Prigionieri

di

Neumann Antonio




Continuando a sfogliare le pagine di “Ricordo di Fiume”, raccolta di foto dall’Associazione Giuliani nel Mondo, tratte da collezioni private di Claudio Fantini, testi a cura di Iginio Ferlan, traduzione in spagnolo di Furio Percovich e con la collaborazione di Marino Micich. Una gradita iniziativa realizzata dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, edita dall’Associazione Giuliani nel Mondo. Foto numero 216 a pagina109, ultima pagina. Lettura “Colonna di prigionieri italiani scortati da partigiani jugoslavi lungo la Fiumara. Molti di loro saranno infoibati a Costrena.” E’ una foto impressionante. Peccato non poter riproporre su questo testo l’immagine. E’ quella di uomini già morti visti di spalle, hanno già tolto loro tutto, non le loro vesti ma tutto il resto, quei pochi beni che possono aver avuto, quel po’ di vigore che in essi era rimasto, ogni tratto del lontano orgoglio, dell’essere uomini, molte le teste già chine, nelle mani non hanno nulla di nulla. Ne un borsello, ne un fagotto da portare con se; forse, nei loro camiciotti militari, qualche foto nascosta dei loro cari. Tra loro, nel mezzo della colonna, un gruppo in tenute scure, forse marinai tedeschi della base motosiluranti del molo Ancona, sembrano anche più eretti nello sfilare accanto a quella barriera spinata che, nella Fiumara, divideva il suolo Italiano dalla stretta banchina jugoslava sul fiume Eneo. Tante teste curve tra quanti in borghese o in sformate divise, come se già avessero dormite sul nudo suolo. E’ una foto un tantino sfuocata cosi come lo è l’animo di chi l’osserva nella sua grigia tristezza.

Cerco di distinguere qualche copricapo rivelatore, intravedo un cappello d’alpino, qualche bustina militare, una certamente borghese. Tra le più vicine all’obiettivo un prigioniero di piccola statura che indossa una mantellina militare, subito davanti a lui un pezzo d’uomo con una corta giacchetta, dei pantaloni alla zuava ed uno strano copricapo, indumenti evidentemente raccattati qua e là per sbarazzarsi della divisa. Più avanti un ufficiale, senza più il cinturone e gradi. Le case in via Fiumare con tutte le finestre sbarrate, talune aperte ma deserte. Sarà stata un’imposizione agli abitanti. Un triste convoglio di uomini, di essere umani che ancora nulla sanno o immaginano del destino che gli attende, la profondità di una foiba, il lato d’una strada di campagna abbattuti da una pistolettata e, nel migliore dei casi, un improvvisato campo di prigionia, la fame, le malattie.

Cosa ci sarà nelle loro menti? La guerra che è finita, la casa, i propri cari, nel loro avvilimento ci sarà la vergogna del proprio stato, la domanda di che cosa mangeranno alla sera, dove dormiranno, ci sarà tanto da camminare? Non sanno che ci sarà tanto da camminare, che il suolo che calpesteranno ha subito anni ed anni di guerriglia, di devastazioni di ruberie, di morti, di stupri di odi secolari; non sanno che in quel paese non c’è più nulla da mangiare nemmeno per gli abitanti, che è tanto se alcuni di loro hanno ancora una casa, un tetto, che nessun nemico ha mai pensato al dopo, alle colonne e colonne di prigionieri, alla necessità di sorvegliarli, di nutrirli, non lo hanno pensato i loro capi, i loro generali, non lo pensano i loro custodi. Ci sono le foibe, i fucili mitragliatori, le pistole per eliminare tanti impicci, perché ora,quella gente già sfinita che si trascina lungo la Fiumara non è che un impiccio, un problema da risolvere alla svelta. Non c’è nemmeno più odio nei loro custodi, anche costoro non vedono l’ora di farla finita con la guerra ed ora questo impiccio adesso che la guerra è finita. Facciamolo quindi ora, sbarazziamoci di loro. Ci sono le foibe, i fucili mitragliatori, le pistole e poi il congedo e via a casa se ne abbiamo ancora una.