Iniziazione

di

Neumann Antonio




Esibisco il mio "Foglio di Ricognizione", lo incuriosisce il mio cognome e mi chiede la provenienza. Come sente: "Fiume!" vedo che allarga un ampio sorriso e mi tende la sua mano. Vuol sapere delle vicende mie e dei fiumani. Discorriamo per un bel po' e quindi mi fa: "Ora le preparo il foglio per la visita medica presso il nostro dottore domattina, domani pomeriggio alle 16 ripassi nel mio ufficio che la farò accompagnare a bordo dello "Stromboli", il piroscafo di tipo Liberty al quale è destinato, mi lasci qui il suo Foglio di Ricognizione per sistemare il suo imbarco in Capitaneria.

Esco con il cuore che mi batte a mille dal solenne edificio della “Navigazione Italia” in Piazza Corvetto, a Genova. Ho un imbarco! Ho un imbarco! Mi dirigo rapidamente verso la stazione Principe, ma poi, mentre percorro via Balbi, ripenso alle parole del funzionario dell’ “Italia”: "domattina visita medica presso il nostro dottore" e mi viene in mente che qualche giorno prima avevo udito, non ricordo dove o da chi, che il medico della “Navigazione Italia” era un pignolo tremendo che respingeva con facilità gli applicanti anche per un pur minimo disturbo. Ed io lamentavo un lieve disturbo nella deambulazione esito di una ferita subita in guerra. Il mio stato di esaltazione crollò di colpo. Salii su un treno per Busalla pensando che era meglio calmarmi un po’ e non suscitare delusioni nei miei anziani genitori, ed a me ovviamente. Nella autocorriera che da Busalla mi portava alla vicina Savignone m’ero già pacato,andrà come andrà.

Alla notizia di un mio probabile imbarco, impostai così la faccenda con i miei vecchi, in loro non scorsi alcuna particolare allegrezza, anzi, mio padre mi disse subito: “Avevo sempre sperato di non vedere i miei figli lavorare alle dipendenze di altri”. Povero papà, in guerra aveva perso tutto, i palazzi a Vienna perché era ebreo, i negozi e i beni a Fiume perché erano divenuti proprietà del popolo. Mia mamma, pensosa, prese a prepararmi la valigia, era la prima volta, che cosa doveva portarsi dietro un marinaio? Lei poverina pensava a lenzuola, a cuscini. Penai a convincerla che a bordo avrei trovato tutto. L’unica che dimostrò entusiasmo fu la mia sorellina che si offrì subito di accompagnarmi a Genova il giorno seguente. E il babbo mi porse le lire necessarie per l’acquisto di un pur limitato abbigliamento da allievo ufficiale traendole da un portafoglio che ogni giorno diveniva meno grosso.

Il mattino seguente ascoltai le commosse raccomandazioni dei miei genitori, ero angustiato dal pensiero di dover far ritorno a casa al pomeriggio con un nulla di fatto per non aver superato la visita medica. L’ambulatorio, in un piccolo edificio non distante dal Ponte dei Mille, mi apparve stranamente disadorno con le pareti di un verde scuro e ben pochi armadietti sanitari. Due locali, una piccola anticamera spoglia ed un camerone più vasto con al centro il lettino delle visite, una vecchia scrivania, due seggiole e, appeso su una parete, il quadro con le lettere per l’esame della vista. Il dottore con il camice bianco d’obbligo, un ometto basso di statura con due occhi curiosamente piccoli su un volto abbronzato e quello che reputo sia stato un suo assistente, in abiti dimessi, che forse era solamente un incaricato alle pulizie. Mia sorella rimase nell’anticamera. Io mi diressi verso il dottore che subito mi chiese di denudarmi il torace e di stendermi sul lenzuolo bianco steso sul lettino. Era l’8 di agosto del 1948 ma il locale era bello fresco mentre il medico mi ciancicava di qua e di la sul torace, imponendomi i ritmi del mio respiro, appoggiando sul mio petto il suo orecchio di quà e di là. Seguivo con ansia il suo daffare, mi fece abbassare i pantaloni palpandomi il ventre e visitando pure il mio daffare. Poi mi fece girare sul lettino dedicandosi alla mia schiena, mi sembrava che il tempo non passasse mai, dovetti tossire più volte rispondendo alle sue indicazioni. Infine sembrò dichiararsi soddisfatto poiché mi fece rialzare e mi ordinò di rivestirmi.

