A Fiume tra il 1944 e il 1948

di

Neumann Antonio




Aprile 1944
Lavoro alla Organizzazione Tedesca della TODT e più precisamente nella cava di Martinscize. E' una cava molto estesa che è stata creata estraendo la roccia di una mezza collina che si affacciava sul mare, situata poco prima dei bagni del Park Hotel di Susak. Rappresenta un vero crimine alla natura quella spianata arida a livello del mare alla cui estremità esterna è rimasto un monticello di roccia dal quale i tedeschi si propongono ricavarne un bunker. Per noi, obbligati a lavorarci forzatamente dopo che le autorità del Litorale Adriatico hanno sospeso le nostre domande, nel corso della leva delle classi 23-24 e 25, con le quali si era richiesto l'inserimento nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, non è che sia una brutta collocazione.
Al contrario. Nella cava si scende attraverso una serie di agevoli gradini di una scala di legno sorretta da incastellature di metallo incastrate nella roccia e predisposta dalla parte opposta della cava, al nostro luogo di lavoro. All'inizio della scala sosta un gendarme tedesco che controlla le nostre tessere di lavoratori della Todt e segna le nostre presenze su una specie di quaderno. Dalla base della scala al monticello di roccia vi sarà forse un chilometro di nuda terra per cui il gendarme non ha alcun modo di controllare le nostre mosse. Mentre noi possiamo controllare ogni movimento sulla scala di eventuali ispettori dei lavori. Con noi ci sono due anziani muratori per dirigere le nostre malefatte e, specie dopo inutili tentativi da parte nostra di azionare i grossi martelli pneumatici, si danno da fare per forare la roccia con quei rumorosi arnesi. Noi, a turno, rimuoviamo i pezzi di roccia e agitiamo quasi sempre a vuoto, deboli picconate qua e l'à. Quelli che godono del turno di riposo, si sistemano vicino al mare per fare penzolare i piedi nell'acqua e, nelle belle giornate, per prendere le prime tintarelle primaverili.

A casa, a sera. Dopo un due giri su e giù per il corso. E' sempre affollato di ragazzi e ragazze ma vi manca la vecchia vivacità. Gli incontri di amici non risuonano più di battute più o meno salaci, i commenti su questo o su quello sono più pacati. Esauritesi le ansie suscitate dai manifesti della leva obbligatoria delle classi 1923-24-25 imposte dalle autorità tedesche, gli scambi di prudenti indicazioni su quale unità dell'esercito volgere la propria attenzione, le incertezze degli indecisi, si colgono, nelle conversazioni, le perplessità per un qualche compagno di scuola o amico improvvisamente scomparso dalla circolazione, vi è cautela nelle frasi scambiate tra noi, nei progetti che esponiamo.
Un due mesi fa stavo per scomparire anch'io, una società di navigazione di Susak, la Plovidba mi sembra, m''aveva chiamato per imbarcare da terzo ufficiale di macchina su una delle sue navi superstiti che esercitava un traffico limitato tra le isole dalmate. Ma il mio entusiasmo era subito scemato di fronte alla reazione di mia madre di fronte al pericolo che avrei corso su un Adriatico spadroneggiato da navi, aerei e sottomarini alleati.
Ora invece eravamo tutti sistemati, mio fratello a dirigere l'ufficio della Getto, una società edilizia di Padova che eseguiva i lavori di difesa della costa per conto della organizzazione Todt e che aveva prontamente assunto come segretaria mia sorella ed io legato alla stessa Todt come lavoratore manuale. Ma la sua fede venne in parte scossa quella sera quando intorno alle 22 risuonò forte il campanello del nostro appartamento, Mi recai io stesso ad aprire e rimasi bloccato alla vista del pianerottolo invaso da quella che mi apparve, a tutta prima, una selva di forme in grigioverde. Si trattava di quattro militi con la camicia nera sotto le giubbe e di quattro gendarmi con l'uniforme delle SS.
Chiesi subito loro cosa volessero e la risposta calmo subito i miei timori, cercavano me per non essermi presentato alla chiamata di leva. Risposi che mi ero regolarmente presentato ed esibii il tesserino della Todt che mi qualificava un suo lavoratore. Nel frattempo s'era radunata dietro a me tutta la mia famiglia e d ebbi non poco da fare per rassicurare mia madre che doveva trattarsi di un errore. Quelli mi invitarono a seguirli lo stesso per verificare la mia posizione.
