Anca mi! Ciò!!!!!

di

Neumann Antonio




Da MARINA MERCANTILE ITALIANA Libretto di Matricolazione, Compartimento Marittimo di Genova – Circondario Marittimo di Genova rilasciato a Neumann Antonio in qualità di All. Uff.Macch. di …… e di……. Nato a Fiume il 15 febbraio 1924. con il N. 92629 il 26 Giugno 1948.

Imbarcato a Genova 17/12/49 in qualità di All. Macch. Sul C. BIANCAMANO. Sbarcato a Genova il 31/12/50. D’estate viaggi Genova – Napoli – Halifax – New York e ritorno a Genova, d’inverno viaggi Genova – Napoli – Lisbona – Rio de Janeiro – Buenos Aires e ritorno a Genova. Gli allievi ufficiali sia di coperta che di macchina non è che contassero poco a bordo del “Biancamano”. In genere si era in due per categoria cosicché mentre durante un viaggio uno faceva la 1° guardia in coperta o in macchina e gli altri in segreteria, nel viaggio seguente ci si invertiva i compiti. Dopo sei mesi il mio parigrado di macchina disertò a New York per sposare una passeggera, il suo sostituto non ne fu alla pari e dopo pochi giorni il Direttore di Macchina, Poggi di La Spezia mi fece il seguente discorso: "Io non capisco come quello lo faccia, l’ho anche seguito da presso, leva un foglio di carta bello, intonso dalla risma e quando me lo porta da firmare è come se fosse stato usato da un uomo in preda ad un forte raffreddore. Non le dico poi il resto. Mi faccia il favore, Neumann, rimanga lei fisso in segreteria.". Non è che la cosa mi dispiacesse, c’era solo un compito che non mi garbava, l’accompagnare ogni mattina, intorno alle 10.00, un gruppo di passeggeri, uomini e donne, a visitare il locale macchina. Accadeva questo: la discesa nei locali avveniva attraverso due scalette di ferro collocate esattamente tra l’una e l’altra delle due turbine a vapore di 23.000 cavalli cosicché quei poveretti venivano investiti da una folata di intenso calore e da un rumore assordante. E quindi qui si effettuava una prima defezione naturale tra i visitatori. Quanti proseguivano dovevo portarli davanti ai grandi volanti di manovra, due per la marcia avanti e due per la marcia indietro. Il plancito in ferro corrugato per evitare scivolamenti, apriva proprio sul davanti dei volanti di manovra delle aperture grigliate sotto alle quali, nel piano sottostante (quello dei macchinari ausiliari) erano collocate le pompe di alimento delle caldaie in modo che gli ufficialidi guardia potessero controllarne il buon funzionamento, i fuochisti di queste conoscevano l’orario delle visite e venivano ad affollarsi proprio sotto ai grigliati mentre sopra sostavano i visitatori e soprattutto le visitatrici, l’aria forzata bella calda provenienti dal vicino locale caldaie provocava di conseguenza il sollevamento delle gonne femminili con grande spasso del personale. Il giro dei locali veri e propri delle caldaie provocava altre defezioni ma prevalentemente non femminili, estasiate queste alla vista di tanti robusti fuochisti a torso nudo lucidi di sudore, illuminati e posti in risalto ad ogni apertura dei forni e delle fiammate che da essi ne uscivano.

Ciò che mi dispiaceva era l’abitudine dei visitatori superstiti di porgermi, all’uscita dai locali macchina, di cacciarmi in mano dollari o lire che fossero a mò di mancia. La faccenda offendeva la mia dignità di ufficiale. Fintantoché non fù deciso di piazzare un capo fuochista nel corridoio al quale io passavo i quattrini con il fervorino che quelli servivano a pagare la birra a quei poveretti laggiù. Il resto alla prossima puntata. Tonci Neumann

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Il "Conte Biancamano" benché rimesso a nuovo dopo la sua esperienza bellica come trasporto truppe U.S.A. Army , era rimasto pur sempre un transatlantico vecchio stile con una prima classe di tutto riguardo, una seconda dignitosa ed una terza classe ancora su livello di camerate a castelli ed emigranti. E con caste ben distinte che si imponevano non solo sui passeggeri ma anche sul personale di bordo nel senso che c'erano gli ufficiali superiori, gli ufficiali e basta, gli allievi, i sottufficiali, il personale inferiore. Gli ufficiali superiori, il comandante in prima, il comandante in seconda, il primo commissario, il medico di bordo, il direttore di macchina e il capo macchinista desinavano e frequentavano la prima classe; gli ufficiali, dai primi ai terzi sia di coperta che di macchina e i secondi e terzi commissari, e bontà loro, gli allievi, desinavano nella sala mensa ufficiali e potevano fraternizzare in seconda classe, nel vasto spazio di coperta verso poppa. A nessuno degli ufficiali era concesso di scendere in terza classe o salire in prima. Un sistema ben rigido quindi. Per il personale inferiore era concesso quel poco d'aria che c'era nel sottopoppa tra cavi e gomene d'ormeggio.

