Attentato a Togliatti

di

Neumann Antonio




La “STROMBOLI”,la mia prima nave, è ormeggiata precariamente nel porto di Genova in attesa di un nolo. Si tratta di un piroscafo con macchina alternativa di tipo “Liberty” costruita negli Stati Uniti durante la guerra e ceduta all’Italia per rinsanguare la sua marina mercantile ridotta a poche carrette sopravissute agli affondamenti delle altre unità nel corso della guerra 1940-1945. Essa è attraccata con robuste gomene al tratto di bassa banchina accanto al Ponte dei Mille con la poppa rivolta verso Dinegro un popoloso quartiere di Genova, a pochi metri dalla larga via Milano, sopraelevata rispetto alla banchina., mentre la prua guarda al largo ed è ancorata con le catene alle sue grosse ancore prodiere. E’ il 14 luglio del 1948, il giorno dell’attentato a Palmiro Togliatti mentre lascia Montecitorio, l’attentatore è Antonio Pallante uno studente siciliano.

A bordo è mezzogiorno, nella saletta ufficiali siamo tutti intorno al lungo tavolo intenti al pranzo. A capo tavola c’è il comandante, il signor Bocca, piemontese sboccato, ai suoi lati il Direttore di Macchina e il primo ufficiale poi a mano a mano gli altri ufficiali in ordine di grado, in fondo, opposti al comandante, io e l’’allievo ufficiale di coperta, Schiano di Procida. Sono da quasi una settimana a bordo, mi ci sto trovando a mio agio. Mi sono già preso due “arronzate” (stanno per osservazioni o rimproveri), una proprio dal comandante quando, il primo giorno ho preteso di entrare in una conversazione, a pranzo, ed ho appreso da lui che gli allievi non sono autorizzati ad interloquire, debbono prima chiedere il permesso di parlare. Poi giù in sala macchine, la seconda “arrronzata” dal primo ufficiale di macchina, signor Bagolini (il signore davanti al cognome fa parte dell’eticchetta di bordo) per aver afferrato un paranco in aiuto all’operaio meccanico intento ad un operazione, il quale, Bagolini di Genova, mi ha informato che, come ufficiale, dovevo osservare e non intervenire manualmente. Non pensate loro male, erano anziani, abituati a navigare sui transatlantici, sul “Conte di Savoia”, su un “Rex”.

Quel giorno, quel 14 luglio del 1948, a metà pasto, iniziammo a sentire strombettare di auto, vociare violento, proveniente dalla strada. Il comandante intimò al cameriere di andare a vedere cosa stava accadendo, in attesa del suo ritorno il clamore andò aumentando, il vocio si estese anche alla saletta marinai e poi a quella dei sottufficiali, infine giunse ansando il cameriere per annunciare che a Roma vi era stato un attentato a Togliatti e che tutti gli operai delle fabbriche di Sampierdarena accorrevano verso piazza De Ferrarsi, al centro della città. Giunse anche il traghettatore per dichiarare che intendeva andare a rifugiarsi a casa sua e chi doveva recarsi a terra si sbrigasse. Di botto quasi tutti si precipitarono fuori dalla saletta nella quale rimanemmo solo i due ufficiali di guardia in porto, il marconista ed io. Non avremmo potuto sapere che per tre giorni saremmo rimasti bloccati sulla nave solo noi e parte dell’equipaggio. Uscimmo anche noi rimasti dirigendoci verso poppa per seguire ciò che stava accadendo a terra. Scorgemmo una gran folla di gente, molti in tuta di lavoro, qualche bandiera rossa qua e là agitate sopra le teste. Due tram erano fermi proprio alla fermata di Dinegro. Presto li vedemmo trascinati fuori dai binari, rovesciati sulle fiancate e collocati di traverso alla via. C’erano delle automobili posteggiate di fronte alle case, furono sollevate di peso e scaraventate accanto ai tram si da formare una barricata.