In istrada, avevano un lungo elenco di altri presunti renitenti, iniziai a chiacchierare con i militi tra un'incursione casalinga e l'altra, dovevano coprire le case del centro e della cittavecchia, e trovai che ci si era trovati assieme in più d'una manifestazione della G.I.L.., risultò tra l''altro che parecchi dei ricercati s'erano, nel frattempo, uniti a formazioni della repubblica Sociale Italiana, altri avevano gìà lasciato Fiume con i loro famigliari, qualche altro attendeva l'Università in una qualche città italiana. Esaurita la lista ed i giri, fummo condotti nella palestra della scuola media "E. De Amicis" in piazza Cambieri.
Ci misero, eravamo circa una trentina di ragazzi, più o meno allineati, su un lato della palestra , mentre al centro di questa v'era un tavolo contornato da ufficiali e persone in borghese che consultavano elenchi di fogli. I militi della mia scorta, nel contempo s'eravamo fraternizzati, mi portarono immediatamente su un lato del tavolo protestando che su di me c'era un errore grossolano perché io ero un fascista (nella G.I.L. avevo raggiunto il grado di primo cadetto premarinaro) come loro ed esibendo il mio tesserino Todt. Fui scrutato da parecchi occhi e poi quelli in borghese si diedero da fare ad esaminare le liste presenti sul tavolo, tardarono un po' per poi esclamare: "Ah, eccolo qui", si trattava di una lista presentata in comune dalla Capitaneria di Porto di quanti avevamo fatto domanda di arruolamento nella X Flottiglia Mas..
Spiegai che ero stato in seguito convocato dalla Capitaneria di Porto per la visita medica con l'intesa che di lì a qualche giorno sarei stato inviato a Novara. Poiché il loro avviso non si vedeva, mi ci recai di persona dove fui informato dell'opposizione delle autorità Tedesche e di presentarmi invece presso la scuola elementare S. Nicolò (?) accanto al Duomo. Cosa che feci e dove fui assegnato alla cava di Martinsgniza. Quella specie di commissione a tutta prima rimase un po' perplessa. "E' ora cosa facciamo con costui?" "Lo rimandiamo a casa" suggerì un altro. "Ma c'è il coprifuoco!! "Lo facciamo accompagnare da uno degli SS. E così mi trovai a percorrere le vie deserte della città accanto ad un taciturno gendarme delle SS. Mi sembrava tutto inverosimile, Il suono dei passi pesanti del poliziotto accanto a me, le nostre ombre proiettate sull'asfalto dalla luna piena, intorno a noi il silenzio di una città addormentata. E infine casa mia. Allora alloggiavamo al numero 6 di riva C. Colombo (Trchanska Obala broj 6), chiamata casa Spehar, la distingueva una larga terrazza sopra il portone d'entrata. Subito accanto il Bar Milano con ingressi sulla riva e su via Stefano Turr. Di fronte il Palazzo Baccich. L'appartamento da noi abitato era al terzo piano, sulla stessa colonna del Bar.
Il proprietario dell'edificio, l'avvocato Spehar, in quel periodo, era il Sindaco di Fiume e Susak. Un Sindaco croato talmente abile nel destreggiarsi tra autorità italiane, tedesche e partigiani, che, alla definitiva presa di possesso della città dei partigiani non fu per nulla osteggiato e lasciato a riprendere tranquillamente l'attività di avvocato a Sussak. Le sue relazione con mio padre erano estremamente amichevoli e di vecchia data. Ho la certezza che fu il suo diretto intervento a salvare la vita della mia famiglia.
