Partigiano per forza il 12 settembre 1943

di

Neumann Antonio




Valsantamarina (oggi Draga Moscenize) 10 Settembre 1943. Non rammento che giorno della settimana fosse. Però ricordo bene il flusso di soldati in grigioverde che per ore ed ore avevano attraversato il borgo marinaro lungo la strada che da Fiume portava a Pola. Tutti dicevano che a Pola c’erano pronti ad attenderle navi sulle quali proseguire per raggiungere le loro case e le loro famiglie in Italia. Molti erano già in borghese, altri si fermavano alle nostre porte per chiedere chi indumenti civili chi un qualcosa per cibarsi. Tra loro anche qualche ufficiale con le mostrine ed i gradi strappati. Tutti in fuga dalla Jugoslavia. E per istrada abbandonavano moschetti, fucili, bombe a mano. Di questi ne erano pieni i cigli erbosi o i prati su cui le rosse micidiali calotte delle bombe a mano Balilla. Breda o delle OTO sembravano fiori campestri.. Poco fuori dalle case del borgo si fermò, per esaurimento del carburante, un autocarro-officina. In un attimo pesanti torni, fresatrici, trapani, chiavi a stella o aperte, ogni genere di utensili scomparirono in una povera officina del luogo.

Poi il flusso divenne più rado fino ad esaurirsi a sera. Nel corso della notte comparvero, camminando cautamente, sagome indistinte che si posero a raccogliere le armi abbandonate, fecero scomparire in capaci saccocce le bombe a mano, raccolsero le divise grigioverdi, si calzarono sul capo le bustine senza troppo badare alle loro misure. Quando io e Vladivoi uscimmo di casa al mattino, lui era il figlio di coloro che ci ospitavano ed eravamo amici d’infanzia e di avventure più o meno gloriose., il paesino era tornato bello e ripulito, come se una gigantesca scopa ci fosse passata tra case, stradine e campi. Perfino il Quarnero, in quel mattino di sole, sembrava più lucido. Unico segno di disordine l’albergo “Armanda”, il più grande del paese dove aveva stabilito il suo commando un reparto di anziani riservisti dell’esercito, le porte mezze sfondate e le finestre spalancate disordinatamente che lasciavano intravedere il disordine di cartacce e di suppellettili rovesciate. Con Vladivoi ci penetrammo curiosi, Fui preso da una specie di sconforto nel rlleggere quei fogli scrupolosamente dattiloscritti, quelle ordinanze così precise dell’esercito italiano, quelle disposizioni, quegli ordini di servizio ora sconciamente aperte ai nostri occhi. Cosa li avrebbe sostituito ora che nulla poteva più opporsi alla nostra incursione? Vladivoi invece sembrava divertirsi dando pedate a tutti quei fogli e facendogli sollevare dal suolo insieme alla polvere, rovistando tra armadi desolatamente vuoti e cassetti di scrivanie rovesciati. Uno, in particolare attirò la sua attenzione, Non riusciva ad aprirlo e al suo interno si udiva il cozzare di aggeggi metallici. Girandosi a cercare qualcosa per aprirlo avvistò un righello metallico e con quello, forzando, riuscì ad aprirlo. Balzò subito ai nostri occhi il luccicare di manici e di canne di pistole, piccole e grandi. Si trattava evidentemente di armi consegnate ai militari a seguito dei bandi su chi manteneva armi in casa. C’erano ancora attaccati dei cartoncini con dei nomi. La mia attenzione fu afferrata da una piccola pistola a tamburo, di quelle che in genere vengono usate dalle donne, il fatto è che era l’unica ad essere legata ad un pacchetto di munizioni. Vladivoi invece si appropriò di un grosso revolver brunito cercò a caso tra i proiettili che rotolavano nel cassetto ma non ne trovò di adatti. Ma preso com’era dall’acciaio brunito, se lo mise in tasca ugualmente. Inoltrandoci nella piazzetta del paese mi fermai di colpo, sul pennone davanti al Municipio, al posto dell’abituale tricolore verde-bianco-rosso v’era issata una lunga bandierona con tre striscie blu-bianco e rosse e una stella rossa in mezzo. La bandiera jugoslava.

