Esodo e controesodo

di

Neumann Antonio




Fiume 1947. L’anno dell’esodo e del controesodo, cifre e dati vengono tratti dal libro di Giampaolo Pansa “Prigionieri del silenzio” con sottotitolo "Una storia che la sinistra ha sepolto". Ho continuato a rimuginare sulla presenza a Fiume di un figlio dello scrittore Pierpaolo Pasolini. Si presentò alla redazione della “Voce del Popolo” tanto che all’epoca ne rimanemmo quasi orgogliosi in quei pochi giorni della sua presenza. E’ chiaro che ebbe a trattarsi di un impostore e di nostra ingenuità. In quei giorni, oltre a lui e a Giacomo Scotti giunse anche un presunto ingegnere proveniente, dichiarò, da Monfalcone, si trovò una seggiola ed una tavola anche per lui. Grande fu la mia sorpresa quando ebbi ad incontrarlo qualche mese dopo a Genova ,in via XX Settembre, mentre cercavo un primo imbarco, cercò di evadermi ma lo bloccai, borbottò poche parole che non riuscii ad afferrare, parlò di fretta e si allontanò rapidamente. Passò del tempo ed un giorno, leggendo tra le pagine del “Secolo XIX”, il quotidiano di Genova, scorsi il suo nome in un’imputazione a lui rivolta per un caso di truffa.

Di Pansa non mi piace il modo di scrivere, non si rivolge direttamente al lettore ma gli parla attraverso una specie di corifei così come accadeva nelle tragedie greche. Però è solo nel suo libro che trovo una descrizione degli avvenimenti ai quali appigliarmi. Siamo quindi a Fiume nel 1947. Cito alcuni dati forniti dall’autore: a Fiume, nel 1940 quando era ancora territorio italiano, la città contava 53.000 abitanti, di cui 42.000 italiani e 11.000 croati o sloveni. Nel 1947 nella città rimanevano, per l’effetto degli esodi , 43.000 persone di cui circa 30-35 mila italiani e 8-10.000 slavi. “Fiume era uscita dalla guerra con le ossa rotte, anche per i ventidue bombardamenti anglo-americani.” I Cantieri Navali, il Silurificio Witehead, la raffineria petroli della Romsa, la Compesum e le industrie minori. Del porto rimanevano solo le macerie dopo che i genieri tedeschi avevano fatto saltare per aria. moli e banchine riducendone tutte le attrezzature in macerie e rottami..

I fondali del porto erano stati tutti minati e dalla mia finestra in Riva Colombo ebbi modo di seguire il loro sminamento, le enormi colonne d’acqua che si levavano al cielo in un colossale frastuono. In città numerose le case se non interi rioni rasi al suolo, specie quelli in prossimità dei maggiori impiantii industriali. Edifici sventrati anche in centro città, tra essi singolarmente, anche la sede del Comando Tedesco in via Buonarotti. Fiume era alla fame, rammento che in un’occasione, per quasi tre mesi si tirò avanti con le angurie, l’unico vegetale nel mercati deserti. Mio padre, commerciante in pellami ed articoli per calzolai, girava per i paesi dell’ entroterra barattando con viveri i suoi prodotti. Noi fummo in un certo senso fortunati, mio fratello era dirigente di una ditta italiana che lavorava per conto dell’organizzazione del lavoro Todt, nel suo ufficio tecnico nel palazzo Bacich conservava ancora numerose stecche di sigarette “Macedonia” e scatoloni su scatoloni di quadratini di zucchero destinati ad un personale dispersosi. La nostra “mlecariza” non ci abbandonò in questo frangente fornendoci di tanto in tanto legumi. Tutti si arrangiavano in qualche modo, molti, ancor prima che i tedeschi lasciassero la città, si abbandonarono a saccheggi di cibarie, potei scorgere di persona il via vai attraverso il grande portone d’accesso al Porto Baross, sottraendo dai magazzini sacchi colmi di farina e caricandoli quando non sulle spalle, su carrette di legno improvvisati cui erano state applicate le rotelle di pattini. Affacciati presso il palazzo Modello, io e mio fratello assistemmo all’arrembaggio ad un magazzino colmo anch’esso di sacchi di farina situato sul Corso, tutta gente della Cittavecchia che, con qualsiasi mezzo, anche trascinandosi dietro i sacchi attraversavano lo slargo alla fine del Corso malgrado questo fosse preso di mira dai proiettili dei partigiani attestati sulle colline intorno a Sussak.

