Contrabbandiere!

di

Neumann Antonio




Accadde a Valsantamarina. Non ricordo nè l’anno nè la mia età. La casa affittata dai miei genitori per il nostro periodo di vacanze, sorgeva accanto ad un grazioso villino dal piacevole contrasto tra l’azzurrino della tinta delle pareti esterne ed il candido bianco dei rilievi ornamentali contornanti le finestre. Entrambe le costruzioni s’affacciavano al mare, al bel mare del Quarnero, a limitare l’orizzonte la lunga striscia verde dell’isola di Cherso.. Al primo piano v’era l’abitazione dell’unico impiegato tuttofare che di cognome faceva Liverani. Un regnicolo. Aveva quattro figli, Nisi il più vecchio, Dino mio coetaneo, Mariuccia forse un anno meno di me e carina assai, infine Lena, piccolina. Con loro un nonno. Gran brava gente. Il nonno, ad un certo punto, si sistemò nella falegnameria del paese e prese a costruire una battana in legno bella robusta che in seguito venne varata tra grandi feste e che per qualche anno allietò le nostre escursioni in barca.

A piano terra v’era la casermetta della Guardia di Finanza con in quattro finanzieri che ne costituivano la guarnigione ed erano impegnati nella linea che delimitava la fine della cosiddetta Zona Franca istituita negli anni 20 dal Regio Governo Italiano per ridare un po’ di respiro alle attività commerciali ed industriali a Fiume rimasta collegata all’Istria e all’Italia da una stretta striscia di terra racchiudente la ferrovia e l’autostrada tra Fiume e Trieste. Entro alla Zona Franca era consentita la vendita di alcuni beni, tra cui il caffè e lo zucchero a prezzi privi di tassazioni. Ovviamente si era subito stabilità un attività contrabbandiera tra questa zone e la adiacente Istria.

Casa nostra e villino distavano, da un lato, non più di 50 centimetri l’una dall’altro. Proprio a questo lato era, da noi, ubicata la vasta cucina, tra questa e il muro di contenimento era ricavata la “konoba” che in italiano sarebbe come “ripostiglio”. Una finestrella con grata ferrata consentiva il ricambio d’aria tra la konoba e l’esterno. Si dava il caso che quella finestrella corrispondesse, sull’adiacente muro del villino, ad una vera e propria finestra. La qual cosa consentiva frequenti scambi di parole e proposte prontamente respinte tra la nostra giovane fantesca, la prosperosa padrona di casa nostra e le giovani guardie di finanza. D’estate, è vero, che non mancavano le villeggianti ungheresi, austriache, cecoslovacche e, a quei tempi, anche inglesi, e la postazione preferita dalle guardie era quella sopra la spiaggetta di Segnavatz, preferita dai nudisti perché difficilmente raggiungibile via terra e che offriva una certa visibilità ai ragazzi in grigioverde dalla fitta vegetazione sovrastante.

Ad un certo punto tra “konoba” e casermetta deve essere stata raggiunta un intesa perché, a partire da un certo anno, a me, a Rade figlio della padrona di casa, a Dino e a Mariuccia, vennero imposte certe sacche con bretelle da allacciare sulla schiena ripiene di chicchi di caffè con le quali salire sulla stradale da Fiume a Pola, là dove si fermava l’autocorriera, si doveva attendere che uno dei finanzieri salisse su di essa, desse uno sguardo in giro ai passeggeri e ai loro averi e poi ci concedesse il permesso di salire, capitava che qualche volte facesse il segno di no alla Maritza, così si chiamava la padrona di casa, e noi si dovesse tornare indietro. Accadeva quando la guardia di finanza aveva rilevato una qualche irregolarità sul mezzo. Altrimenti si saliva sull’autocorriera entro alla quale si diffondeva immediatamente un inconfondibile odore di caffè tostato e si saliva fino a Moschiena con la Maritza che conversava allegramente con la guardia di finanza con le narici evidentemente tappate su quel forte sentore. A Moschiena si scendeva tutti insieme e noi ci si dirigeva al Duomo dove la mamma della Martitza fungeva da perpetua. Ed è li che ci si alleggeriva dal carico. Dopo una breve sosta inforcavamo, in rapida discesa, la scalinata che unisce Moschiena alla spiaggia di San Giovanni e da qui, sul lungomare, in una quindicina di minuti, alla gelateria di Pino per la sudata retribuzione in fragranti gelati da 30 centesimi l’uno.

Contrabbandieri in pantaloncini corti. Ovviamente non tutti i giorni ma due volte alla settimana si. Negli anni a seguire Rade ed io avemmo ad eseguire la bisogna da soli e a piedi, appena inforcati i primi scalini per Moschiena la guardia di finanza li appostata ci salutava benevolmente e noi si proseguiva faticosamente con i pesanti sacchi sulle spalle, contando scalino per scalino. Ci saranno ancora oggi? Ci sarà ancora quello stupendo paesaggio dove il verde del bosco, il rosso dei mattoncini che formavano i gradini, il biancore dei sassi della spiaggia sempre più piccola ai nostri piedi e l’azzurro intenso del mare si fondevano nei nostri occhi? E che ne sarà di Nisi, di Mariuccia, di Lena. Di Dino lo so, me lo disse Mariuccia un pomeriggio a Genova. Dino si era arruolato volontario nella Regia Marina ed era imbarcato come marò elettricista sull’ incrociatore “Fiume”. Perì con esso nello scontro navale a Capo Matapan. Con Rade Martincich ci incontrammo a Fiume negli anni 70. Fu come se non ci fossimo mai allontanati. Rade non c’è più. Ora loro tutti rimangono con me, nella mia memoria vacillante.