In Riva dei Bodoli

di

Neumann Antonio




Quando mia madre vi arrivava in barca dall’Isola di Veglia la chiamavano “Riva dei Bodoli”. Difatti mia mamma era una bodola di Bescanuova e bodoli, cioè isolani, erano indicati tutti coloro che abitavano nelle isole quarnerine o dalmate che fossero.

Prendo lo spunto per questo ricordo dalla raccolta delle fotografie d’epoca di Fiume così cortesemente inviatemi dall’Associazione Giuliani nel Mondo (Via Santa Caterina da Siena, 7 – 34122 Trieste) in occasione delle Feste Natalizie e mi riferisco alla pagina 27, foto 44 dove compare uno spaccato della cosiddetta Casa Spehar, proprietario l’Avvocato Spehar già Sindaco di Sussak. Non sono uno storico e quindi non sono in grado di citare tutte le denominazioni che caratterizzarono nel corso degli anni quel tratto del porto di Fiume, so che “La riva dei Bodoli” fu seguita da “Riva Cristoforo Colombo” e quindi dall’infausta “Trstchanka Obala” . Sulla Riva, diciamo lato terra, erano eretti tre edifici: il Palazzo Bacich al pianoterra del quale era ubicato il “Cinema Roma”, la citata Casa Spehar al cui pianoterra ad angolo con via Stefano Turr era collocato il “Bar Milano” e quindi la Casa Tagini che faceva angolo con via Marco Polo il cui lato a mare costituiva il confine con il porto Baross.

Il lato mare dell’’appartamento della mia famiglia al terzo piano della Casa Spehar era occupato da due camere della zona notturna del complesso, le altre si affacciavano in via Turr. Ed era da quelle affacciate al mare che noi si godeva la vista del porto, della costa orientale istriana e delle isole, oltre, ovviamente, l’intensa attività della riva e dell’alternarsi di navi e trabaccoli alla connessa banchina portuale. Questa era percorsa da due linee ferroviarie che poi, passando sopra il ponte girevole di Porto Barros, si inoltravano sul molo lungo (o diga Cagni). Dalla banchina alla via vera e propria, uno largo spazio per la collocazione delle merci o mercanzie le più varie e il movimento dei mezzi per il loro trasporto, per molti anni costituiti da lunghi carri a ruote trainati da coppie di robusti cavalli. E facile immaginare il trambusto, gli odori, e a volte i fetori, che si levavano da quella riva, dai trabaccoli con i loro carichi di carrube, di aranci, meloni provenienti fin dalla Sicilia, le marasche da Zara, le verdure dalle isole, il cemento, le travi di legno che in certi periodi l’occupavano tutta. E noi ragazzini ci si armeggiava intorno. In un occasione fummo molto impressionati, dalla presenza, su una catasta di legnami di un cadavere di quello che poi risultò essere quello in un noto ubriacone della Cittavecia, morto soffocato da un rigurgito, il sangue uscito dalla sua bocca si mescolava a rimasugli di cibo e vino stantio. A sera erano invece le coppie che si recavano al Molo Lungo a celarsi tra le mercanzie.

A volte, quando il resto del porto era intasato, era un piroscafo grande e grosso che attraccava alla banchina sollevando il nostro interesse per le manovre che doveva compiere per ormeggiarsi. In genere nelle sue capaci stive finiva il legname ed allora il frastuono aumentava per quello prodotto dai verricelli. I trabaccoli, in questo caso, s’affollavano sotto all’’ampia poppa della nave. Spesso, al mattino presto, erano i pescherecci a manovrare per scaricare il pescato ed inviarlo nella vicina pescheria. In questi casi s’udiva un diverso rumore, il tramestio di gonne femminili, erano le prostitute che si calavano negli scafi per unirsi ai pescatori dopo le tante giornate trascorse da questi in mare. Nulla sfuggiva alla nostra curiosità infantile. Non se quello che vi si succede oggi, un tempo la riva dei bodoli era proprio un mondo a se. Ci fu offerto alla nostra vista perfino il ricupero dal fondo del mare, di una locomotiva a vapore spintavi da un colpo di bora. Accadde pure che, in una giornata di ventoso scirocco, un piroscafo in uscita dal porto jugoslavo di Sussak, finisse sugli scogli del molo lungo, la sua fiancata troneggiava sulle rocce a difesa della diga, strisciando l’enorme fiancata sulle rocce stesse dalla violenza delle onde. E spettacolo per noi fu i tentativi del disincaglio per mezzo di grossi rimorchiatori che uscirono anche dal porto di Fiume per prestare aiuto.

