"Trattarize"

di

Neumann Antonio




Le udivo chiamare così. Erano costruite in legno, simili a gozzi ingigantiti perlomeno il doppio e quindi con prua e poppa svasati. A metà coperta e a metà pozzetto. Verso prora della coperta era inserito un corto albero passante con vela latina, alloggiato su una scassa ricavata in sentina e quindi senza sartie. Due coppie di remi lunghi e pesanti su scalmi aperti come quelli delle gondole. Venivano adoperato per portare le reti sui tratti sottocosta per la pesca di posta. La lunga rete rettangolare veniva ancorata al fondale e tenuta eretta da galleggianti di sughero che la sostenevano a livello del mare e allo stesso tempo ne segnalavano la presenza. La rete era a maglie piuttosto larghe che se lasciavano passare i pesci più piccoli, trattenevano quelli più grossi che vi rimanevano incastrati con le branchie. Venivano ispezionate dai pescatori all’alba e al tramonto, in genere era nelle prime ore del mattino che la pesca si rilevava più proficua. Come imbarcazioni erano goffe e pesanti e talvolta, verso sera, accadeva che acciuffassero qualcuno di noi, ragazzaglia, per porci ai remi. La faccenda ci faceva inorgoglire anche se il lavoro ai remi non era semplice e sui palmi delle mani ci ritrovassimo bolle e poi i calli. Talvolta le “trattarize” si trasformavano in barche da diporto per qualche gruppo di appassionati, villeggianti locali o stranieri, venivano ripulite da scaglie e avanzi di pesce, dalle macchie di catrame delle reti, sottoposto ad un bel lavaggio esterno ed interno per eliminare ogni sentore di pescato.

Fu nell’estate del 1942 che a mio fratello allora diciottenne e a qualche suo amico venne l’idea di farsi una gita nel barcone, a vela e a remi ovviamente, tra le isole del Quarnero. L’equipaggio sarebbe stato composto da lui, due suoi coetanei moscenizani e due ragazze, una del luogo ed una villeggiante di Gorizia, quest’ultima sotto la tutela di mio fratello. Era prevista un’assenza di una settimana. Concordata la “trattarizza, si posero tutti all’opera, gli uomini con radazze e stracci per un accurata pulizia dell’imbarcazione e quindi un controllo dell’armamento velico costituito dal cosiddetto lungo traversino, dalla vela triangolare, dalla rizza e del paranco per il sollevamento del tutto. mentre le ragazze si davano da fare per raccogliere arnesi da cucina, pentole, fornello a carbone e quindi le cibarie in quantità inverosimili e bevande. Lavoravano tutti con entusiasmo. Avevano stilato una lunga lista del necessario e continuavano ad aggiungerci voci.

Arrivò il giorno dell’imbarco del materiale, I sacchi a pelo e le provviste accatastate sotto la coperta a prua il quale fatto creò un vistoso appruamento per cui si rese necessario riempire due sacchi di ghiaia e collocarli all’estrema poppa per migliorare l’assetto. Ma a banchina continuava ad aumentare la mole del materiale da riporre a bordo. Tutto ciò avveniva sotto lo sguardo di decine di sfaccendati anziani pescatori prodighi di consigli e villeggianti incuriositi. I naviganti contavano di partire verso mezzogiorno, allorché si levavano, di norma, le prime tenui folate del maestrale. Intorno alle undici ebbe termine la sistemazione dei carichi ma non si dissolse il gruppetto dei curiosi e di noi “mularia” invidiosi dei più “grandi”, mentre ora erano le rispettive madri a dispensare consigli di prudenza; le più loquaci, con raccomandazione di tutti i generi, marinareschi o non, erano le mamme delle due fanciulle, che si rivolgevano imploranti anche agli audaci giovanotti.

Il mare, fino a quel momento piatto con riflessi oleosi iniziò a presentare le prime increspature del vento di maestro in puntuale arrivo , aumentò il vocio, i novelli argonauti si imbarcarono insieme alle ragazze i cui sguardi si fecero un tantino smarriti ma poi i robusti uomini afferrarono i lunghi remi per scostarsi dalla banchina e dirigersi con essi all’imboccatura del porticciolo. Una volta in mare aperto, issarono la vela triangolare con il paranco ben lubrificato che non emise alcun cigolio. E posero la prua sulla punta settentrionale dell’isola di Cherso riponendo a bordo i remi ed iniziando chi a governare il timone chi a regolare la posizione della vela rispetto al vento. Le madri furono le ultime a seguire con lo sguardo lo scafo che si allontanava mentre il groppuscolo andava sciogliendosi.

