Sella di Dol

di

Neumann Antonio




Le nostre vicende ebbero inizio nel marzo del 1944 allorché comparvero, nella nostra città (Fiume), gli affissi con il richiamo alle armi, nel Litorale Adriatico, delle classi 1923, 1924 e 1925. Nella cerchia dei nostri amici e tra gran parte dei compagni di scuola all’Istituto Tecnico Nautico “C. Colombo” si addivenne alla soluzione di arruolarci nella “X MAS”, non trovando prospettive né nell’arruolamento nelle forze di lavoro della TODT né all’unirsi ai partigiani slavi. La coscienza della nostra italianità non lo avrebbe consentito. Altri coetanei scelsero l’adesione ad unità militari della R.S.I. diverse.

Sennonché le autorità militari tedesche, resosi conto della scarsa disponibilità di lavoratori per la TODT (vi era anche il rischio di finire in Germania), posero il loro veto agli arruolamenti nei reparti della R.S.I. imponendo il servizio di lavoro coatto nei cantieri gestiti dalla TODT per la costruzione di opere fortificate intorno a Fiume.

L’intervento coercitivo tedesco non fu gradito dalle autorità militari italiane coesistenti nel territorio del Litorale le quali, dopo qualche tempo, riuscirono ad imporsi pur subendo parzialmente le direttive germaniche che pretesero essere loro a distribuire i giovani nelle varie unità militari italiane ubicate nel Litorale stesso.

Fu così che, in una mattinata dei primi giorni di maggio, il nostro gruppo di fiumani si trovò a viaggiare in un carro bestiame alla volta di Gorizia, accompagnati da due sottufficiali dell’unità alla quale eravamo stati destinati. Il XIV Battaglione Italiano Costiero da Fortezza. Non rammento il numero esatto ma penso fossimo una trentina, per nulla immalinconiti per il distacco dai nostri famigliari. Direi quasi euforici e, durante il tragitto, i canti nostrani si sprecarono. Eravamo finalmente sfuggiti alle incertezze del nostro futuro. A Gorizia, ad attenderci, una carretta militare con il mulo sulla quale posammo i nostri pochi bagagli e poi via, per la prima marcia attraverso la città, sempre cantando, fino a Salcano, sede del Comando del Battaglione.

Fummo alloggiati in una scuola, ci si presentò il comandante del Battaglione, il Maggiore degli Alpini Soravito, piemontese e il Comandante della 2° Compagnia, Tenente Pedrazzini di Milano. Nei giorni seguenti vi fu la vestizione dei panni da soldato tra molta ilarità (non sempre le misure quadravano) e poi il trasferimento alla Caserma di Sant’Andrea, non distante dalla stazione ferroviaria principale di Gorizia, nella quale trascorremmo il periodo di addestramento. I sottufficiali della compagnia erano in parte ex militari di fanteria dell’Esercito Italiano, ex militi confinari sardi rimasti bloccati nel continente, tedeschi della Wermacht con funzione di osservatori.

Al mattino, in un grande spiazzo accanto alla caserma, le esercitazioni marziali; al pomeriggio, lungo al greto del vicino Isonzo, i tiri, le tattiche da combattimento. Quindi il dormitorio con due cameroni comunicanti, letti a castello in legno brullicanti di cimici, divisi con il gruppo di triestini. Sopra di noi, al primo piano dell’edificio i veterani o i superstiti del Battaglione.

Uno di essi, non rammento se la terza o quarta notte, ci giocò lo scherzo di lasciar cadere dall’alto, all’esterno dei muri perimetrali una bomba a mano che scoppiò con gran fragore facendo saltare qualche vetro di finestra.

