Ricordando Delnice

di

Neumann Antonio




Inverno 1943. Delnice è una cittadina nel Gorski Kotar collocata lungo la linea ferroviaria Fiume – Zagabria. Fin dal secolo XIX, collocata a 696 metri di altezza, Delnice fu un tradizionale centro turistico per escursioni salutari tra i suoi boschi, per il suo clima e per le sue bellezze naturali. Ebbe ad ospitare turisti austro-ungarici, cechi, boemi, slovacchi e, numerosi, i fiumani più facoltosi. Noi, in quel freddo febbraio non potevamo certamente classificarci tra i facoltosi, La nostra comitiva doveva avere un aspetto ben miserando con indosso vecchi ma spessi maglioni e gli sci sulle spalle. S’era partiti nel tardo pomeriggio dalla stazione ferroviaria di Fiume e, dopo un ora di permanenza in vagoni gelati, ci si trovava in una spettacolo polare, neve dappertutto e stalattiti di ghiaccio che pendevano dai tetti. Eravamo in quattro, io, i Seberich padre e figlio e Paulovatz, Intorno a noi casette semibuie appena illuminate da qualche lanterna affumicata. E tanto freddo. Da una specie di bar accanto alla stazione apprendemmo che gli unici veri e propri alberghi erano chiusi perché fuori stagione. Per gli ospiti notturni funzionava una specie di trattoria con qualche camera da letto. Ci fu indicato non senza disprezzo un edificio in legno, a due piani. Semibuia l’entrata e quindi lo stanzone con una favolosa stufa al centro, accesa senza entusiasmo da qualche tizzone, sopraggiunse comunque un donnone, l’ostessa che per prima cosa rimestò tra i tizzoni e aggiunse qualche ramo in modo che, in breve tempo, avvertimmo un po’ di timido tepore. Ci accomodammo intorno ad un tavolone il più possibile vicino alla stufa indagando sull’esistenza di un qualche improbabile menù. Ovviamente non c’era, ne il menù ne alcunché da mangiare. Per quella sera non attendevano ospiti. Così ci introdusse la stentata traduzione del bravo Paulovarz che un po’ di croato lo masticava e lo univa all’incerto italiano della donna. Questa ci guardava con aria mesta poi una specie di luce si accese nei suoi occhi e si rivolse vivacemente a tutti noi mescolando il suo strano guazzabuglio di croato e dialetto veneto, deciframmo: “Ho una bella testa di maiale.” Ci guardammo, nessuno di noi aveva alcuna esperienza sulle teste suine ma convenimmo che era meglio di niente. Così ci facemmo portare un bel bottiglione di vino nero, sul tavolo giunsero i bicchieri e le posate dopodiché la bella ostessa, o dio, bella, per modo di dire, scomparve in quella che presumemmo fosse la cucina.

C’era chi fra noi aveva una certa esperienza sulle teste di pesce, specie su quelle di branzino, ma su quella di maiale c’era il buio . Il nostro morale era sempre basso ma c’era il vino che cominciava a riscaldarci lo stomaco e la mente e la stufa che ce la stava mettendo tutta per sostituire gli originali pallidi tizzoni con le fiamme dei rami. Ad un certo punto ricomparve la padrona di casa, tra le mani reggeva un largo vassoio di legno sul quale troneggiava un enorme, indubbia testa di maiale. La posò sulla tavola attardandosi, con aria trionfante, per assistere al nostro attacco vorace. Che non avvenne, impugnammo, è vero, coltelli e forchette ma poi dove infilarli nei meandri di quel testone osseo? Rendendosi conto della nostra ignoranza in merito, lei afferrò un coltello e una forchetta immergendoli nei numerosi fori dello scheletro ed iniziando ad estrarne, quasi con eleganza, pezzettini di carne. Seguimmo il suggerimento e, magari un po’ impacciati, iniziammo a darci da fare. La cuoca annuì soddisfatta e ci informò che andava a prepararci le camere da letto, tra “spii” e “spat” afferrammo “spavar” , dormire. Non ci si volle molto per abbandonare le lente operazioni con le posate e affondare le dita dentro con quel po’ di fame che avevamo. E tra deliziosi grassi bocconcini e sorsate di ottimo vino ci abbandonammo alla mangiata fintantoché sulla testa di maiale non rimasero che vuoti buchi e l’’impalcatura ossea.