Tutto accadde in un mattino della Domenica delle Palme dello stesso aprile 1944, forse una decina di giorni dopo la mia avventura con la leva e la Todt. Intorno alle 9 si fermò, davanti alla nostra casa, una lunga automobile nera e ne usci un piccolo capitano delle SS con vivaci cappelli rossi sotto la seria visiera.. Commise il suo primo errore quando si fermò sul pianerottolo del primo piano suonando il campanello dell'abitazione dell'avvocato Spehar, la loro vecchia servetta gli aperse la porta e fu a lei che chiese a quale piano si trovasse la famiglia Neumann. Accanto alla servetta si materializzò immediatamente la moglie dell'avvocato. Si aprì quasi subito un vivace battibecco tra la signora e il capitano, la prima voleva conoscere i motivi perchè desiderasse proprio i Neumann e lui che, il più garbatamente possibile, cercava di informarla che si trattava di un colloquio di carattere informativo e perciò doveva portare tutta la famiglia a Susak, nella sede della polizia SS.
Tutti a Fiume sapevano bene che chi entrava in quella sede, difficilmente ne usciva e quindi si accentuò la gazzarra, uscirono i dirimpettai unendosi alla vivace discussione e, sul pianerottolo superiore, comparirono il comandante di marina Sennen Raichich più che ottantenne e la figlia Miranda nota pittrice che non tardarono ad unirsi alle proteste. Si affacciò anche mio padre che volle sapere il perché di quel finimondo, e che, quando ne fu informato, invitò tutti a calmarsi e lasciar salire il capitano delle SS i cui cappelli rossi erano già del tutto scompigliati sotto alla visiera del berretto postosi di traverso. Lo fece accomodare a casa nostra e gli chiese spiegazioni circa la sua richiesta. Ancora tutto ansante, il capitano lo informò che lui e tutti i suoi famigliari dovevano recarsi alla caserma a Susak per delle informazioni senza portare nulla seco.
Così indossammo gli indumenti più adatti per uscire di casa e ci si avviò giù per le scale insieme al capitano che aveva approfittato della nostra vestizione per sistemarsi divisa e berretto ed assumere il consueto atteggiamento marziale che gli imponeva il grado. Andò tutto bene al pianerottolo dei Raicich che si limitarono ad insultarlo ed invitandolo a vergognarsi del suo agire. Proseguimmo verso il pianerottolo del primo piano dove torreggiava ancora la signora Spehar, dietro a lei, tutta bellicosa, c'era la servetta che nel frattempo s'era munita d'una scopa. Ci precedeva il capitano seguito da mio padre e da mia madre già in lacrime, poi io con mio fratello e mia sorella. Fù un' azione assai confusa, La moglie dell'avvocato, appena ebbe a tiro l'ufficiale, gli saltò addosso cercando di cacciargli le unghie sulla faccia mentre la servetta, anziana o no, gli menava colpi di scopa alle gambe. S'interpose mio padre cercando di calmare la Spehar e riuscendo, con l'aiuto di mio fratello a farla rientrare a casa insieme alla servetta. Rivolse l'invito a ritirarsi anche ai dirimpettai e in tal modo ci fu possibile raggiungere l'automobile, mentre accanto al posto di guida, il capitano cercava di rimettersi a posto, per la seconda volta, divisa e berretto mentre mio padre cercava di scusarsi, in tedesco, dell'increscioso accaduto. Ora, dopo quel bailamme, eravamo tutti silenzioso tranne mia madre che continuava a singhiozzare..
Attraversammo il ponte che univa Fiume a Susak e prendemmo la strada che si allunga presso il mare. Giungemmo alla caserma,un edificio recente con un intonaco rossastro sulle pareti esterne. Passammo il famoso portone e il capitano ci pilotò al primo piano. Fece entrare e sedere entro un ufficio mio padre e mia madre ed invitò a me, mio fratello e mia sorella ad entrare in una stanza disadorna opposta a quella del suo ufficio. C'era una grande finestra aperta al bel sole della giornata, Alla nostra destra si scorgeva la strana piccola piramide eretta proprio all'intersezione di due strade.
Non parlammo tra noi. Io mi chiedevo dove ci avrebbero condotto. Avrei avuto una qualche possibilità di filarmene. E i miei. Eravamo li da circa due ore quando, verso le undici, suonarono le sirene dell'allarme, Dopo un attimo si aprì la porta della stanza e comparvero, sorridenti, il capitano delle SS che, con le mani sulle spalle di mio padre e di mia madre, ci disse "Avviatevi in fretta al rifugio aereo che e qui vicino, strinse la mano di mio padre, baciò quella di mia madre e noi fummo liberi di scendere ed uscire da quel portone che tante volte si era rinchiuso per sempre dietro agli infelici che lo avevano varcato prima di noi.