Poi i soliti scherzi da cappelloni, le gavettate nel cuore della notte tra una camerata e l’altra, il pezzo di carta acceso tra le dita dei piedi di un dormiente, i furterelli di posate e così via. Fino al giorno del giuramento alla Repubblica Sociale Italiana, fino alla partenza per le zone d’impiego. Ho vivo il ricordo di quella mattinata estiva, le mamme dei ragazzi di Trieste erano giunte in gran numero per assistere alla nostra partenza. Noi s’era carichi come muli con tutto il nostro equipaggiamento ed i nostri moschetti 91 a tracolla, i sacchi gonfi pesavano sulle nostre spalle e fu una cosa commovente vedere le mamme cercare di sollevare gli zaini per alleviare la fatica dei figlioli mentre questi, quasi vergognandosi, le allontanavano con una “Mamma, ma cosa ti fa, va via”, guardandosi in giro imbarazzati. Tra quelle mamme ve n’erano numerose che non videro tornare quei figli alle loro case.

La mia prima destinazione fu Cormons dove fu stabilita una postazione protetta alla stazione ferroviaria. Occupavamo due locali, uno adibito a cucina e mensa, l’altro a dormitorio con brandine ripiegabili. Turni di guardia notturni sotto alla pensilina con qualche occhiata in giro. Poi, di primo mattino il pattugliamento lungo la linea ferroviaria fino a Ponte Iudrio (Linea di confine tra Italia e Austria-Ungheria prima della 1a guerra Mondiale) dove era collocata l’altra postazione in quel settore. Al rientro ci si poneva a cavalcioni di un passaggio a livello per commentare al alta voce il passaggio di gruppi di ragazze che si recavano al lavoro in una vicina filanda. Cibo abbondante (s’era nel Friuli) cucinatoci da una cuoca vera, escursioni sulle colline del Collio per procurarci il vino con ritorno allegro dopo i numerosi assaggi sparecchiando in aria aggrappati ai bordi della carretta militare trainata da uno spaventato mulo. La guerra? Qualche fugace attacco aereo a locomotive in manovra, turni guardia raddoppiati se nello scalo merci sostava qualche vagone con esplosivi, occhiate curiose al treno armato tedesco che aveva la sua base a Cormons e vi faceva saltuarie soste per riparazioni o completamento delle riserve delle munizioni. Sguardi perplessi quando si soffermava, per breve tempo, un qualche convoglio con i vagoni piombati e facce contorte che ci lanciavano insulti attraverso piccole grate.

Poi un pomeriggio giunse la guerra vera e propria con un attacco aereo alla base del treno armato. Io a tutta prima mi cacciai sotto alla branda sulla quale fino a quel momento avevo assaporito la siesta. Poi mi avventurai fuori, buche, tralicci e cavi della ferrovia sconvolti, binari piegati a riccio, più lontano un vagone che bruciava. Non distante un gruppo di soldati tedeschi dal quale provenivano gemiti intervallate ad urla di dolore. Seduto per terra, tra i rottami del vagone officina, un tedesco con il ventre spalancato dal quale fuoriuscivano gli intestini che lui cercava di ricacciare dentro al gran buco sul ventre. Non ressi alla scena e mi allontanai, Dove darsi da fare? C’era quell’ altro vagone che bruciava, nessuno sembrava farci caso. Così mi diressi verso la stazione ferroviaria, srotolai la lunga manichetta d’incendio e la portai vicino alle fiamme per tornare quindi alla stazione per aprire la valvola del’acqua. Rifeci nuovamente il percorso badando alle rotatie divelte e ai cavi tranciati, e mi posi a dirigere il getto d’acqua sulle fiamme. Spegnendole gradualmente. Il ferito aveva smesso di lamentarsi e dalle sue labbra uscivano solo le parole “Mutter…… oh mutter…….”. per tutto il resto c’era uno strano silenzio, tutti s’erano allontanati dalla scena e li vedevo che seguivano a distanza quanto stavo facendo. Spensi le ultime fiamme, attesi che si dileguasse anche il fumo e quindi feci ritorno alla stazione trascinandomi dietro la manichetta che poi, doverosamente, arrotolai nuovamente dentro al suo alloggio. In quel momento vidi accorrere verso di me l’anziano capitano italiano che ci comandava assai blandamente e il tenente tedesco in carica al treno armato. Mi circondarono dandomi delle robuste manate sulle spalle e gridandomi “Goot, ser goot l’uno, e bravo, molto bravo”l’altro. “Bravo perché?” chiesi tutto frastornato. “Perché quel vagone era pieno di munizioni”. L’avessi saputo subito correrei via dal vagone, ancora adesso. A quel punto, ma solo a quel punto mi si piegarono le ginocchia.. Comunque ne ricavai una rarissima licenza premio per dieci giorni.