Il flusso di gente continuava ai lati degli ingombri, nel frastuono generale non si riusciva a distinguere il significato delle grida irose. In lontananza s’udirono anche degli spari. Poi assistemmo ad uno spettacolo penoso, degli esagitati trascinavano tra loro una guardia di finanza strattonandolo, lo portarono fino a sotto la barriera di delimitazione del porto e lo gettarono oltre, quel disgraziato cadde sulla banchina, un tre, quattro metri di altezza, proprio davanti a noi, ad una cinquantina di metri, ci fu di conforto vedere che si rialzava e zoppicando vistosamente si avviava verso la parte inferiore del Ponte dei Mille. Con il marconista ci avviammo verso la stazione radio, trovammo un’emittente nazionale che parlava dell’attentato e dei tumulti ed immediati scioperi spontanei in molte città italiane, in particolare violenti i moti a Torino, a Genova, a Roma e a Napoli. Più tardi apprendemmo così che a Genova la massa dei dimostranti aveva aggredito i poliziotti, i “celerini” di allora, costringendoli alla fuga, in piazza De Ferrari si erano impossessati perfino di un autoblindo nella quale si trovava un tenente della polizia (il fiumano Kurescka o Prohaska come scrissero in seguito i giornali locali, non rammento bene il cognome esatto) il quale riuscì a stento a sottrarsi alla folla degli assalitori. Il pomeriggio proseguì in tal modo con un gran flusso e riflusso di gente che sembrava impazzita, ogni tanto qualche sparo isolato, le urla scomposte. A bordo non si parlò più di lavoro, con il secondo macchinista scendemmo di tanto in tanto nel locale macchina per controllare che il personale di guardia si alternasse nei turni alle caldaie e agli ausiliari. Il secondo era di Napoli, un po’ avanti negli anni, la moglie in attesa di un bimbo. Non ho ricordi del secondo di coperta. Il marconista, come me, era al suo primo imbarco, non abituato alle navi si muoveva sempre come spaventato. La cena fu frugale e mesta. Dalla radio pervenivano inquietanti notizie su occupazioni di città, di polizia e truppe rinchiuse nelle caserme. L’invito di Togliatti dall’ospedale ai suoi dirigenti di non strafare, di calare i toni della sommossa comunista che tuttavia continuava a mostrarsi attiva. Si parlava di ricchi industriali del nord in fuga verso la Svizzera. Di una generale incertezza della situazione e di un mancato intervento del governo colto di sorpresa dalle violenze.

Una notte un po’ inquieta nella cabina che dividevo con Schiano, ero solo, nella cuccetta inferiore. Sulla nave cabine libere ce ne erano ma per gli allievi era previsto così per una qualche antica tradizione marinara. Al mattino del 15 luglio una sbirciatina fuori. Ancora attiva la barricata, un maggior numero di presenze, più armati e bandiere rosse, più movimento di mezzi per rifocillare gli insorti. Colazione e quindi giù in sala macchine per sistemare ed inserire nella lista opportuna il materiale d’uso imbarcato a Genova. Ma verso le nove ci urlano dall’alto venite su, venite a vedere cosa sta accadendo. Ci arrampichiamo rapidi per le scale e scalette, io con il secondo macchinista si dirigiamo sul ponte più alto acquattandoci sotto l’imbarcazione di salvataggio di destra. Qualcosa sta accadendo nella curva che fa via Cantore emettendosi in via Miliano. Vi sta arrivando una colonna di autocarri grigioverdi E.I. pieni di alpini. Sono seduti su panconi sistemati sui pianali dei mezzi. Immobili e compunti, forse consci del difficile compito che gli attende. Si fermano all’imbocco in via Milano, è una lunga colonna fino a dove riusciamo a vedere nella curva. Li vedono certamente anche gli insorti dietro alle barricate. Si crea uno strano silenzio, sono tutti immobili, i pochi passanti si fermano anch’essi, cosa sta per succedere? Un secco ordine e gli alpini scendono dagli autocarri, diventano gradualmente una massa di uomini, ad un altro secco ordino si pongono di traverso al petto i mitragliatori, un altro ordine ed iniziano a muoversi verso la barricata, non sono inquadrati, rimangono una massa, è il loro un movimento lento ma deciso. E’ davvero strano quel silenzio. Sembra non facciano rumore nemmeno i loro scarponi chiodati mentre avanzano sull’asfalto della via. E c’è silenzio anche sulla barricata, coloro che l’occupano con le pistole strappate ai celerini si guardano tra loro, cosa potranno contro quella massa d’uomini e quei mitragliatori. Alpini, quelli non scherzano e magari sono bevuti. E dalla barricata qualcuno comincia ad allontanarsi verso Ponte dei Mille, dapprima a passi lenti poi sempre più rapidi, altri li seguono, giunti ad una ventina di metri dai tram rovesciati gli alpini si fermano. Si scrutano gli uni agli altri sempre in un silenzio di tomba. Cosa vogliamo fare, sembra si dicano, vogliamo scannarci tra noi? Dalla barricata aumenta il numero di quanti se ne allontanano, poi sono tutti i rivoltosi e tutti allo stesso modo, dapprima a lenti passi e quindi mano a mano più rapidi, fino a che dietro alla barricata non rimane più nessuno.

Gli alpini si aprono un varco tra i rottami dei tram e delle macchine e riprendono la loro lenta marcia in avanti assottigliandosi e prendendo un inquadramento a colonna. Il 16 agosto assumono il controllo dell’intera città di Genova. Il 16 di agosto, sera, allo “Stromboli” arriva l’ordine di partenza. Si va a Poti, nel Mar Nero. nella U.R.S.S. per caricare minerale di ferro alla rinfusa, destinazione Baltimora, U.S.A.