Cosa aggiungere a questo punto. Mio padre aveva avuto un contenzioso per la liquidazione di un suo anziano dipendente i cui figli avevano giudicato insufficiente l'ammontare della liquidazione stessa. Lo avevano minacciato più volte, processati avevano perso la causa per cui s'erano inventato una sua collusione con i partigiani . Ovviamente la signora Spehar, al termine della bagarre, aveva contattato immediatamente il marito Sindaco e questi aveva preso subito contatto con le autorità tedesche garantendo l' estraneità di mio padre agli addebiti fattigli.
Fiume, verso la fine dell'aprile del 1945..
Ho esaurito il periodo di convalescenza, ho esaurito la licenza premio del comando di Salcano (Gorizia) del XIV Battaglione Italiano Costiero da fortezza, ho esaurito la licenza generosamente prodigatami dal Comando Tedesco a Fiume (postumi di ferite), Volente o nolente debbo rientrare a Gorizia, al mattino di non so quale più giorno (facilmente rintracciabile come quello della beffa di Grattoni) mi reco presso la stazione delle autocorriere da dove parte la "Freccia Fiume-Trieste in 90 minuti" se rammento bene la presuntuosa indicazione che soleva giganteggiare sulle sue fiancate. La stazione (dirimpetto alla Gelateria "Fontanella" in piazza Elena) è ancora chiusa, mi sorprendo considerata l'orario di partenza. Tutte le serrande della stazione rimangono chiuse. Chiedo informazioni ad altri viaggiatori in attesa ma nessuno sa darmi una risposta. Trascorre un' ora e finalmente compare un magazziniere della ditta il quale ci chiarisce che l'azienda Gattoni, dopo avere sapientemente organizzato gli orari dei suoi servizi, ha fatto in modo che tutte le sue autocorriere, compreso il carro attrezzi e la bella segretaria, si siano trovati, ad un dato momento, fuori dal Litorale Adriatico e quindi dalle grinfie dei tedeschi in procinto di E a me, visto e considerato che la linea ferroviaria tra Fiume e Trieste era ormai interrotta, non rimase che tornarmene a casa con grande gioia di mia madre. E non mi rimase che attendere gli eventi che non tardarono a manifestarsi. I partigiani, che stavano circondando Fiume, iniziarono uno sporadico bombardamento con gli obici collocati probabilmente a Tersatto, i loro colpi coprivano una zona limitata in prossimità delle rive del porto e degli edifici edificati intorno al Teatro Verdi, Era sufficiente transitare a ridosso delle case sul lato mare per evitarli. Però qualcuno finì pure in una cucina di un abitazione entrandovi bello dritto dalla finestra. Per fortuna, in quel momento, la madre e la figlia che occupavano l'appartamento (i Giorgini nostri carissimi amici) si trovavano in un'altra stanza.
In quei giorni, i tedeschi stavano minando freneticamente, le rive e le banchine del porto, il ponte Baros e tratti del molo lungo. Da casa mia assistemmo anche ad una sparatoria tra borghesi che sottraevano materiali e sacchi di farina dai magazzini di Porto Baros e tedeschi che cercavano di evitare gli inevitabili saccheggi. Suppongo che sparassero in aria perché una piccola folla continuò ugualmente a darsi da fare, anzi, ad un certo punto arrivo gente addirittura con carretti a mano su cui trasportare il maltolto mentre i militari tedeschi si rimettevano i fucili a tracolla volgendo la schiena all'inconsueto traffico.
Il mattino seguente tutti gli abitanti delle case prospicienti alle rive furono costrette ad abbandonarle di fretta e di furia. I tedeschi si accingevano a far brillare le mine per rendere inservibili le banchine. Con la mia famiglia ci rifugiammo in un vano sotto l'androne in via Turr del palazzo Baccich., All' ingresso era posta una specie di guardiola dove normalmente lavorava il portiere-calzolaio. Eravamo in parecchie persone raggruppate in quel vano, in timorosa attesa degli scoppi che iniziarono fragorosamente mentre le pareti intorno a noi oscillavano come se qualcuno le percuotesse dall'esterno. Ad una deflagrazione ancor più intensa, il vano si riempi di povere biancastra che ci sottraeva la vista e ci faceva lacrimare gli occhi. Poi la nube prese ad attenuarsi e, attraverso una vasta apertura dagli orli frastagliati, ci giunse la vista del corridoio d'ingresso al palazzo. Era franata, per nostra fortuna all'esterno, la parete posteriore dello sgabuzzino del portiere.