Si giunse alla fine di settembre o i primi d’ ottobre quando la guerra s’incrudelì su di noi, duramente e direttamente. Era ancora notte quel mattino quando, come di consueto, c’inoltrammo lungo le rotaie per il pattugliamento fino a Ponte Iudrio Eravamo a mezza strada, allorché sulla nostra direttiva scorgemmo un lampo d’un azzurro intenso e poco dopo ci pervenne il fragore d’un esplosione, Il sergente, l’allievo ufficiale Loi ci fece affrettare il passo ma ancor prima di raggiungere il ponte un soldato ci corse incontro per comunicarci in tono concitato, che era avvenuta una disgrazia, che il fiumano Mario Faldich era morto e che due altri membri della pattuglia che percorreva la tratta tra Ponte Iudrio e San Giovanni al Natisone erano gravemente feriti. Sembrava che avessero trovato una mina sotto una traversina della ferrovia, l’avessero estratta e il capo pattuglia l’avesse consegnata al Faldich per portarla a fine pattugliamento al caposaldo per esaminarla considerandola ormai innocua dato che la miccia era stata trovata spenta. Essa invece era esplosa tra le mani del Faldich dopo pochi passi investendo il Cudicini che gli camminava davanti e il Cuccagna che lo seguiva. Bisognava portare sul posto due teli da campo per porvi i resti del Faldich. Ci pensammo noi, e poco dopo trovammo quanto rimaneva del povero Faldich, Non è descrivibile. Ci fu chi raccolse gli avanzi del suo torso squarciato e li depose su uno dei teli, cercammo nella prima luce del cammino altri resti ((per qualche giorno i contadini della zona continuarono a portarci brandelli ritrovati tra le culture circostanti), ricoprimmo quanto s’era rinvenuto con l’altro telo da tenda e lo portammo alla ridotta dove attendeva un’ambulanza militare.

Nel pomeriggio vi fù un altro elemento di tragicità. Il padre del Faldich lavorava a Vittorio Veneto in un capannone dove parte del Siluruficio di Fiume s’era spostato per sfuggire ai bombardamenti nemici ed ogni sabato pomeriggio raggiungeva il mulino che sorgeva accanto al ponte ,in bicicletta. Arrivando sullo spiazzo del mulino non trovò nessuno. Mentre si guardava intorno usci di casa una delle figlie del mugnaio che, al vederlo scoppiò a piangere rientrando di corsa dentro. Si diresse verso di lui uno dei sergenti allievi ufficiali che iniziò a parlargli, poi comparvero il mugnaio e la moglie che lo condussero dentro casa insieme a loro. Poi mi dissero che era stato difficile convincerlo a non andare a Gorizia per vedere ancora una volta il figlio. Si acquietò e resto con noi chiacchierando pacatamente del figlio, cenò a casa del mugnaio, rimase con noi anche il mattino seguente per poi reinforcare la bicicletta e tornare a Vittorio Veneto. Per tutti noi fu un colpo durissimo ed in realtà la nostra guerra cominciò soltanto allora.

Passarono altri giorni e quindi fummo destinati al caposaldo di Canale d’Isonzo, in Slovenia, per completare lo schieramento del Battaglione lungo le rive dell’Isonzo, a sorveglianza della linea ferroviaria Gorizia-Klagenfuth, dei suoi ponti e della diga idroelettrica di Canale. Oltre ad impedire passaggi di partigiani slavi in Italia. La trasferta avvenne in una triste giornata autunnale su un lento treno che aveva davanti alla locomotiva due vagoni vuoti per evitare eventuali attentati. Ai lati si susseguivano montagne cupe con le cime nascoste da basse nubi. A Canale la vallata si allargava un po’ e diventava meno oppressiva. Numerose le nostre postazioni in paese, accanto ad un lungo ponte ferroviario ancora intatto e sulla diga più a monte del fiume. Dapprima fui assegnato alla stazione ferroviaria il cui presidio aveva il compito di sorvegliare il tronco ferroviario tra Canale e Salona d’Isonzo oltre a controllare tutti i declivi intorno al paese con una mitragliera di 20 mm. a proiettili traccianti e un pauroso tom-tom-tom …..; poi il plotone comando ubicato in una viletta un po’ distante dalle case del paese ed una casa all’inizio del paese che fungeva da caserma per il resto del personale del caposaldo. Infine, di traferimento in trasferimento raggiunsi la postazione collocata accanto alla diga, la dove la valle si restringeva nuovamente.

