In guerra. Ancora ricordi.

di

Neumann Antonio




Stendiamo uno dei teli da tenda sulla massicciata della ferrovia, tra i due binari. Osservo i resti, i frammenti del nostro commilitone. Iniziamo con quello che rimane del tronco sanguinolento posandolo sul telo, ci poniamo accanto il capo che è rimasto pressoché intatto nell’esplosione, poi, con cautela, solleviamo i due arti inferiori rimasti attaccati l’uno all’altro dai testicoli, è grottesco ma è così. Il resto del corpo è costituito da frammenti che raccogliamo all’intorno e poi sui sassi del pendio della massicciata, ce ne sono anche nei vicini campi coltivati, rovistiamo tra i filari d’uva e le erbe, nel pomeriggio i contadini ne troveranno altri, ancora più distanti dal punto dove è esplosa la mina. Non ci rimarrà che sotterrarli sul posto. Per intanto uniamo i due teli e ci disponiamo al trasporto di quanto rimane del ragazzo.. Ognuno di noi afferra il suo lembo e solleviamo insieme l’improvvisata bara. Ci si accorge ben presto che il funebre fardello pesa un bel po’ per cui dobbiamo procedere lentamente tra le traversine del binario. I due chilometri che distano dal ponte sembrano interminabili. Se mi fosse chiesto a che cosa penso in quel momento direi il peso, il timore di non reggere e che i due lembi mi scivolino tra le mani. Ma si prosegue, non ci si può fermare. Ci si avvicina al ponte, è affollato da figure in grigioverde immobili. Scorgiamo ora, alla base della massicciata, la tozza autoambulanza militare con il verde scuro e la croce rossa sui lati certamente residuata dalla prima guerra mondiale. Ora siamo proprio alla sua altezza ma c’è il pendio, ce la faremo a scendere, ci soffermiamo. I soldati della Sanità Militare si rendono conto delle nostre difficoltà e salgono a darci una mano. Risaliamo il ponte in senso inverso tornando alla nostra postazione. Il passaggio tra i militari del ponte è penoso. Ci guardano passare in silenzio. Lamentano un caduto e due feriti gravi già avviati all’ospedale. Sono i primi per loro e per noi in questa guerra. Una mina. Eppure il sergente che guidava la pattuglia avrebbe dovuto saperlo. E’ un perito minerario. D’altronde, a tutti noi, nel periodo dell’addestramento non ci hanno fatto vedere nessun tipo di mina ne come si fa a disinnescarle. Io mi rifacevo a quelle dei giornalini per ragazzi, un oggetto rotondo con la miccia accesa.

Qualche giorno dopo. E’ il mese d’agosto. Un pomeriggio di sole. Sto schiacciando un sonnellino pomeridiano sulla mia branda nel locale della stazione di Cormons destinato ad ospitare il nostro plotone. D’improvviso vengo destato da una serie di violente esplosioni e dal rumore assordante di un aereo a bassa quota. Rimango un attimo confuso sul da farsi, scorgo un mio commilitone che si sistema a mò di protezione sotto al riquadro d’una porta, io mi stendo stupidamente sotto alla branda, una ben fragile difesa. L’aereo effettua altri giri sopra l’edificio della stazione sempre bombardando e mitragliando la zona. Gli è che, ad una cinquantina di metri dall’edificio, su di un binario morto, sono collocati dei vagoni dell’aviazione tedesca che fungono da base per un treno armato, vagoni adibiti ad officina ed alloggio del personale addetto al treno che al momento non è presente in stazione. Non so quanto tempo dura la breve incursione, forse cinque, sei minuti. Poi subentra un totale assurdo silenzio, sarà il mio udito rimasto assordato? Mi rialzo, infilo gli scarponi e mi affaccio alla porta che da sulla pensilina, è deserta, poi, sulla destra mi rendo conto che l’attacco era stato diretto proprio contro alla base del treno armato. Tutta l’area intorno ad essa è cosparsa di buche più o meno profonde e da un intrico di binari e cavi elettrici sconvolti. Dapprima debole e poi sempre più forte mi perviene un lamento, scorgo una figura china accanto ad uno dei vagoni. E’ un soldato tedesco piegato in due, mi ci avvicino per prestargli soccorso ma poi mi ritraggo. Dal suo ventre squarciato fuoriescono gli intestini già sparsi al suolo accanto a lui, intestini che egli cerca affannosamente di far rientrare nel ventre con le mani sanguinanti mentre dalle sue labbra esce ora una specie di mormorio: “Mutter, mutter”. Non me la sento, non me la sento proprio di prestargli aiuto. D’altronde cosa potrei fare? Vedo che qualcuno dei suoi camerati si stanno avvicinando. Io mi guardo in giro, dov’è che potrei prestare la mia opera? E forse una giustificazione mia per l’impotenza che mi ha colto? Non distante un vagone isolato sta bruciando da un lato. Ecco, ecco cosa posso fare e mi avvio verso la stazione, la dove c’ è la cassetta con l’estintore e la manichetta arrotolata.