“Cosa avete da guardare, voi due fannulloni?” udimmo tuonare alle nostre spalle, E’ la nostra nuova bandiera, la bandiera di noi partigiani ed ora siete partigiani anche voi. Ed ora tornate dentro all’Armanda” e fateci un po’ di pulizia, dobbiamo farne noi, ora, il nostro comando.”

“Io non sono partigiano e quella bandiera non mi piace!” dissi io e aggiunsi. “No, non mi piace proprio per niente!. E poi io sono qui sono in villeggiatura.”.

“Tu ora sei partigiano come partigiano è il tuo amico Vlade, che poi è anche mio nipote.”

Ci guatò rabbioso anche se si trattava di un bell’uomo alto e robusto.Ma forse era meglio tenerselo buono per cui ritornammo nell’ex albergo e ci ponemmo a raccogliere i fogli facendone una catasta fuori ed appicicandoci il fuoco.

“Ei voi, non mi vorrete mica bruciare l’albergo?” Latrò l’omone dietro a noi .Ci pervennero delle risate e così ci accorgemmo che la piazzetta si stava riempiendo di gente, v’era qualcuno del paese ed altri, più numerosi, per la maggior parte barbuti e male in arnese. Qualcuno indossava già pantaloni e giacche grigioverde con le mostrine sui risvolti, strappate. Altri, sul copricapo militari avevano già sostituito i fregi con delle sghembe stelle rosse. Proseguimmo le nostre pulizie con una certa riluttanza ma ben presto alcuni di quegli uomini ci dette una mano nel sistemare qua e là tavoli, scrivanie e seggiole.

Avevamo già ritenuto terminato il nostro compito quando giunse un autocarro sgangherato che riversò, sul davanti dell’ex albergo, dei sacchi di patate, dei quarti di carne di manzo ed altre pacchi di cartone sulle cui scritte troneggiavano le E.I. Esercito Italiano che ne denunciavano le ovvie origini. Demmo una mano a scaricare il tutto e ci accingevamo a scomparire di scena, quando ci si presentò davanti un ometto ben vestito ed una faccia bella tonda che si presentò per comunicarci che lui era il cuoco e da quel momento saremmo diventati i suoi aiutanti. Sembrò rivolgersi più a Vladivoi che a me chiamandolo nipote. Improvvisamente appariva come se Vladivoi avesse un bel mucchio di parenti quel mattino. Il cuoco o presunto tale ci mise subito sotto a pelare un sacco di patate rimbrottandoci per lo spessore eccessivo delle nostre buccie. Ogni tanto ci scambiavamo occhiate con Vladivoi, se in questo consisteva essere stati nominati partigiani, l’avvenire non si rivelava eccessivamente roseo. Nel frattempo il primo zio di Vladivoi aveva terminato il suo concione in piazza nel corso del quale aveva apostrofato il gruppo di omaccioni ora divenuto abbastanza folto, distribuendone i compiti, le guardie in vari punti del paese ed i loro turni. Ora stavano accostandosi all’albergo con una certa aria affamata mentre le nostre patate bollivano allegramente in un capace pagliolo.