E fu in un pesante attacco aereo al ponte e alla diga di Canale che venni ferito in due riprese. In modo apparentemente lieve il 26 dicembre e poi più seriamente il 27 dicembre 1944.

La 2° Compagnia subì altre perdite in queste due giornata, il 27 cadde proprio accanto a me il nostro cuoco, Ciol, un ragazzone di San Daniele del Friuli, diversi ragazzi furono feriti perché, rifugiatosi nei cunicoli dentro alla diga furono sballottati sulle pareti dai colpi d’aria delle esplosioni. Una tragedia più importante si verifico il giorno 27 quando l’inizio del terzo bombardamento centrò, in mezzo al ponte, un treno pieno di soldati tedeschie che andavano in licenza a casa per le feste natalizie. Mentre due alpini della “Tagliamento” mi trasportavano in barella attraverso il ponte ancora mancato, verso Canale dove ci attendeva un’autoambulanza dell’esercito italiano, scorsi sotto di me i bianchi sassi sul greto dell’Isonzo rossi di sangue tra i vagoni sventrati. A prendersi cura dei tedeschi feriti era nel frattempo sopraggiunto un treno ospedale della Wermacht fermatosi all’inizio del ponte. Quel giorno si contarono 80 morti e duecento e più i feriti., a quanto di disse in seguito. Sono tante le sciagure che avvengono in tempo di guerra e che rimangono ignorate nel generale calderone.

Nell’autoambulanza con me c’era un altro soldato della 2° di cui non rammento il nome che non presentava ferite, tremava tutto si che dovetti ricoprirlo con il mio giubbotto (fu dimesso dall’ospedale il giorno seguente poiché era solamente in stato di shock). Come fui ferito?. Fu un insieme di coincidenze: Due giorni prima del Natale due plotoni della 2° compagnia erano saliti sull’altopiano della Bainsizza per acquistare, ripeto ed insisto, acquistare un vitello per il pranzo di Natale di tutti i ragazzi del caposaldo di Canale. Io ero in testa ad un esigua pattuglia di esploratori (tre) per evitare imboscate. Giunti in vista del nostro obiettivo, un gruppo di case in mezzo al verde con la chiesetta le cui campane suonavano a distesa (l’allarme ai partigiani per il nostro arrivo), le indicai al nostro comandante di compagnia, il tenente Pedrazzini), che mi ordinò di dispormi, con gli altri due esploratori, sul cucuzzolo d’una piccola elevazione vicina al villaggio per coprire il grosso mentre entrava tra le case e lasciandomi un fucile mitragliatore. Era una gran bella giornata di sole, non s’udiva alcun rumore, veniva voglia di sdraiarsi su quella erbetta fresca quando proprio da quella erbetta sorsero, ad una cinquantina di metri, alcuni uomini gesticolanti brandendo qualcosa che a quella distanza non potevo percepire. Li avevo sul mirino della mitragliatrice mentre inciampavano salendo tra l’erba. I due ragazzi che erano con me gridarono in coro, “spara, spara”. Non lo feci, sparai ma non su di loro, una sventagliata di colpi sopra le loro teste e sparirono d’incanto tra le erbe da cui erano sorti. Nell’addestramento nessuno m’aveva insegnato a sparare su esseri viventi. Fu invece dura spingere verso il piano il recalcitrante vitello. Il Natale fu quasi festoso. Malgrado le circolari e gli ordini, a mezzanotte tutti i presidi aprirono il fuoco e le traccianti verdi s’inoltrarono in successione lungo la vallata. Probabilmente un fuoco così intenso non s’era udito, sull’Isonzo, nemmeno durante la 1° Guerra Mondiale.