Seguirono giorni di paziente attesa. Era il 1942, Non esistevano telefonini, i telefoni erano ancora oggetti privilegiati, a Valsantamarina ve ne era uno in municipio, mi sembra rammentarne uno all’albergo Armanda, poi non ne so di altri. Alla spiaggia, al mattino, le madri facevano gruppo davanti al albergo Marina, noi ragazzaglia si preferiva come al solito la vogata fino a Segnavaz, la spiaggetta isolata più a sud di quella di San Giovanni, la dove la costa scendeva rapidamente e c’era una specie di piattaforma sul roccione sovrastante di setti metri di altezza per i tuffi dei più bravi che si facevano i belli davanti alle ragazzine. In qualche giornata io e Rade ci si recava, con la nostra lancetta sotto Bersezio a pesca di moli, i “piscmoi” come li chiamavamo, bei pesci bianchi, polposi, di fondo, si rientrava al primo pomeriggio issando la piccola vela marconi con il solito maestrale. Al pomeriggio, più tardi si faceva qualche passeggiata sui contrafforti del Monte Maggiore oppure ci si recava al campetto di calcio per correre senza molto entusiasmo dietro ad un pallone di cuoio. Talvolta ci si radunava sugli scalini davanti alla casa di Fedora, con la Wilma, la Slava e Nives, mia sorellina, per chiacchierare un po’ e poi recarci al bar di Braidicich in piazzetta per una sorsata di “frambua”. Alle 17.30 tutti al molo ad assistere all’arrivo del vaporetto da Fiume che di solito portava i nuovi villeggianti.

Trascorse la settimana dalla partenza della “trattariza” con i suoi novelli argonauti ma non c’era ancora nessuna traccia di loro, le madri cominciavano ad inquietarsi. I maschiacci, partendo, avevano parlato si, di sette giorni, ma, se si fossero trovati bene, avevano accennato a dieci giornate di mare. Il tempo si era mantenuto sempre al bello stabile ed anche i vecchi pescatori cercavano di tranquillizzare le madri anche per il fatto che loro non si sarebbero recati sul Canale della Morlacca, chiamato anche il Canale del Maltempo dove la bora soffia al massimo. E fummo ad otto e poi a nove giorni. Nessuno riusciva a tenere più le mamme, specie quelle delle ragazze. Mia madre era la più tranquilla anche se sempre più spesso veniva assillata dalla villeggiante goriziana, e mia mamma aveva voglia di dirle che sua figlia era un bel tocco di ragazza, allieva professoressa di ginnastica alla Farnesina di Roma e quindi perfettamente in grado di trarsi d’impaccio. Il decimo giorno nessuno le trattenne, fin dall’alba si piazzarono sul molo dove stavano giungendo le barche dei pescatori con le cassette di legno colme di argenteo pescato. Si alzò il sole ma esse rimasero lì, Sembravano le donne dai racconti di Giovanni Verga. Noi ci si gironzolava intorno ma, ogni tanto, una scrutatina sul mare ce la davamo. Non rammento chi fu il primo o la prima a scorgere quel puntino nero che si profilava all’orizzonte sul mare alla punta meridionale di Cherso, era appena un puntolino nero che scomparì presto lungo i lembi dell’isola. Nel gruppo comparì prima un binocolo da marina e poco più tardi uno di quelli a cannocchiale lungo, tratto fuori da chissà quale riposto cassettone, ci si bisticciò per chi doveva adoperarli, sul binocolo si impose il vecchio Barbalich il quale malgrado l’età vantava la vista migliore, il cannocchiale continuò a passare di mano in mano. Ed in fine fù proprio il Barbalich a mettersi ad urlare: "sono loro, sono loro!!!! Distinguo il colore della vela, giallo e nero, sono proprio loro." . E tutti vollero vedere loro stessi e si tornò a bisticciare intorno a quei poveri oggetti strappati da una mano all’altra. Infine la tozza grossa sagoma della barca iniziò a rivelarsi anche ad occhio nudo.

E fu possibile scorgere anche l’equipaggio, annerito dal sole, maschi e femmine confusi sotto i larghi capelli di paglia indossati per ripararsi dal sole. Iniziò la gara di chi riconosceva uno e di chi riconosceva l’altra. All’altezza della boa si fermarono per ammainare la vela e dalle fiancate sbucarono i remi si che il barcone sembrò, controsole, quasi un enorme ragno. E infine penetrarono nel piccolo porto tra scambi di "Brutti morti, scempi, mugneni" che nascondevano a quei tempi, tenerezze e amori. La prima a saltare a terra fu la ragazzona goriziana che la madre abbrancò subito a se per poi, li, davanti a tutti, abbassarle di un palmo il reggiseno del costume da bagno per controllare che il seno fosse ancora bianco, quei tempi, o quei tempi! E tutti vollero sapere com’era andata e nel chiacchiericcio convulso non ci si capiva niente. Gli argonauti ritornati esseri terrestri, neri di sole, di gioia, esuberanti per l’impresa appena compiuta si pavoneggiavano per le loro madri e per le altre ragazze mescolate entro al grande gruppo che si era formato loro intorno. Si. Sembrava che i due di Draga non si fossero comportati poi troppo bene, In due porticcioli avevano lasciato a terra, seduti ad un tavolino di un bar, Mario, mio fratello, la sua ragazza isontina e quella di Moschiena per filarsela in mare con la “trattariza” e con due cecoslovacche bionde a bordo in un caso ed ungheresi nell’altro. Intanto, nella confusione, il padrone della barca v’era sceso furtivamente per controllare se non avessero rotto niente, che so, una pruata, una strisciata sul fasciame esterno. E scuoteva la testa al vedere la confusione di sacchi a pelo, barattoli vuoti, piatti non lavati nel sottoponte.