Si, la vita ferveva ancora nel porto di Fiume, sul vicino molo Stocco s’avvicendavano i piccoli piroscafi del traffico commerciale locale, sul Molo San Marco, più in là, attraccavano i cosidetti postali rovesciavando i passeggeri che provenivano da Valsantamarina, da Laurana, da Abbazia. Sul molo “Scovazza” si soffermavano le più grandi motonavi che facevano gli scali Adriatici, la “Lorenzo Marcello”, la “Lazzaro Mocenigo” e che trasportavano merci e passeggeri da Pola, da Trieste, da Venezia, da Ancona e Zara. Impressionante il fragore al primo avviamento dei loro motori diesel. Sul molo Ancona c’era la base dei sommergibili. E poi le altre cale che ospitavano le navi dell’Adria, della Sidarma e le navi con più varie bandiere straniere. In fondo il Porto Petroli dove giungevano le petroliere per la ROMSA con il greggio della Romania. Un anno, non ricordo più quale, approdò sul molo lungo una grossa nave nord americana con un carico di rottami di ferro. Ben presto ci si accorse che tra quei rottami vi erano un sacco di cose ancora da utilizzare, e i vagoni ferroviari, che mano a mano venivano riempiti, iniziarono a brulicare di donne alla ricerca di utensili da cucina e dell’intera ragazzaglia cittadina alla frenetica ricerca di pattini a rotelle. Ve ne era un’infinità, la difficoltà maggiore consisteva nel rappaiarli e da questo fatto ne derivavano baratti, vivaci discussioni fra grandi e piccini. Fiume scoprì il pattinaggio a rotelle. A Borgomarina, al bagno Savoia fu creata la prima pista sopra le cabine. In città si elevarono le prime lamentele dei cittadini per il chiasso procurato dalle gare di velocità al mattino presto sull’asfalto del Corso concesso, in un primo tempo, ai pattinatori dal Comune il quale, in seguito dovette ricredersi limitando l’attività ludica alla via Turr , in prossimità del giardinetto di fronte al Teatro dell’Opera “G. Verdi”. Ci furono quelli, e ci fui anch’io tra essi, che estesero i percorsi rotolando giù da Drenova, e poi per via Buonarotti e via Roma fino alla Fiumara. In un caso ci recammo in treno fino a Mattuglie per poi scivolare giù fino a Cantrida. Ci sarà ancora qualcuno che rammenterà quell’epoca favolosa?

Fervore che ebbe ad attenuarsi nei primi anni della guerra. Molti piroscafi dell’Adria e della Sidarma vennero inseriti nella Marina da Guerra e tanti ne vennero affondati dai sommergibili alleati o esplosero nel corso di attacchi aerei. Alcuni, più fortunati, furono bloccati nei porti esteri e taluni si auto affondarono per non farli cadere in mani nemiche. Negli U.S.A. gli equipaggi vennero internati ed avviati al lavoro di taglialegna nelle grandi boscaglie del nord America. Le piccole navi locali, il “Lussino”, il “Laurana”, il “Diadora” proseguirono la loro attività lungo la costa orientale dell’Istria. La più recente “Abbazia”, quella del fresco al mare notturno, fu trasformata in nave ospedale.