Qui mi dilungo ma debbo ancora parlare del mio ferimento. Il 26 dicembre vi fu il primo attacco aereo. Ero di guardia accanto alla casetta dei tecnici della diga che ospitava anche noi. Molte volte eravamo sorvolati da stormi di aerei e non ci si faceva più caso. Quel giorno erano particolarmente bassi di quota, guardai meglio e vidi , per un breve attimo, i neri portelloni aperti sul loro ventri e subito udii una specie di rombo e il luccichio contro il cielo azzurro intenso delle bombe che rotolavano in aria verso di noi. Diedi l’allarme a quanti si trovavano dentro al piccolo edificio e a coloro che li vicino tagliavano la legna per la cucina. D’istinto mi venne di gettarmi a terra conto il costone della montagna e poi iniziò la lacerante sequenza delle esplosioni. Mi sembrò come se decine di persone mi stessero picchiando contemporaneamente, un colpo più forte lo sentii nella schiena, penso di aver urlato per il dolore. Poi su tutto scese uno strano silenzio, l’unico rumore quello dei sassi che rotolavano ancora giù dal costone. Io da quei sassi ero completamente coperto. Forse avrò perso anche i sensi, poiché, un mio commilitone mi disse che nel prestare aiuto ai feriti, non si curarono di me perché sembravo morto. Ad un certo punto mi scrollai di dosso i sassi e mi sollevai malgrado il forte dolore alla schiena. Mi guardai intorno e tutto era come prima, i monti verdi, il cielo azzurro, la casetta dei tecnici, la diga, il ponte con tutte le sue arcate. Fu rivolgendo gli occhi verso Canale che mi accorsi che la torretta posta all’inizio del ponte non c’era più, che le case dei contadini accanto al canale della diga erano tutte sbriciolate. E che dalle entrate di accesso ai cunicoli della diga venivano trasportati fuori delle figure immobili. Nel pomeriggio vi fu un alternarsi di autoambulanza sulla statale e tutti i feriti vennero trasportati a Gorizia.

Io no. Dissi della mia schiena dolorante al Tenente Pedrazzini che sovrintendeva al trasferimento dei feriti che mi disse bonariamente: Qui siete rimasti in pochi, tu almeno stai in piedi, cammini, ti manderò giù non appena arriveranno i rincalzi. E così, al mattino seguente, mi ricapitò lo stesso turno di guardia del giorno precedente, dalle 08 alle 12. Si era tuttavia rimasti d’accordo con la postazione collocata in prossimità dell’altra sponda dell’Isonzo, sempre a protezione della diga e del ponte e in posizione aperta ed elevata, di sparare un colpo del moschetto in aria all’avvistamento degli aerei se fossero ricomparsi. Tutti gli altri ragazzi s’erano comunque allontanati dalle posizioni a protezione di ponte e diga andando in giro per i boschi a fare legna per la cucina ed il riscaldamento. Alla casetta c’ero rimasto io, il cuoco friulano, un tedesco di collegamento con noi e i due tecnici della diga idroelettrica. Quello di guardia a monte deve essersi addormentato o allontanato dal suo posto perché quando risuonò lo sparo, aerei e bombe erano già su di noi. Qualche ora prima avevo considerato bene la situazione. Accanto alla casetta passava la strada statale con un ampia canaletta di scolo sul lato a valle dove avrei potuto benissimo infilarmi per evitare schegge delle bombe e pietre dal costone. Allo sparo vide uscire di corsa il cuoco ed insieme ci ponemmo a fuggire lungo la statale, fuggire? Non facemmo che un due o tre falcate che udimmo le bombe su di noi, vidi distintamente il cuoco infilarsi nella canaletta mentre io venivo scaraventato nuovamente contro il costone della montagna, il tempo di pensare “Guarda che stupido, ci sono cascato un’ altra volta” che mi sentii sollevare, poi sbattere, poi un colpo al capo, un fortissimo colpo al piede, poi colpi dappertutto si da protestare al trattamento. E’ vero, protestai perché in tutti quegli attimi non persi mai la percezione di ciò che mi accadeva. Tornò, di colpo, l’ormai nota quiete, ero nuovamente ricoperto di sassi. Me li scrollai di dosso ma avevo paura di aprire gli occhi. Esitati a portarmi le mani sulla testa, avevo timore di non sentire nulla con tutte le botte che s’era presa. C’era invece e sembrava intatta. Provai a sollevarmi il torso sulle mani ed anche quello rispose, Diedi un’occhiata intorno, giacevo sull’orlo dell’ ampio cratere di bomba. Dovevo controllare le gambe, la destra rispose bene, la sinistra no, c’era qualcosa che non andava, che cedeva provocandomi un forte dolore. Mi sentii sollevare sulle spalle, erano i due tecnici della diga che cercavano di risollevarmi. Guardai alla mia destra, il cratere si allargava ben oltre alla canaletta dove s’era gettato Ciol. E dove avevo pensato di rifugiarmi anch’io.