Potete perciò immaginare il mio sconcerto quando, in un primo pomeriggio della partenza da Genova, nella tratta tra questa e Napoli mi si presentò in segreteria il terzo commissario per informarmi che una ragazza desiderava prendere il the alle 17.00 in mia compagnia nel salone della prima classe. Mi precipitai dal direttore di macchina per informarlo della cosa e ottenerne il permesso che mi fu concesso tra sorrisi d'intesa, per non sbagliare mi presentai anche al Capo Macchinista che sovrintendeva al personale. Rinfrancato, noi allievi ufficiali ci riunimmo in consesso per come affrontare nel modo migliore l'evento, mi fecero infilare tutti gli amenicoli della divisa, vi era intanto da lucidare le scarpe, le elichette sui risvolti della divisa acquistata di seconda mano da un merciaio di via Gramsci (ero ancora esule troppo recente per potermi permettere una nuova) andavano verso il verderame e stridevano con la scintillante striscia sottile dorata da allievo. Sopraggiunsero anche i due ammanuensi che giudicarono del tutto inadeguata all'occasione la mia giacchetta e tra le cinque generosamente offerte ne indossai una, quella del mio collega di macchina catanese. Uno degli amanuensi mi fornì una camicia bianca bella inamidata. In questo affannarsi non mancammo dal discutere su questa bella misteriosa dell'invito.

Infine fui pronto bello e agghindato e alquanto confuso da tutti i consigli fornitimi. Entrai, direi quasi tremante, nel salone, mi sembrò enorme, non era molto affollato, vidi una giovane figura farmicisi incontro, "Sei tu quindi Tonci! Tu non mi conosci ma delle mie amiche qui a Genova mi hanno parlato di te. Mi son fiumana e mio pare el xe un dirigente della Tirrenia e adesso stemo a Napoli. Così mi ogni tanto ciapo qualche nave per andar su e so a trovare le genovesi. Ma vien, anndemo a sentarse, mi me ciamo" (e qui, purtroppo non mi ricordo più il nome) di cognome faceva, mi sembra Benussi. Ci sedemmo quindi ad uno dei tavolini ed iniziammo un conversare fitto facendo riferimento alle comuni amicizie, era bellina e simpatica, mi fu facile soprassedere all'iniziale timidezza. Andammo avanti così per un po' ma poi ecco comparire nel salone il Capo Macchinista Arena che si diresse dritto di noi e da perfetto cafone si sedette al nostro tavolino senza essere introdotto e assumendo lui il compito di condurre i conversari. Con lei ci scambiammo uno sguardo tra il divertito e l'impaziente ma quello si fece servire a sua volta il the e proseguì nel suo interloquire per cui, ad un certo punto, ci accomiatammo da quell' essere e uscimmo a chiacchierare sulla passeggiata esterna. Finì che si fece ora di cena per entrambi per cui dovemmo accomiatarci a vicenda.

Al mattino seguente, attraccati alla Cala Marittima di Napoli, non la rividi lasciare la nave e il mio romanzetto finì in tal modo. Nelle soste a Napoli mi recavo sovente a Capodimonte dove, in una scuola riadattata a ricovero per esuli giuliani, mi incontravo con i Seberich sciatori, Bruno il padre che aveva lavorato al Silurificio, il figlio Sergio e la figlia Pinuccia e la loro mamma. Di lì a poco Bruno avrebbe assunto la gestione di un rifugio alpino a Roccaraso, nella Maiella. Rammento però sempre la loro misera condizione a Napoli, un'aula con tre famiglie divise tra loro da rozze coperte militari appese a corde stese tra le pareti. La mancanza di una qualsiasi intimità familiare e quegli poveri utensili da cucina ed un forneletto arrugginito, i materassi ammassati da un lato e un gran baule per armadio.

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Il “CONTE BIANCAMANO” anche se vecchiotto, reggeva bene il mare ma quel giorno il Golfo del Leone era veramente scatenato tanto per tenere fama alla sua nomea di peggior tratto del Mediterraneo. Erano grosse ondate vive, violente, quelle che si abbattevano sul lato sottovento e ne risentiva lo scafo con brusche rollate, specie quando le creste si abbattevano con forza, sulla murata di dritta, la più esposta al vento impetuoso da nord-ovest. Ad un tratto accadde l’iincredibile, un colpo di mare ancor più violento degli altri sfondò la grossa porta rinforzata che, a metà scafo, dava accesso al corridoio di servizio a mezza nave, il flusso di mare attraversò con tutto il suo impeto la porzione trasversale investendo il grosso portellone di sinistra dal lato interno e spalancandolo. Il mare prese quindi a scorrere da un lato al altro della sezione di corridoio sconvolgendo l’ammanuense Olivari di Camogli che osservava allibito la scena dietro al suo bancone dell’ufficio imbarco passeggeri posto proprio accanto alla prima apertura ed ora assisteva ai flussi e riflussi di mare.