E la vita continuò a fervere bene o male, anche per noi fiumani malgrado alcune banchine deserte, non quella però di Riva C. Colombo che conservò, ancora per qualche anno, la frenetica attività portuale. Noi ragazzaglia disertammo però le cataste di legname per le aule scolastiche, per i primi approcci alle ragazzine sul Corso domenicale, dopo la rituale messa delle ore 11 nella Chiesa di San Girolamo. Il 25 luglio del 1943 rovinò tutto, il nostro piccolo mondo fiumano, tutto fiumano, ci crollò addosso, letteralmente. Insieme ai calcinacci e le rovine dei primi bombardamenti aerei. La riva dei bodoli ne rimase immune ma si attenuò la sua rumorosa attività. Non più navi e trabaccoli ma sempre più larghi spazi liberi e gli ormai soli piccoli pescherecci ad attraccare alla banchina. Giunse l’8 settembre, giunsero i reparti tedeschi ad unirsi a quelle poche truppe italiane in grigioverde rimaste. Trascorse un 1944 inquieto, ancora bombardamenti, famiglie di regnicoli che rientravano in patria, scarsezza di viveri. Dalle finestre sul mare seguivamo i combattimenti sul Monte Maggiore tra tedeschi e partigiani, di giorno fumate biancastre tra il verde dei suoi boschi, di notte i bagliori di fiammate, gli incendi su quei versanti che, in tempi assai diversi, avevamo percorso in gioiose gite alpestri. Ad un certo punto comparirono i genieri tedeschi che minarono diverse zone del porto tra le quali proprio riva C. Colombo. Non poterono proseguire la loro opera alla diga Cagni perché fisicamente opposti da componenti della X Mas di Valerio Borghese.

Il 2 maggio 1945, tutte le famiglie residenti negli edifici prospicienti Riva Colombo furono invitati da militari tedeschi al loro sgombero. Con i miei trovammo rifugio, ritenuto sicuro, nella portineria del Palazzo Bacich sul suo ingresso in via Turr. Nel primo pomeriggio Iniziarono le esplosioni delle mine collocate nella banchina, eravamo diverse persone stipate nella portineria, entro ad un vano che ospitava il laboratorio di un calzolaio. Ad una deflagrazione più potente delle precedenti, ci trovammo tutti avvolti in un denso polverio, era crollata una parete divisoria interna che per nostra fortuna scaricò calcinacci e pressione dell’aria nel corridoio d’ingresso anziché nel nostro angusto rifugio. Rimanemmo tutti impolverati ma completamente illesi. I pochi lettori mi vogliano consentire ora una citazione da un mio precedente “Ricordo” del 3 maggio 1945. .

"E li vidi. Una fila di partigiani intruppati che avanzavano sul Corso. Alla testa della colonna, un po’ staccati, un partigiano che suonava un violino, accanto a lui trotterellava una capretta a mo di mascotte, come usano gli scozzesi. Sfilavano silenziosi e cupi, indossando chi cenci rammendati di giacchetti kaki inglesi, chi giacconi grigioverdi, chi magliette strappate che rivelavano bianche braccia, un’accozzaglia ove non si trattasse invece di una truppa ordinata ed al passo con il violino. Non sto inventando, fu così che i partigiani penetrarono a Fiume in quella mattina di maggio. Era la loro una marcia che avrebbe dovuto essere trionfale e si ritrovavano invece in una città ostile. Potevano sentire le imposte delle finestre delle case aprirsi al mattino primaverile e rinchiudersi fragorosamente alla loro vista., sentivano l’indifferenza e l’angoscia riposta dei pochi passanti mattinieri, non vedevano nessuna bandiera del loro paese conquistatore sventolare sugli arcigni caseggiati. "

Fu così che la “Riva dei Bodoli”, la “ Riva Cristoforo Colombo” divennero “Trstchanka Obala”.