Nell’autoambulanza che mi portava all’ospedale, mentre mi curavano ferite e tagli al cuoio capelluto, gli infermieri mi chiesero in quale ospedale desideravo essere portato. Era una domanda strana in una situazione del genere ma ebbi il buon senso di chiedere, in quello dove si mangia meglio. E così quelli mi portarono all’Ospedale Militare Centrale tedesco (possedevo sia il libretto dell’Esercito Italiano che quello della Wermacht). Per le ferite alla testa rimasi per tre giorni in stato semi comatoso e sotto continua sorveglianza (Dio com’erano carine le infermiere italiane), al piede, sui metatarsi in frantumi, mi fissarono la gamba di gesso. Il seguito è presto detto. Tra licenze di convalescenza, un viaggio di controllo ad Udine (idoneo incondizionatamente a tutti i servizi di guerra), altre licenze premio e controlli a Fiume, arrivai al termine delle ostilità mentre mi trovavo tranquillamente a casa.

Dove mi si presentò subito un problema. Dove erano finiti gli altri ragazzi fiumani della 2° Compagnia del XIV Battaglione Italiano Costiero da Fortezza. Alcuni rientrarono alla chetichella (c’era Tito ormai a Fiume ed era meglio tenersi defilati). A Trieste fece ritorno un gruppo di ragazzi triestini che da Canale d’Isonzo s’ erano diretti verso Ponte Iudrio dove trovarono ospitalità ed abiti borghesi presso il mugnaio. Ma erano quattro o cinque. Per giorni e settimane mi venne richiesto dalle madri, dalle sorelle o fratelli, dai padri, cos’era accaduto ai loro figli. Qualcuno giunse perfino da Trieste. Ero in preda ad un senso di impotenza per non poter rispondere in alcun modo alle loro sempre più disperate ed insolute domande. Consigliai loro di recarsi a Gorizia, partirono in un piccolo gruppo ma del XIV Battaglione Italiano Costiero da Fortezza non c’era più traccia alcuna, la sede del Comando nella vicina Salcano devastata, nessuna possibilità di reperire il benché minimo documento o un qualche superstite o testimone.