Con mio fratello, in quei giorni incerti, ci si recava spesso a chiacchierare nel rifugio collocato nell'ingresso del Palazzo Modello (l'attuale sede, del Circolo Italiano. Il richiamo era costituito da due ragazze, ovviamente. Affacciandosi all'androne, era possibile scorgere l'inizio del corso e un tratto della piazzetta terminale. Da Tersatto, i partigiani prendevano d'infilata con il tiro di armi automatiche proprio quello spazio aperto. Ad un certo punto, vi fu qualcuno che riusci a penetrare nel grande magazzino di varie provviste collocato sul lato a mare del corso, a noi quindi invisibile. Ma ben presto divennero ben visibili le persone che dalla vicina cittavecchia si misero a fare la spola tra il magazzino per poi infilarsi rapidamente, con il loro carico, nella stradina dove c'era il panificio Chiopris, incuranti delle striscioline d'asfalto sollevate dai proiettili in arrivo. Anche in questo caso presto comparvero i carretti a mano. Era un gioco molto pericoloso ma terminò presto per fortuna senza che nessuno venisse colpito.
Passò un po' di tempo e l'androne fu invaso da una torma di soldati tedeschi che, ad uno ad uno attraversarono di corsa il punto scoperto sotto il tiro delle armi partigiane. Ci riuscirono tutti tranne il più giovane che esitava a percorrere quel breve tratto, fece diverse volte per avviarsi per poi tornare indietro e porsi al riparo del Palazzo Modello. Si trattava di un ragazzo molto giovane, forse uno di quei diciassettenni che i tedeschi immisero nel calderone della guerra negli ultimi giorni. Lo decise un brusco ordine del sottufficiale che comandava il gruppo, ormai al salvo , defilato dall'angolo d'una casa, noi si soffriva per il suo evidente spavento a quel passo e trattenemmo tutti il respiro quando si avviò. Ci sembrò d'udire quasi, il colpo che lo stese a terra. Doveva essere morto all'istante perché non si mosse più. Un corpo steso immobile sulla via.
Quella notte si dormi tutti poco a motivo delle esplosioni che si susseguirono tutto intorno alla città. I tedeschi facevano esplodere tutte le loro munizioni insieme a quegli equipaggiamenti troppo ingombranti per portarseli dietro nella fuga. L'alba sorse in un mondo stranamente silenzioso, solo i passi affrettati di quanti si recavano al lavoro, mancava il pesante, cadenzato passo delle pattuglie che normalmente si davano il cambio all'ingresso del Porto Baros.. Più tardi uscii anch'io immergendomi in quella strana atmosfera. Voltando all'altezza dell'edificio delle Poste fui colpito da un suono stridulo.
E li vidi, Una fila di partigiani intruppati che avanzavano sul Corso. Alla testa della colonna , un po' staccati, un partigiano che suonava un violino, accanto a lui trotterellava una capretta a mo di mascotte, come usano gli scozzesi. Sfilavano silenziosi e cupi, indossando chi cenci rammendati di giacchetti kaki inglesi, chi giacconi grigioverdi, chi magliette strappate che rivelavano bianche braccia, un'accozzaglia ove non si trattasse invece di una truppa ordinata ed al passo con il violino. Non sto inventando, fu così che i partigiani penetrarono a Fiume in quella mattina di maggio.