Appena l’allarme giunse alla plancia, la prua fu immediatamente posta a fronteggiare i marosi e dei marinai, guidati dai nostromi riuscirono a bloccare i portelloni mentre sul posto giungevano il comandante ed il direttore di macchina, quest’ultimo impartì rapide disposizioni e dai locali inferiori giunsero gli operai, con le bombole d’ossigeno e acetilene mentre dei fuochisti facevano rotolare per il corridoio il gruppo della saldatrice elettrica. Raddrizzati con le fiamme ossiacetileniche i grossi longheroni ed i portelloni rimasti contorti, gli agugliotti avevano ben resistito per fortuna, in due ore di lavoro tutto ritornò normale e si rese possibile riprendere la rotta. Chi ci mise maggior tempo a rimettersi fu il povero Olivari che, affidato all’infermiera dell’ospedaletto di bordo, fu costretto ad ingurgitare parecchi bicchierini di cognac per essere poi da noi riaccompagnato in cabina completamente ubriaco.

Il viaggio prosegui senza che alcun passeggero si fosse reso conto dell’accaduto, transitammo per lo stretto di Gibilterra, uno spettacolo sempre notevole. E quindi ci si avventurò nella traversata atlantica verso Halifax, nel Canada. Ad un tre giorni dall’arrivo, di notte, mentre dormivo tranquillamente, mi sentii scuotere alla spalla, aprii gli occhi e distinsi, attraverso la porta della cabina aperta sul corridoio, la alte figure del comandante e del direttore di macchina: “Neumann, mi sussurrò quest’ultimo (eravamo in due allievi ufficiali in cabina) , lei che sa tutto, cos’è quel tubo che in fondo al tunnel delle assi elica scarica dentro al pozzetto dei premitreccce assi, l’ingrassatore di guardia si è accorto che vi fuoriesce un getto d’acqua che prima non aveva mai visto?” La mia risposta fu pronta: “E’ il tubo di scarico della pigna di raccolta del locale agghiaccio timone!”. Si scusarono entrambi per avermi disturbato, Me allievo? E se ne andarono richiudendo cautamente l’uscio. Bisogna tornare indietro di parecchi anni per ricordare il tragico affondamento della T/n “Orazio” , anch’esso transatlantico delle allora “Le Generali” poi divenute “S.N. Italia”, lungo le coste del Brasile, con la perdita di 320 vite umane, per la cessione delle tenute asse eliche e il conseguente allagamento dello scafo. Da quel dì si è sempre prestata la massima cura ed attenzione a quella particolare parte della nave.

Sarà passata mezz’ora che ritornarono, dovevo accompagnarli in segreteria per vedere se ci fosse un disegno del timone. A questo punto indossai la tuta e li seguii nella vicina segreteria. Scartabellando tra i disegni e gli schemi di tubazioni, gran parte paziente opera mia trascorrendo ore sotto pagliolo e dimenandomi tra tubi grossi e piccoli, seguendo questo o quello, dove trovammo un unico disegno originale del timone che non ebbe ad illuminarci molto ma che comunque portammo con noi. Sul plancito della timoneria scorreva ad intervalli quel rivolo d’acqua ma da dove provenisse non era facile dirlo. E mi dovetti infilare io che avevo il “terliss” tra la base della macchina del timone e l’agghiaccio (la barra inserita a forza sull’asse del timone comandata dai pistoni a vapore di quello) per scoprire che le due mezze ralle del largo premistoppa che impediva la penetrazione del mare nel locale, erano bell’e rotte e che tutto l’insieme oscillava, con un percettibile movimento, come cioè se tutta la mole del timone fosse libera sulla base del calcagnolo, sulla sua stessa base al diritto di poppa della chiglia. Un bello scherzo. Naturalmente comandante e direttore convennero prontamente sulla necessità anche per loro di correre in cabina per infilarsi la tuta di lavoro.

Di li a poco, nel ristretto spazio delle segreteria fu tenuto un consulto, questa volta erano stati destati anche Comandante in seconda e il Capo Macchinista. Sulla scrivania il disegno del timone ormai tutto stropicciato. Come se non fossimo sufficientemente stipati si unirono a noi i Primi Ufficiale di coperta e di macchina anziani. Fu convenuto che il calcagnolo doveva essere partito probabilmente già intaccato dalla botta di mare sul Golfo del Leone, fu accertato che anche nelle presenti condizioni il timone poteva essere governato per cinque gradi a sinistra e cinque gradi a dritta, che per escursioni più ampie si poteva agire sul numero di giri delle due eliche. Si dichiarò che a questo modo sarebbe stato possibile manovrare ad Halifax richiedendo un rimorchiatore in più, senza denunciare l’avaria per evitare il trasporto dei passeggeri via treno a New York e dichiarando le difficoltà di manovra all’arrivo al pilota a N.Y. Il comandante richiese a tutti i presenti il massimo silenzio sulla situazione e un costante controllo sul funzionamento del timone nella sua attuale situazione. E tutto filò a perfezione. In un bacino della Behethlem fu saldato un nuovo calcagnolo, una specie di grosso bicchiere in acciaio per infilarvi la parte inferiore dell’asse timone.