamente il nervosismo, ho tirato di lungo, accelerando il passo.
Siamo così ritornati nella piazza dell'Orologio dove c'era il concerto all'aperto. Stavano cantando gli ultimi cori, in lingua croata. Non so se erano cori di paesi limitrofi, ma D. mi ha detto che non li conosceva assolutamente. In quell'atmosfera da fiera in cui il pubblico oscillava come presenza tra banchetti di scarpe e giocattoli di plastica, banchetti di dolci, souvenir e bar, tra chiacchere in vari idiomi e dialetti, tutti diversi tra loro, non mi sembrava ci fosse molta attenzione per le evoluzioni armoniche dei cori.
Quando però è salito sul palco il coro misto della Comunità Italiana, non so se per autosuggestione o meno, ma ho sentito che l'attenzione del pubblico è aumentata e il rumoreggiare e "ciacolare" è sensibilmente diminuito. Fin dalle prime note e le prime strofe eseguite, di quelle vecchie canzoni rovignesi sulla cui autentica origine nessuno potrà mai obbiettare, ho sentito subito un intenso senso di commozione che volteggiava su tutta la piazza e che potevo avvertire anche sulla mia pelle. Pur non riuscendo ad afferrare il significato di ogni singola parola dei testi, ero attanagliato dalla loro melodia e dallo struggente senso di nostalgia che suscitavano, finchè poi, nell'ultimo pezzo, quando il coro ha attaccato il vecchio inno di Rovigno (" La Vecia Batana"), ho sentito addirittura come una grande forza magnetica che passava sopra la mia testa e si catapultava verso il coro. Mi sono voltato e ho visto decine e decine, ma in quel momento potevano sembrarmi anche centinaia o migliaia, di facce di uomini e donne, con gli occhi lucidi, il busto impettito e lo sguardo fisso verso il coro, che muovevano le labbra e, mormorando, accompagnavano l'esecuzione.
Non so esprimere a parole tutto quello che ho provato in quel momento, ma sicuramente non aveva niente a che fare con tutto quello che avevo visto prima e che avrei visto dopo. Un'altra immagine che mi ha molto confortato è stata quella di alcuni coristi di lingua croata che si erano esibiti in precedenza, che, mescolati tra il pubblico, accennavano anch'essi ad accompagnare il motivo, ondeggiando anche con il corpo: dimostrazione ulteriore che le persone colte sanno benissimo che la forza della cultura va ben al di là di meschini risentimenti nazionalistici. La musica, come diceva il nostro grande vecchio Giuseppe (Verdi) si distingue semplicemente in buona e cattiva (e basta).

Terminato lo spazio dedicato ai cori, alle 21 ha iniziato la sua performance un duo, uno alla fisarmonica, l'altro alla tastiera e strumenti vari a fiato, che, alla faccia degli istriani presenti, italiani e croati, oltre che dei turisti presenti che non conoscono a fondo la storia locale, ha eseguito per più di 45 minuti musica popolare slava che non aveva niente a che fare con la tradizione rovignese e istriana in genere, facendo le presentazioni, tra l'altro, esclusivamente in croato. Il messaggio era chiaro : "Pensatela come vi pare, ma qui ora ci siamo noi... e basta!" La vivace musica zigana dal ritmo tipo polka incalzava incessante, e qualche coppia di vecchietti arzilli accennava a qualche passo di danza in mezzo alla piazza. Niente a che fare, comunque, con l'atmosfera catalizzata che si era creata qualche tempo prima e vedevo quelle note saltellanti spegnersi sul volto perplesso ed attonito di D., come su una parete fonoassorbente. Alla fine, il duo, ha eseguito il famoso brano "Romagna mia" di Casadei, che, trattandosi del solito cavolo a merenda, più che una gentile concessione agli italiani presenti, mi è sembrata una solenne presa per i fondelli.
Ci siamo guardati e, senza dire niente, ci siamo incamminati verso la macchina per far ritorno a casa. Abbiamo ulteriormente allungato il passo quando, all'altezza più o meno del "Cantinon", abbiamo trovato un gruppo musicale che, con i suoi violini, fisarmoniche, stivali, giubbetti senza maniche e compagnia bella, suonava musica slavona sul bordo del molo secolare in pietra bianca d'Istria. Vicino c'era la solita, immancabile bestia scuoiata che girava sul fuoco. Dalla strada abbiamo anche visto quell'orrendo dipinto del bue che, all'interno del Cantinon, ha sostituito di recente una vecchia foto d'epoca di Rovigno.
Ogni commento serve solo a rigirare il coltello nella piaga.
Quando siamo arrivati a casa abbiamo chiuso porte e finestre, abbiamo messo la televisione su Canale 5, abbiamo tirato fuori una bottiglia di Chianti e una di "vin bon de Goio", e abbiamo trascorso il resto della serata così, tra una battutaccia toscana e una risposta, più fine ma non meno tagliente, in istro-veneto, illudendoci per qualche attimo fuggente, nel nostro subconscio, che negli ultimi 56 anni da queste parti le cose siano andate esattamente come in tutte le altre regioni d'Italia.....