Era la loro una marcia che avrebbe dovuto essere trionfale e si ritrovavano invece in una città ostile. Potevano sentire le imposte delle finestre delle case aprirsi al mattino primaverile e rinchiudersi fragorosamente alla loro vista, sentivano l’indifferenza e l’agoscia riposta dei pochi passanti mattinieri, non vedevano nessuna bandiera del loro paese conquistatore sventolare sugli arcigni caseggiati. Mi affrettai verso la mia destinazione, nei giorni precedenti avevo indossato la divisa grigioverde del XIV° Battaglione Italiano Costiero da Fortezza passeggiando in città, ora mi recavo in casa di amici per trascorrere quelle prime ore di occupazione slava per evitare ogni eventuale ricerca o fermo. La casa in questione si trovava proprio all’inizio dell’allora Viale Camicie Nere, già Corso Dea, se ben ricordo. Con un mio amico ci affacciammo alla finestra, Sempre pochi i passanti e un silenzio rotto solo dal transito dei tram per Borgomarina. Poi, saranno state le dieci o giù di lì, udimmo un vocio e strida femminili giungere dal centro e vedemmo avanzare due ragazze letteralmente avvolte in due lunghe bandiere jugoslave e agitanti bandierine anch’esse ovviamente blu-bianche-rosse. Erano seguite da una piccola folla festante. Come le scorgemmo passare sotto la nostra finestra scoppiammo in una risata, si trattava di due sorelle, le Colonnello, che abitavano in Fiumara sopra la drogheria Benco e avevano un fratello spilungone. Proprio le Colonnello il cui padre proveniva dal lontano Abruzzo, regnicole patocche quindi. C’erano, a Fiume degli altri Colonnello, i figli Ricchetto, Lucia e Adelina amici e compagni di scuola del nostro gruppetto., abitanti prima in riva Marco Polo e poi in una villa a Borgomarina Io e il mio amico decidemmo allora di uscire e di recarci al Corso. Ora il viale si era animato con le grida di “Zivio Tito, Zivio Tito” . Il Corso era movimentato da groppuscoli che agitavano le bandiere slave e che palesemente erano scese in città dal contado. e qualche militare partigiano in impeccabile divisa color olivo e le bustine tipiche con la stella rossa in fronte e, a sorpresa, dalla presenza del tenente Polonio nella uniforme della fanteria italiana e da qualche guardia di finanza in divisa. Loro intendimento era, come mi disse in seguito il fratello minore di Polonio, di mantenere l’ordine pubblico nel momento che la città rimaneva sguarnita tra l’uscita dei tedeschi e l’entrata dei partigiani. Nel pomeriggio erano già scomparsi e di loro nessuno ne seppe più nulla. Nei giorni e nelle settimane seguenti la vita, a Fiume, divenne difficile per la mancanza di cibo, mercati e negozi del tutto vuoti. Qualcosa filtrava attraverso le “mlekarize” e la campagna, rammento che per un mese fu possibile reperire sul mercato solamente angurie. Nell’ufficio di mio fratello erano rimasti pacchi di zucchero in quadretti e casse di sigarette “Macedonia” già destinati al lavoratori della Organizzazione tedesca della “Todt” così in casa si supplementava il vitto con lo zucchero. Più che preziose le “Macedonia”. Il pane rimase sempre quello con la disgustosa farina dei tedeschi. Mio padre, riaperto il negozio, faceva di frequente i giri della provincia con i rimanenti prodotti del suo commercio facendosi pagare esclusivamente in generi alimentari dai clienti.