Vladivoi ed io, con le mani malconce dalla pulizia delle patate e lo stomaco vuoto, ci eclissammo nel migliore dei modi uscendo dal retro della cucina aggirando così cuoco e affamati. Con il confortante peso delle pistole nelle sacocce. A casa facemmo onore al pranzo dopodiché ci mettemmo a confabulare sul come trascorrere il pomeriggio senza essere di nuovo intrappolati dalla marmaglia. Trascurando quanto offriva il paese in fatto di ragazzine, puntammo alle ospiti in villeggiatura aggirando il centro per un sentiero che correva dietro alle casupole sulla spiaggia, Ne agganciammo una, di Fiume, di cui non rammento più il nome e il cui padre era direttore di macchina sempre assente (non così il fidanzato che lavorava al Silurificio). Assentì con entusiasmo ad una puntata alla spiaggia più lontana e tranquilla dove a noi si aggiunse Ita, anche lei di Fiume ma con villetta presso la spiaggia sulla quale puntavamo. Il cielo non incoraggiava celando il sole con uno strato uniforme di nuvole sottili ma ci liberammo ugualmente di calzoncini e magliette per rimanere con i costumi da bagno. La più avventurosa di noi si tuffò subito ma dopo qualche nuotata tornò a riva con l’aria disgustata, il mare era cosparso di meduse. Già, il mese era quello, comparivano a metà settembre, per la gran parte innocue anche se disgustamente viscide. Stavamo facendo i nostri commenti sui recenti avvenimenti accaduti in paese e sui nuovi recenti sbracati ospiti quando comparve uno di loro con copricapo e stella rossa. Gli uomini di Valsantamarina non osavano ancora farlo. Si sapeva che a Pola e a Fiume c’erano i tedeschi i quali spesso eseguivano spesso puntate con una autoblindo, sulla strada statale. Malvestito e barbuto si avvicinò al nostro piccolo gruppo, fermando i suoi piedoni a qualche passo dai nostri indumenti. E ci intimò, in uno storpiato italiano, di allontanarci perché su quella spiaggia era proibito fare il bagno. Vladivoi, gli rispose in croato ma quello insistette con maggior vigore. Io lo informai che anche noi eravamo partigiani e di come s’era svolta la nostra investitura ma sembrò non comprendere la faccenda delle patate pelate. Però sembrava dimostrare maggior interesse verso le ragazze ormai spaventate, che verso di noi o di quanto stavamo dicendo. Lo attirava visibilmente l’Ita (che faceva poi Italia), forse non la più bella delle due ma grassoccia e con delle tette ben sviluppate. Borbottò ancora verso Vladivoi che mi tradusse le sue parole, voleva cioè che ce ne andassimo via noi lasciando la prosperosa Ita. Si stava mettendo brutta mentre si avvicinava all’oggetto dei suoi desideri che si appiccicava sempre di più a noi per protezione. Mi rammentai allora della pistola nei miei calzoncini per cui senza badare a lui e al suo fucilone, doveva essere un Mauser tedesco, mi avvicinai agli abiti e quello forse ebbe a pensare che ci fossimo decisi ad eseguire i suoi ordini. Io invece estrassi la piccola rivoltella scarica (la scatoletta con i proiettili era ancora chiusa) e glie la puntai contro, Vladivoi comprese il mio gesto e a sua volta fece balenare la sua grossa pistola sotto il naso del partigiano. Questi indietreggiò prontamente, imbarazzato sul da farsi. Lui aveva il fucilone a tracolla sulle spalle e avrebbe dovuto perdere un bel po’ di tempo per averlo pronto, noi con le nostre belle pistole puntate anche se scariche, avremmo potuto facilmente sopraffarlo. Le ragazze approfittarono prontamente della sua indecisione per indossare le leggere vesti. Poi prima Vladivoi, poi io ci infilammo i calzoncini iniziando una ritirata quanto più dignitosa possibile, volandoci di tanto in tanto per seguire le sue mosse e agitando minacciosi le pistole. Infine si girò verso il retro della spiaggia mentre noi ci si affrettava verso la villa di Ita ancora scossa dagli avvenimenti, facendoci attendere che le aprissero la porta di casa prima di eclissarsi senza un ringraziamento. Noi tre inforcammo la via di casa.

Solo che, per riconsegnare l’altra villeggiante a sua madre, fummo costretti a passare davanti all” Armanda”. Dall’osteria sopra al molo dì ormeggio delle barche giungevano fino a noi i canti dei partigiani ormai avvinazzati che dal linguaggio usato e dai colpi ai tavoli dovevano essere proprio quelli usciti dai boschi la notte precedente. Gli elementi locali non avrebbero osato fare un baccano simile in vicinanza delle proprie abitazioni e dei propri familiari.”Ei, voi due, dove siete stati tutto il pomeriggio?”

Era daccapo il nostro cappoccia che ci richiamava da una delle finestre dell’ex albergo.

“Salite subito da me che ho bisogno di voi.”

