di Marisa Madieri
La scrittrice Marisa Madieri, nata a Fiume nel 1938 e
deceduta a Trieste nel 1996, moglie del noto storico triestino
Prof.Claudio Magris, oltre a racconti ed articoli vari, ha scritto due romanzi: "La Radura" e "Verde acqua",
pubblicati da Einaudi.
Di "Verde acqua", racconto-diario che intreccia episodi attuali
e ricordi dell'Esodo, trascriviamo due brani che testimoniano le
vicende comuni agli Esuli giuliano-dalmati.
19 marzo 1982
[...] Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu
richiesta l'opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza
jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optó per l' Italia e
conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni.
Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una
stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi
tutti in previsione dell' esodo.
Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per
aver nascosto due valige di un perseguitato politico che aveva tentato
di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome.-
Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani
nel sacco.
Questi mesi di vita sospesa, non più a casa e non ancora del tutto
altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non
con particolare sofferenza. Giocavo con mia sorella sul marciapiede
sotto la nostra nuova casa, a "porton", con la palla o con la corda,
fraternizzavo con i gatti del rione che conoscevo uno ad uno, andavo
a trovare il nonno al caffè Sport e i miei vecchi amici nella casa vera
e, per la prima volta, mi spingevo da sola lontano, ad esplorare una
città che fino allora avevo poco conosciuta.
Ero più grande, più riflessiva e matura. E così che ricordo la mia
Fiume - le sue rive ampie, il Santuario di Tersatto in collina, il teatro
Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida - una città di familiarità e
distacco, che dovevo perdere appena conosciuta.
Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza,
hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento
delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un pó putridi del mare
e quei grigi edifici.
Per molti anni, dopo l'esodo, non ho più rivisto la mia città e l' ho quasi
dimenticata, ma quando ho avuto nuovamente l' occasione di passare
per Fiume e quel tratto di costa che porta a Brestova, dove generalmente
prendiamo il traghetto per Cherso e Lussino, ho provato la chiara
sensazione di ritornare nella mia verità.
Eppure non ricordavo nulla, almeno consapevolmente, di Icici, Mucici,
Laurana, Moschiena, e poco di Abbazia e di Fiume stessa.
In realtá era me stessa che trovavo, guardando come in uno specchio,
quel paesaggio mutevole di asprezze e di incanti. [...]
E qui, Marisa Madieri descrive il Silos di Trieste, simile ai tanti
campi profughi sparsi in tutta l'Italia dove fummo accolti .....
29 aprile 1983
[...] Feci cosí la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano
accampati migliaia di profughi istriani, dalmati o fiumani come noi.
Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto l' impero
absburgico come deposito di granaglie, con un ampia facciata
ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano una specie
di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a frotte e le donne
stendevano i panni. L' esterno di questo edificio è ancor oggi visibile
vicino alla stazione ferroviaria.
Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente
immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai
posti sul tetto, che però non potevano essere aperti.
In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti
piccoli scomparti detti "box", che si susseguivano senza intervalli come
celle di un alveare. Si aprivano tra di essi strade maestre e stradine
secondarie di collegamento.
I box erano tutti numerati e qualcuno aveva anche un nome, proprio
come una villa. Anche le strade avevano nomi di riconoscimento: la
strada della dalmata, quella dei polesani, la via della cappella o quella
dei lavandini. Naturalmente i box più ambiti erano quelli vicino a una
delle rare finestre che si aprivano sull' esterno o quelli del terzo piano,
che almeno ricevevano dal tetto la luce del giorno.
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco,
in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura
e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico,indescrivibile,
un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di
ospedale.
Di giorno, dall' intensa luce esterna non era facile abituarsi subito alla
debole luce artificiale dell' interno. Solo dopo un poco si riuscivano a
distinguere i contorni dei singoli box e ci si rendeva conto della disposizione
complessa e articolata del tenebroso villaggio stratificato e dell' andirivieni
incessante di persone che si muovevano nelle sue strade e nei suoi
crocevia.
Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme, dal quale
si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi
di tosse o il pianto di un bambino.
Trovai la mamma intristita e trascurata e mia sorella cresciuta e un pò
inselvatichita. Lucina si era abituata alla vita del Silos e aveva fatto tante
amicizie con cui giocava felice tutto il giorno, nella spensierata adattabilità
dell ' infanzia.
Il nostro box era tra quelli fortunati del terzo piano, proprio sotto un lucernaio.
Era formato da due piccoli ambienti, di cui uno serviva da cucina, quasi tutto
occupato dal tavolo e dalle sedie, e l' altro da stanza da letto comune.
Nella cucina era stato ricavato uno sgabuzzino che fungeva da deposito di
scope, rifiuti, bottiglie vuote, scarpe, giornali e riviste vecchie.
C'erano anche parecchi secchi e catini che, nelle giornate di pioggia, venivano
disposti in vari punti del box per raccogliere l' acqua che filtrava in piccoli rivoli
dal tetto.
La nonna Quarantotto stava un pó con la zia Nina e più spesso con noi, poiché
la mamma le era maggiormente sottomessa. A pranzo e a cena, tutta la famiglia
si metteva in cammino per raggiungere da Piazza Libertà la mensa di via Gambini
e spesso, quando la nonna non se la sentiva di fare quel lungo tragitto a piedi, la
mamma le portava il pasto a casa, in una gamella.