Nel giugno del 1945, se non vado errato come di consueto, qualcuno del comando slavo a Fiume ebbe l’idea di indire un bando di leva per il richiamo alle armi delle classi 1923-24 e 25 nell’esercito jugoslavo. Fu un provvedimento che ebbe a suscitare reazioni diverse, suppongo anche dal Governo italiano a Roma. Fiume faceva pur ancora parte dello Stato Italiano. Fu applicato con manica larga in quanto era sufficiente suonare uno strumento musicale in una qualche orchestrina per essere riformato. Io sbattei di qua e di là il mio piede ferito che divenne bello gonfio per cui la commissione medica mi giudicò immediatamente invalido. Non furono in molti, in tal modo, ad essere richiamati. Si sottomisero ad una marcia a piedi fino a Gorizia per poi rientrare alla spicciolata a Fiume dove vennero rilasciati dal servizio. Più tardi, verso settembre, la Capitaneria di Porto, divenuta LucKa Capitania, convocò i marittimi che risultavano iscritti nei suoi elenchi, fummo informati che, a Bari, avremmo avuto la possibilità di imbarcare su navi americane cedute alla Jugoslavia, una dozzina di noi diplomati dell’Istituto Nautico accettammo la proposta e un bel mattino partimmo su un peschereccio per raggiungere prima Zara e poi Spalato da dove saremmo stati trasportati a Bari. A Zara giungemmo nel tardo pomeriggio, il peschereccio ci abbandonò su una riva deserta con alle sue spalle un muraglione di pietre. Per sgranchirci le gambe e dare un occhiata in giro ci incamminammo verso quella che sembrava la città ma dovunque ci girassimo non trovavamo che ammassi di pietra grigia e cumuli su cumuli di macerie. Assolutamente prive di esseri umani. Una visione spettrale anche per l’approssimarsi della sera. Oggi la storia di Zara è ben nota: su suggerimento delle autorità partigiane dell’epoca circa la presunta presenza in città di forti contingenti di truppe e comandi tedeschi, aerei inglesi, in un pomeriggio primaverile di una domenica, con le rive affollate da zaratini a passeggio lungo il mare, uomini, donne, madri, bambini e, su una vicina spiaggia ragazzi che facevano le prime nuotate della stagione, scaricarono del tutto improvvisamente tonnellate di bombe che rasero al suolo la città ed annullarono in un colpo solo, tutta la sua etnia italiana. Talvolta mi accade di pensare al fatto che oggi si fa un gran parlare di foibe ma raramente si accenna a Zara, alle più di 500 persone perite nei vile bombardamento.

Ci sistemammo alla meglio coricandoci ai piedi del muraglione in attesa di un vaporino che, al mattino, ci avrebbe trasportato a Spalato. A notte inoltrata fui destato da grida di allarme dei miei compagni d’avventura. Eravamo circondati da grosse e ben pasciute mantecane (pantigane) alcune delle quali avevano tentato di avvicinarci fino ad annusare i vestiti. Fu quasi una lotta epica, noi con le spalle al muraglione per allontanare , con colpi di giacchetta, quegli orrendi animali ormai probabilmente sazi dei corpi delle vittime rimaste insepolte sotto alle macerie. Al mattino, come dio volle, giunse puntuale il vaporino costiero con un lungo fumaiolo che ci portò piuttosto rapidamente a Spalato. Cosa sorprendente, trovammo ad attenderci un giovane ufficiale della Mornariza che ci accompagnò in un edificio palesemente già adibito a scuola con nelle aule castelli doppi in ferro e brande. Per il cibo ci fu indicato un ristorantino lì vicino. Si trattò infine di una vacanza gratuita. Dopo che per tre settimane, come apparve, non ebbe a crearsi nessun accordo di cessione di navi di tipo “Liberty” agli jugoslavi, dalla “Lucka Capitania” fummo informati che, per trovare una nave disposta ad imbarcarci, si doveva cominciare ad andare noi a lavorare come operai nei Cantieri di Spalato.

Tutti e dodici ci disperdemmo alla spicciolata ognuno per se onde ritrovare la via di casa. Io incontrai, gironzolando per il porto, un mio amico della “mularia” di via De Amicis che si trovava a Spalato per ritirare un Jeeppone inglese e portarlo a Fiume. Fu ben felice di darmi un passaggio anche perché non conosceva la strada e sapeva che si trovava in brutte condizioni di percorrenza, nelle emergenze avrei potuto aiutarlo. Gli fu consegnata, con la debita documentazione, il pesante mezzo e ci avviammo verso il nord nella nostra folle, giovanile impudenza. Se fece presto ad impadronirsi della guida, non fu altrettanto facile adeguarsi a quella che era più una carrareccia che una strada di grande comunicazione. Il suo percorso si snodava sempre a mezzacosta tra le vette del Velebit e gli abissi che si aprivano sotto di noi