Non è che ci fossero tanti i concorrenti in quella mattinata di gelo, alla partenza della gara di fondo, direi una ventina forse, il freddo eccessivo avrà sconsigliato ben più di un atleta dall’abbandonare il tepore di un letto. C’era comunque la giuria, c’erano i numeri da appiccicare sul davanti del maglione, c’era la neve, un gran bel pò di neve ed il freddo glaciale. Nelle gare di fondo ci si va un tantino leggeri come vestiario, per evitare di sudare una volta avviati, per cui tremavamo non poco nell’ nostro numero di partenza ogni tre secondi l’uno dall’altro. Finalmente giunse il mio turno, fui tra gli ultimi ad avviarmi, si partiva dal fondo valle con una ripida salita e per penetrare quasi subito nella boscaglia sul sentiero tracciato del percorso, andavo veloce, la pendenza era diminuita, scorgevo davanti a me tre o quattro di quanti mi avevano preceduto nella partenza, il sentiero tracciato nel fitto della boscaglia non consentiva ancora sorpassi, il passo era quasi comodo per me e anelavo a qualche apertura tra gli alberi per sopravanzare. E l’apertura giunse, fin troppo generosa, un vasto manto bianco ripidissimo circondato totalmente dagli alberi. Tutti coloro che erano partiti prima di me erano aggruppati ai lati del pendio procedendo lenti scalinando, al centro, completamente vuota la traccia della pista del percorso che io affrontai in diretta. A quei tempi ero molto magro ma avevo una discreta forza sulle braccia per cui, forzando quasi esclusivamente su queste ultime e lavorando con gli sci solamente come appoggio statico, colmai rapidamente e direttamente la macchia bianca tra il verde per rientrare nel sentiero tra gli alberi senza avere più nessuno davanti a me. Non che contassi di vincere ma per un pò potevo condurre l’andatura. Gli alberi finirono e mi trovai, tutto solo, sulla traccia del percorso di gara e le bandierine che lo segnalavano a distanza, era un lungo crinale nevoso come fossero basse colline quasi piane con un non gradito ritorno, il freddo atroce spinto da un forte vento contrario mi penetrava nelle ossa attraverso l’unico maglione che indossavo, la camicia ed una esile canottiera, il vestiario leggero per le gare di fondo. A mezzo percorso un giudice penso più infreddolito di me malgrado gli strati di abiti che indossava, traendo fuori una mano da due paia di guantoni di spessa lana riuscì faticosamente a fare uno sgorbio del mio numero sul blocco note. Come dio volle, ad un certo punto rividi degli alberi, entrai nella boscaglia che mi risparmiò dal vento ed infine rividi la vallata di Delnice, la fine del calvario. O l’inizio?.

Tagliato lo striscione dell’arrivo in mezzo ad una cagnara di gente che si insultava a vicenda, ogni tanto percepivo qualche “Ladri! Ladroni” ma in netta maggioranza erano i “mugneni”, “proclieti” “Wrah ti e sel” “Jebiga”. Riuscii ad individuare un Sergio Seberich tutto infervorato. “Niente, Sti zobani i ne voleva imbrojar tuti!.” “Ma come, se son arrivado prima mi, non ghe iera nessun davanti a mi!” “Tonci, ti ti xe l’unico che ga fato tuto el percorso, non semo riusicdi a fermarte, ti andavi come un treno. La gara xe stada anulada. Do muli de qua, de Delnice, i se gaveva nascosti drio i alberi ala partenza e i gaveva taiado sempre tra i alberi fino a quei sopra l’arrivo ma qualchedun se ga acorto, xe nato sto casin qua!” “Dove xe tuo pare?”. “El xe tornà in quell’osteria dove gavemo dormido.” Io avevo ancora il freddo addosso e mi ci recai anch’io pensando alla bella stufa accesa nello stanzone. Li trovai Bruno Seberich e mi ci misi accanto addossato alla stufa. Ma come iniziai a riscaldarmi venni preso da forti fitte di dolore tra le gambe, mi lamentai e Bruno mi chiese cosa mi stesse accadendo. Volle vedere dove sentissi il dolore e ci recammo su in quella che era stata la mia camera, mi abbassò i pantaloni, mi tastò, disse “Che bruto color, ti se ga preso un bel inizio de congelamento, adeso ghe penso mi!”, e si mise a strofinarmi la parte interessata solo che più lui mi strofinava più aumentava il dolore, stavo urlando quasi, arrivò Sergio che si mise ad alternarsi a Bruno nella bisogna. “Non sta gaver paura Tonci, mi disse Bruno, mi son stado nei alpini e so ste robe, adeso el dolor aumenta perché el sangue riprende a circolar.” Accidenti però. Arrivò anche la padrona che poi chiamò altra gente, arrivò anche un dottore che approvò l’operato dei due Seberich ed infatti, a poco a poco le mie pene si attenuarono, arrivò anche una bottiglia di grappa, una parte di essa la sparsero sulla parte congelata, un’altra me la sorbii io. Tra la gente che era arrivata c’erano anche gli organizzatori della gara di fondo che non solo si scusarono in mezzo italiano per quanto m’era accaduto ma poi indussero l’ostessa a prepararci un bel pranzo per tutti e tra i “zivio ti” e ”zivio lui" finimmo tutti bell’e ubriachi.