Salimmo, S’era sistemato benino, una vasta scrivania tutta lucida dietro alla quale c’era una poltroncina di raso, Un armadio che certamente non apparteneva a quelli posti nelle camere degli ospiti, due seggiole anch’esse foderate per gli ospiti. Che per il momento divenimmo tali noi, non senza un tantino di sussiego:

“Ho dei problemi. Lo sentite il baccano che fanno quelli in osteria? Stasera dobbiamo andare a parlamentare con un carabiniere che è rimasto nella casermetta. Sua moglie deve partorire stanotte e c’è con lei la levatrice. Bisogna poi organizzare la prima ronda per il coprifuoco. Ormai ci siete rimasti voi e qualche partigiano del paese. Allora ho deciso così. Voi adesso ve ne andate a cenare a casa e dite ai vostri che passerete la notte fuori. Poi tornate qui, ci raduniamo con un tre paesani e facciamo una puntatine dal carabiniere. Poi voi, e qualche altro rimanete in giro a fare la ronda. Non fatemi scherzi. Andate ora!” Io mi azzardai e lo informai che i miei problemi superavano i suoi perché l’indomani dovevo sostenere degli esami a Fiume, per completare i miei esami di licenza all’Istituto Nautico. Cercai di fargli capire che avevo diviso gli esami in due sezioni avendo cercato in tal modo di abbreviare un anno di scuola, e che, di conseguenza, mi doveva fare un permesso per recarmi l’indomani mattina a Fiume. Non si irritò per niente, devo ammettere che mi era perfino simpatico. “Tu non vai da nessuna parte, e tanto a Fiume ti acciuffano i tedeschi.” . “Io ci vado con o senza i tuoi permessi, tanto, sono vent’anni che veniamo a Draga in villeggiatura e queste montagne e questo mare li conosco meglio di voi.! “ Mi disse soltanto “Provaci!”.

Ne parlammo a casa, mia madre ne era spaventata, la madre di Vladivoi però le disse, che domani doveva andare anche lei a Fiume, “Ho già la “propusnica”, ci arrangeremo in qualche modo.. Ad un certo punto giunge affannata una ragazzetta del paese: “Non andare, Tonci” hanno detto a mio fratello che stanotte deve uscire per i boschi per prendere te, ci saranno anche quei partigiani brutti, di fuori.” A questo punto la mamma di Vladivoi, disse che doveva uscire per una cosa urgente, trascinandoli dietro la ragazzina. Rientrando, dopo un po’, disse a mia madre che al mattino ce ne saremmo andati a Fiume insieme.

E così, a sera, il capoccione, Vladivoi, io e due paesani ci avviicinammo alla casermetta dei carabinieri che rimaneva un po’ fuori dall’abitato. Ci avvicinammo con la dovuta prudenza ma la casermetta era tutta illuminata e non facemmo in tempo a bussare che un carabiniere in divisa, uno di quelli in età, tutto pacioccone, ci aprì la porta facendoci entrare e sedere ad un tavolo con fiasco di vino e bicchieri già pronti. “Non fate chiasso che tra poco ci siamo”, ci sussurrò la levatrice affacciandosi da una scala, “ e portatemi via il marito che non capisce niente e mi da solo fastidio” e rivolgendosi ad uno dei paesani, rimani te che di figli ne ha visti nascere anche troppi e sai cosa fare. E fù così che senza scambiare altre parole, ci ritrovammo di nuovo nella piazzetta. E decidemmo lì per l’ì che il capo partigiano e gli altri se ne sarebbero tornati casa poiché al mattino dovevano svegliare coloro che ora russavano con un bel fragore dentro all’osteria e a fare la ronda saremmo rimasti io, Vladivoi e il carabiniere.