Accaddero altri fatti, in quegli anni. Furono stabiliti segreti contatti fra le maestranze del Silurificio e stabilimenti industriali in Svezia. Gli operai della Witehead erano tutti altamente specializzati, posti di fronte a lavori pesanti e faticosi per il ripristino delle strutture aziendali, lasciarono silenziosamente ed accortamente la città lasciando le loro case e relativi arredi e partendo per l’Italia senza quasi bagagli. Giunti nelle località indicate in Svezia trovarono alloggi già approntati per loro; dotati di tutte le comunità, furono perfino invitati a togliersi le scarpe prima di entrare nelle loro nuove abitazioni. Questo non lo dice Pansa ma comparve nei loro primi scritti ai rimasti. Anche parecchi operai dei cantieri navali abbandonarono baracca e burattini per raggiungere Torino e la Fiat, i numerosi marittimi di Fiume si diressero verso Genova nella quale veniva ricomposta la flotta mercantile distrutta nel corso della guerra, raccogliendosi in gran parte, nella cittadina ligure di Busalla. Secondo Pansa che trasse i suoi dati da Ballerini i cittadini fiumani che lasciarono la loro città fino dal 1945 al 1947 furono 10.000 e nel 1950 più di 25.000. Secondo la stessa fonte e una rilevazione statistica del 1958 si rileva che i profughi appartenevano a tutte le categorie sociali, il 45.6 per cento erano operai, Il 24.3 per cento era costituito da casalinghe, anziani, inabili. Il 17.6 erano impiegati e dirigenti. Il 7.7 commercianti o artigiani. E il 5.7 liberi professionisti.

E fu così che ad un certo punto gli sprovveduti invasori si resero conto di avere perso le braccia da lavoro. Si diedero quindi un gran daffare per attirare nella città non più nostra, forze di lavoro esterne attraverso una diffusa propaganda nei cantieri navali di Monfalcone, nei comitati della sinistra italiana e persino all’estero, specie nel Canada. In tale modo ebbe inizio il controesodo Così nella tarda estate del 46 e l’inizio del 47 raggiunsero la Jugoslavia provenendo da Monfalcone e dal basso Friuli 24.000 operai dei Cantieri Navali. Molti vennero inviati ai cantieri navali di Fiume e Pola per raccogliere i cocci. Sempre nel 1947 attraccò al molo Ancona un grosso vecchio transatlantico proveniente dal Canada con qualche centinaio di canadesi che, come i monfalconesi, erano convinti di andare a vivere nel socialismo reale e di contribuire alla costruzione di una vera democrazia proletaria. La nave era tutta imbandierata con un vistoso gran pavese da prua a poppa e striscioni inneggianti a Tito lungo le murate. Mi sembra ricordare che fosse stata ribattezzata “Partizanka”. Ne scesero parecchie persone che poi attesero in banchina lo sbarco dei propri beni, in genere consistenti in grosse automobili americane, qualcuna con rimorchio, intorno a loro torme di ragazzini della “gomila” a guardare estasiati quel rutilare di lucenti macchine. Che fine avranno fatto quei poveretti? I nuovi reggitori del Comune di Fiume si trovarono subito in difficoltà con la sistemazione dei lavoratori sopraggiunti, vi erano, è vero le abitazioni libere per quanti avevano abbandonato la città ma erano anche tanti gli edifici distrutti nel corso dei bombardamenti, e fu così che, a casa mia, fummo costretti ad ospitare una coppia di giovani monfalconesi concedendo loro l’uso di una camera. Erano gran brava gente, educati e gentili, attenti a non recarci alcun disturbo.

Il fatto è che, purtroppo, con la brava gente, giunsero a Fiume anche criminali di ogni genere, impostori, faccendieri, la feccia dell’Italia. Comunisti non graditi dal proprio partito, assassini ex partigiani rei di aver partecipato alla mattanza nel dopoguerra in Emilia e Romagna, ricercati ed evasi dalla giustizia italiana. Camparono per un po’ di tempo aiutandosi tra loro, accettando qualsiasi lavoro precario Vissero comunque un periodo di disagi, in quasi povertà. Molti mutarono la loro identità. In città non ce ne accorgemmo della loro presenza. C’è da dire che tra i disagi si viveva anche noi, fiumani di Fiume.

Il 28 Giugno 1948 il Cominform annunciò ufficialmente l’espulsione del P.C. Jugoslavo per aver perseguito una politica ostile all’Unione Sovietica e per aver violato i principi pratici e teorici del marxismo. Tale fatto significò la scissione tra Tito e Stalin e la conseguente imbarazzante divisione tra i membri dei partiti comunisti satelliti dell’URSS. La politica ostile della Jugoslavia consisteva principalmente nell’impossibilità da parte sua di aderire al programma sovietico di collettivizzare, eliminare i piccoli contadini, contadini che, proprio in Jugoslavia, ebbero ad aiutare in tutti i modi i partigiani sia nell’arruolamento dei giovani nelle formazioni combattenti che con il provvedere alla loro alimentazione e riparo. Nella regione Giulia mentre i comunisti jugoslavi aderirono in massa alle iniziative di Tito, se ne scostarono invece gli operai monfalconesi che, a Fiume, organizzarono uno sciopero e una marcia di protesta proclamando la loro fedeltà al comunismo di Mosca. La scissione venne anche condannata dai comunisti italiani rifugiatisi nel Quarnero che in tal modo vennero a trovarsi tra l’incudine e il martello, qualcuno di loro riuscì a rientrare in Italia ma la maggioranza, insieme agli operai di Monfalcone e di quanti si opposero al mutamento di rotta dei dirigenti jugoslavi, venne considerata, dalle autorità slave, come nemica di Tito e quindi arrestata e poi confinata, per la maggior parte, in una isola arida e brulla, poco più di uno scoglio, chiamata Isola Calva o Nuda in italiano o Goli Otok in slavo. Un vero e proprio “Gulag” dove molti prigionieri morirono per le percosse dei carcerieri o di stenti o malattie. E così si concluse il controesodo.