Nei pressi di Canale d’Isonzo, nella ridotta della 2° Compagnia del XIV Battaglione Italiano da Fortezza collocata accanto alla diga addossata al ponte ferroviario della tratta Gorizia-Klagenfurth. Le raffiche di mitra ci colgono di sorpresa anche se distanti, di lì a poco sopraggiunge concitato il comandante della 2° che ingiunge a quanti siamo liberi dal servizio di guardia di seguirlo in completo armamento di guerra (non è molto, il moschetto, l’elmetto, e caricatori di riserva da infilare nelle giberne), passiamo rapidi attraverso i meandri della diga e sbuchiamo sull’altra sponda dell’Isonzo, si prosegue sempre rapidi lungo i binari della ferrovia, dopo circa un due o tre chilometri raggiungiamo il casolare in prossimità del quale è avvenuto l’agguato alla carretta con la quale, al mattino viene trasportato il pane appena sfornato a Canale al nostro contingente di Auzza. Passiamo accanto alla carretta rovesciata e al mulo steso sulla carrareccia, senza fermarci e penetriamo nella vicina boscaglia disponendoci a ventaglio, l’erta è ripida e scivoliamo sullo strato di aghi di pino al suolo. Si sale ancora un po’ ma poi il comandante si rende conto che i partigiani saranno ormai ben lontani. Così si ritorna indietro. C’è già un affollamento di commilitoni giunti dalla sede comando di Canale, davanti alla costruzione; la porta d’ingresso è aperta su un ampia camera, è spalancata anche una finestra sul retro da cui entrano direttamente i raggi del basso sole, in mezzo alla camera un tavolo sul quale è posato, composto, il corpo del sergente sardo di Auzza. Mi affaccio insieme agli altri ma il sole mi abbaglia e, da quella posizione, del caduto è possibile scorgere distintamente solo le suole degli scarponi e, i fori delle narici del naso, mi sembrano enormi rispetto al volto per cui, nella mia memoria visiva, rimangono soltanto quelli. Un’ombra indistinta si avvicina al tavolo dove giace il corpo, si inginocchia, appoggia le mani sulla superficie del tavolo e le unisce a mò di preghiera. E’ una vecchia contadina. Di li a poco, tra due custodi, compare un uomo anziano con un fagottello in mano, sosta un attimo accanto alla donna inginocchiata e le passa una lieve carezza al capo prima di allontanarsi per essere consegnato ai tedeschi. Noi non possiamo mantenere i prigionieri. Si completa così il dramma. I partigiani che penetrano a forza nella loro casa, che si appostano ad una finestra con i mitra puntati e non appena sentono le ruote cigolanti del mezzo aprono il fuoco uccidendo il sergente e il mulo, l’accompagnatore del sergente in grigioverde, un milite confinario in camicia nera si getta di lato sulla scarpata laterale sfuggendo cosi al fuoco. Sento un nodo alla gola. Quei poveri vecchi, nella loro casa, con una vita di lavoro duro alle spalle e un pezzo di terra difficile, proiettati improvvisamente nelle vicende di una guerra.

La lettiga è formata da due pali di ferro e uno spesso telo teso fra i pali. La sorreggono due aitanti alpini del Battaglione “Tagliamento”, sono giunti anche gruppi di bersaglieri del “Mussolini” a prestare aiuto ai morti e feriti. In parte protetto dalla breve galleria ferroviaria vi è il treno ospedale tedesco. Il bombardamento a più ondate della diga e del ponte di Canale d’Isonzo da parte degli aerei inglesi ha colto, mentre transitava proprio sul ponte, un treno proveniente da Gorizia e diretto a Klagenfurth carico di soldati tedeschi che si recavano in Austria e Germania in licenza per celebrare le feste, era il 27 dicembre del 1944, rovesciando la locomotiva e i vagoni nel greto del fiume Isonzo. Nella lettiga traballante sul ponte rimasto intatto ci sono io aggrappato alle due stanghe di ferro laterali. Il nostro procedere è lento per i tanti sassi e pezzi d’intonaco che ingombrano la superficie. Gli alpini mi ingiungono di non guardare giù, guardo alla mia destra e scorgo la strada nazionale butterata dai crateri delle bombe (è questo è il motivo per il quale mi fanno percorrere il ponte onde raggiungere l’autoambulanza militare sull’altro versante del fiume), che sembrano come escrescenze con buche circolari e i loro orli sconvolti, è stato proprio l’ orlo di una buca a seppellirmi alla prima ondata, sono sanguinante alla testa tenuta sollevata da una coperta militate poiché se la abbasso perdo i sensi, ho il piede sinistro che si rifiuta di sostenere il corpo e la schiena dolente già dal giorno precedente (primo attacco aereo). Poi, il sentiero tracciato sulla sponda ora percorso da una fila ininterrotta di barelle sulle quali sono posati i corpi ed i feriti di quanti si trovavano sul convoglio probabilmente deragliato e rovesciatosi nell’alveo dell’Isonzo per l’effetto degli spostamenti d’aria causato dalle esplosioni delle bombe in quella cupa strettoia della valle. A sorreggere le barelle infermieri del treno ospedale, ragazzi nostri sopravissuti, i bersaglieri, gli alpini e perfino qualche basco della X Mas. Tutti componenti di quel piccolo esercito che, lungo il corso dell’eroico fiume, tenta pateticamente di ostacolare l’avanzare dei partigiani iugoslavi verso le nostre terre. Mi faccio coraggio e guardo giù, dove sul greto dell’Isonzo scorgo i vagoni del convoglio passeggeri in gran parte adagiati con le loro fiancate sui rotondi sassi dell’alveo, sassi fino a poche ore prima bianchi e rilucentii e ora rossi di sangue, quello che scorre dalle vetture, dai loro finestrini spalancati e rotti nell’urto. Ed ecco che raggiungiamo l’autoambulanza dell’ esercito italiano, col suo verde scuro e le grandi croci rosse ai lati, è la stessa di alcuni mesi fa vicino a Cormons, è la stessa con la quale ho iniziato questi ricordi, solo che quella volta ero io a dare una mano per introdurre il pesante fardello d’un corpo devastato nel grande vano posteriore, oggi sono io che vi viene introdotto steso su una improvvisata barella.