Scomparsi. Il loro eccidio fu rivelato circa un anno dopo, quando gli Alleati liberarono definitivamente la città dalle bande partigiane. Un gruppo di soldati neozelandesi posero il proprio presidio in prossimità del San Gabriele, il monte che sovrasta l’accesso da nord a Gorizia, insieme al Monte Santo, In mezzo ai due rilievi v’era la Sella di Dol. Durante la guerra tutti questi punti di rilievo militare vennero presidiati da elementi del “XIV°. Quello di Sella di Dol era circondato da una cerchia di trincee forse risalenti ancora alla 1° Guerra Mondiale. Nel mezzo delle trincee si trovava una specie di “casamatta” protetta come alloggio del personale. Ebbene, ogni volta che i neozelandesi passavano nei pressi della Sella percepivano un odore di carne in putrefazione che alla lunga suscitò la loro curiosità. Postisi a scavare il terreno dove il sentore era più forte, scoprirono le trincee frettolosamente ricoperte da un sottile strato di terra, nelle trincee giacevano accattastati i corpi di una ventina di persone e tutte presentavano sulla nuca il foro d’un proiettili mentre i polsi delle braccia erano legati con del filo di ferro arrugginito. Intervenne subito la Polizia Civile per l’identificazione dei cadaveri e, il giorno successivo, su “La Voce Alleata” l’unico quotidiano che da Trieste fosse venduto nelle edicole di Fiume, fù data notizia del rinvenimento degli uccisi con le foto dei frammenti di documenti e degli oggetti ritrovati loro addosso. Mi recai immediatamente a Trieste e, tra i pochi reperti riconobbi immediatamente oggetti dei ragazzi, proprio di quelli che erano stati con me al caposaldo di Canale d’Isonzo. Nei giorni seguenti vi fù il triste pellegrinaggio nella sede della Polizia Civile, di quanti avevano atteso invano il ritorno dei propri cari, dalla guerra. E si giunse così, da riconoscimento a riconoscimento, all’elenco completo dei Caduti.

E dopo qualche tempo rientrò a Fiume, dai campi di prigionia sloveni, il soldato Luciano Devescovi che colmò dei vuoti nella vicenda. Al termine delle operazioni di guerra, il gruppo di Canale di Isonzo si divise in due parti: quello di cui si è fatto già cenno che si diresse verso ovest, verso cioè gli Alleati rifocillandosi e assumendo abiti civili nella casa del mugnaio a Ponte Iudrio (il figlio del mugnaio si era arruolato anche lui nella nostra unità qualche tempo prima) e l’altro gruppo, disarmato, che preferì dirigersi direttamente verso Gorizia per affrettare il rientro a casa. Dall’inchiesta che fu poi aperta dagli Alleati sull’intera vicenda indagando nella zona e da quanto ebbe a riferire il Devescovi, il gruppo si fermò per riposarsi dalla marcia nei pressi di Plava. La il Devescovi si addormentò dietro ad un cespuglio mentre gli altri ripresero il cammino senza accorgersi della sua assenza. Destatosi e trovandosi solo, il Devescovi proseguì verso Gorizia dove venne fermato dagli sloveni ed inviato nel campo di concentramento del quale non volle mai rivelarne le esperienze. Le Autorità Alleate ne dedussero che il rimanente del gruppo fosse stato intercettato tra Plava e Gorizia da una banda di partigiani locali, portato a Sella di Dol davanti alle trincee, con le mani legate dietro alla schiena con il fil di ferro, e i suoi componenti uccisi uno per uno con un colpo di pistola al capo.

Tutto ciò avvenne il 3 maggio 1945, a tre giorni dalla fine delle operazioni di guerra in quella zona. Fu perciò possibile riferirsi all’evento come ad un vero e proprio eccidio.

I NOMI DEI CADUTI:

COSULICH da Pecine Teofilo - Gradisca (1926)
CORRENTE Giordano – Trieste – (1926)
CANTO Giacomo – Trieste (1924)
LUCANI Marino – Trieste (1923)
RICABON Aureliano – Trieste (1923)
RIGO Angelo – Udine ( 1926)
ZENAROLO Giuseppe – Udine (1926)
MICHELONI Silvano – Bolzano (1926)
ZANUTTINI Luigi – Medeuzza) (1926)
BORSELLO Manlio – Padova (1924)
MARSANICH Aurelio – Fiume (1924)
GALLOVICH Valentino –Fiume) (1925)
CORAZZATO Benito – Fiume – (1923)
CORAZZATO Rodolfo – Fiume (1924)
JANUALE Raffaele – Fiume (1925)
SCROBOGNA Augero – Fiume (1923)
SUPERINA Silvio – Fiume (1923)
SCHMIED Nevio – Fiume (1924)
ZULICH Mario – Fiume (1925)
NEGRO Andrea - Fiume (1923)

FINE