Poi dalla scrivania tirò fuori una serie di cartoncini neri su cui erano disposte tante piccole palline colorate, l’esame per vedere se ero affetto da daltonismo, superai agevolmente la prova, poi si avvicino al tabellone delle lettere in fondo allo stanzone, lo accese ed iniziando dalle lettere più grandi, giungemmo fino a quelle più piccole in fondo al riquadro. Internamente mi stavo calmando, e affrontai la prova dell’udito con rapidità. Si diresse quindi verso la scrivania, senza parlare, da un cassetto trasse qualche foglio di carta, mi sembravano formulari e si pose a scrivere. Si prese un bel po’ di tempo, prima di alzarsi e comunicarmi che mi aveva giudicato idoneo. Mi porse la mano, mi augurò una bella navigazione, lo ringraziai debitamente e mi avviai, quasi esultante, verso l’anticamera accompagnato dal suo presunto assistente o tuttofare che fosse. E qui accadde il fattaccio, quella specie di assistente che mi stava accompagnando verso l’anticamera mi afferrò per un braccio e mi fermò di colpo: “Cosa ha a quella gamba?” . Si fermò pure mia sorella che mi stava venendo incontro. Vidi letteralmente il mondo crollarmi addosso, non è solo un modo di dire, mi sentii quasi, quasi venir meno. Ne informò il dottore che mi richiamo indietro presso il lettino, dovetti spiegargli la faccenda della ferita, del bombardamento a Canale d’Isonzo, glielo spiegai balbettando e tremando tutto. Gli dissi anche che con quella gamba avevo partecipato a gare di fondo in sci, di aver praticato l’atletica leggera, di non sentire alcun disturbo nel salire e scendere le scale.

Mi rifece di nuovo stendermi sul lettino, mi disse di togliermi scarpe, calzini e pantaloni. Ritornò a palparmi ma questa volta le gambe, mi rifece girare, mi agitò in tutti i versi i piedi, provò a piegarmi le gambe controllando i movimenti delle ginocchia, mi fece scendere dal lettino mezzo nudo com’ero e mi chiese di camminare da una parte all’altra per il camerone, dovetti fare dei piegamenti sulle ginocchia, infine desistette. “Non c’è niente che le impedisca di fare l’allievo ufficiale di macchina e quindi confermo l’idoneità!”. Suppongo che fu un grosso sospiro di sollievo quello che mi usci dal petto, mi rivestii in fretta ed in fretta trascinai via mia sorella da quel luogo di supplizio. Quel dottore si chiamava Bauer e so che rimase ancora per molti anni a rendere dura la vita agli iniziandi.

Noi, ci affrettammo verso la vicina via Gramsci, dove si allineavano i negozi che provvedevano ai bisogni dei marinai, da quelli da bigiotteria con i soliti ricordi per turisti e marittimi di navi straniere a quelli delle forniture di bordo, fino agli empori per lo smercio di divise, gradi, berretti, insegne ecc. per la vestizione dei marittimi. Fu in uno di questi che acquistai due tenute caki, due tute da lavoro bianche. Poi, essendosi fatto mezzogiorno, ci recammo alla rumorosa mensa dei poveri allestita al piano inferiore del Palazzo Ducale. Ed era lì che si ritrovavano i marittimi giuliani e dalmati in attesa d’imbarco. Comunicai la mia buona fortuna a qualche collega, non avevo i quattrini per celebrare ma ci cacciammo voraci sul cibo fornito gratuitamente che non era poi nemmeno male. Non era la solita mensa per barboni, eravamo ancora nell’immediato dopoguerra ed i frequentatori erano in genere piccoli impiegati, scaricatori del porto, venditori di cianfrusaglie. Poi il tempo di tornare alla stazione per ritirare la valigia, riporvi dentro i recenti acquisti e recarci all’appuntamento a Ponte dei Mille con il barcaiolo che mi avrebbe traghettato al bacino dove si trovava lo “Stromboli”.