La notte era bella tranquilla con una luna che faceva luccicare la pista da ballo davanti all’albergo. S’udiva appena il fruscio delle onde sulla vicina spiaggia e il ronzio delle falene e dei moscerini che roteavano intorno ai globi di luce dell’illuminazione pubblica. Ad un certo punto il carabiniere non ce la fece più e disse: “Io non ce la faccio, davvero più, vado in caserma a vedere come vanno le cose”. E scomparve. Rimanemmo noi, Vladivoi ed io. A ricordare tutte le splendide nottate trascorse, sussurrando qualche parola gentile alla ragazza accanto, dietro al cespuglio di una qualche caletta di rocce, o accovacciati sulla prua di un gozzo a pompare l’acetilene dentro alla lampade, allo spettacolo delle tratte a riva con le reti del pescato scintillante ai bagliori delle luci delle lampare in avvicinamento. O lo spettacolo serale del vaporino ornato come un albero di Natale che usciva dal buio della notte con il suono dell’orchestrina di bordo per la gita del “Fresco al mare” . Partiva da Fiume alle 20.30 sostando quindi ad Abbazia, Laurana ed infine Valsantamarina dove sostava per un’ora e i gitanti scendevano sulla pista dell’Albergo “Armanda” anche esso rutilante di luci.

D’improvviso il silenzio che ci avvolgeva fu turbato dal rumore di una automobile che scendeva verso il porticciolo. Era una vecchia spider a quattro posti. Sul retro due personaggi che sembravano usciti da un racconto fantascientifico. In divise kaki apparentemente da parata, i berretti con visiera ben lucidi e tirati che sembravano appena usciti dalla forma sulle spalle delle vistose spalline giallo oro. Del colloquio se ne incaricò Vladivoi perché di croato io ne bazzicavo solo a parolacce e bestemmie locali.. Non fu lungo. Poi l’autista, anche lui in kaki ma più trasandato dei suoi evidenti superiori, uscì dal posto di guida e aprì una specie di portabagagli applicato sul retro della macchina da cui trasse aggeggi vari poggiandoli cautamente al suolo e dando complesse spiegazioni allo sbigottito Vladivoi. Risalito alla guida si rivolse a me in italiano.” Mi raccomando compagni, I tedeschi stanno provenendo da Pola e avanzano verso Fiume. Sta a voi far saltare quel ponte e fermare l’avanzata dei tedeschi.” Dopodiché, innestate le rumorose marce, riprese la strada per ritornare alla statale.

Vladivoi , ancora sbalordito, mi disse che, per quanto aveva capito, quegli affari rotondi erano dinamite, quell’ altro affare con la manetta in cima era il detonatore. Che bastava mettere attorno alla base di uno di pilastri, preferibilmente quello principale, del ponte della strada statale posto, tra Moschiena e Valsantamarina, i cilindri della dinamite che erano già collegate l’una all’altra con il filo, portarsi a debita distanza dal pilastro o fino a quanto lo permetteva il cavo avvolto in un rotolo e quindi premere con forza in basso la manetta.

Guardai il rotolo, lo guardò anche Vladivoi. Poi ci guardammo entrambi in faccia. Avevamo tante belle estati alle spalle, in tanti bei cieli stellati avevamo cercato in agosto le stelle cadenti, a sera, mentre si rincasava c’erano le lucciole ad accompagnarci, c’erano Wilma, c’era Fedora, c’era Gabriella, il campetto di calcio nei pomeriggi, il torrente, il “potoc” lo chiamavamo, con le more succose, c’erano i gozzi, le lancette, la battane, le immersioni nelle acque limpide del Quarnero.

E senza riaprire una sola volta la bocca, senza quasi fiatare, raccogliemmo da terra tutta quella robaccia, , io sollevai con cautela i cilindri tra le braccia, Vladivoi prese il rotolo di filo e, tenendo ben distante da se rotolo e detonatore, muovemmo i nostri prudenti passi verso l’estremità del molo, un’occhiata bastò e dinamite, fili, rotolo e detonatore finirono in mare. Sempre senza parlare, levammo dalle saccocce dei pantaloncini le pistole e cacciammo in mare anche loro. Dopodiché ce ne tornammo a casa. Al mattino raggiunsi Fiume , al posto di blocco partigiano, appostati in alto nella boscaglia, fuori dal raggio di azione dell’autoblinda tedesca, i compagni ci chiesero urlando “la propusniza” e tanto io che la mamma di Vladivoi agitammo i nostri pezzetti di carta. Nessuno scese a controllare e mai seppi cosa ci fosse scritto sul mio. Così ebbe termine la mia prima ed ultima giornata di partigiano. Ma quanti possono vantare di essere stati partigiani il 12 settembre 1943?