sulle scoscese coste dell’Adriatico. Ci si trovava, a volte, su tratti franati dove le ruote esterne sembravano sfiorare il vuoto, oppure capitava di trovare in mezzo al cammino il cratere d’una qualche esplosione riempito alla meglio di breccime per cui il jeeppone combinava strane, grottesche contorsioni, o meglio ancora, allorché dopo aver accelerato su un pezzo di strada dritta e liscia, questa svaniva di colpo ad una curva per indicare che il percorso proseguiva su due assi di legno sospese sul baratro per cui bisognava spostarle per farvi aderire le gomme delle ruote. Ad un certo punto dell’ infelice percorso, un gruppo di contadini e contadine ci chiese un passaggio sul retro del furgone che concedemmo loro, Sennonché, poco più avanti ci si parò davanti un contadino che conduceva, legati alla cavezza, due muli rallentando così il nostro cammino. L’uomo riuscì a bloccare un mulo contro la parete della montagna in modo da concederci un esiguo passaggio ma l’altra bestia, prese a trottare sul davanti del nostro mezzo senza accennare a scostarsi. Il mio amico mi disse: - Guarda cosa faccio adesso! – e diede una sterzata , con il volante, sul fianco della povera bestia che in tal modo venne scaraventata giù per il burrone. E la stessa cosa cercò di fare la nostra ruota interessata alla botta che restò appesa sul vuoto. Fu dapprima un gran convincere la gente rimasta sul cassone a non precipitarsi fuori da esso ma a rimanersene tranquilla a far da contrappeso mentre io davo indicazioni allo sprovveduto autista per trarsi lentamente indietro. Inutile aggiungere che i nostri sbigottiti ospiti lasciarono il mezzo di fretta e di furia mentre noi ci eclissammo in velocità per evitare di affrontare il contadino che con il mulo superstite cercava di rincorrerci. Quella notte dormii sul pavimento in ferro del retro mentre il mio amico riposava sul divanetto della guida. L’indomani giungemmo a Fiume.

Fu poco dopo che incontrai Tich ed altri sportivi fiumani con i quali avemmo ad intavolare un discorso sulla ripresa delle attività sportive in città (in precedenza ero stato segretario della sezione pallacanestro e atletica leggera), fatte presenti le mie idee, condivise da molti, sull’intento di raggiungere ad un certo momento l’Italia, riaprimmo la sede del C.O.N.I. Provinciale che divenne Fiscultura ed ognuno riprese le vecchie seggiole cercando di ritessere insieme le fila dell’organizzazione sportiva.. Verso ottobre, siamo sempre nel 1945, con Bruno Seberich, Adriano Paulovatze, Ireneo Iscra, Sergio, il figlio di Bruno, e altri, ci recammo in ricognizione sul Monte Nevoso per vedere cosa si poteva tirar fuori dalle rovine del Rifugio del C.A.I. alla conca. Scartammo subito il Rifugio Guido Rey perché ridotto a poche mura bruciacchiate. Rivolgemmo invece la nostra attenzione a un baraccamento posto poco distante con muri esterni intatti e tetto da sistemare. Facendo il va e vieni con un autocarro offerto dal Silurificio per portarci su i materiali, in un mese demmo nuova linfa al manufatto; tra noi, una decina di ragazzi e una ragazza, la cuoca, passando le notti ancora tiepide dormendo su letti di aghi di pino sotto coperte militari. A me era affidato il lavoro più umile, quello di mantenere sempre costante il flusso di cemento per quanti operavano nelle altre strutture. Completato il tetto, pensammo agli interni costruendo con assi di legno i doppi castelli da fungere per letti. Laborioso fu il trasporto da Silurificio alla conca del Nevoso di un’enorme e pesante cucina a legna, sottratta in qualche caserma evidentemente, la quale, malgrado tutte le assicurazioni con cavi ai lati del cassone del camion, non smise mai di dibattersi nelle famose novantanove curve della strada da Fiume a Clana. Tornato a valle alla fine dei lavori (la custodia del nuovo rifugio fù affidata a Bruno Seberich insieme a sua moglie Anita e ai figli) ripresi le mie funzioni di dirigente sportivo e arbitro di pallacanestro (insieme a Sepich, Silvani, Millevoi e Rainò). Contemporaneamente venivo avvicinato da elementi della Lega Italiana di Trieste e posto in contatto con qualche altro amico per operare a Fiume una specie di attività eversiva che si concretizzava nella distribuzione entro i portoni delle case di manifestini pro Fiume Italiana, celarci tra le folle che seguivano una processione per invitare a gridare tra i Viva il Vescovo anche i Viva l’Italia, Viva Fiume Italiana. Osammo anche, in una sola occasione, traendo profitto dai numerosi black-out di quei tempi, di lanciare contro i negozi al corso che iniziavano ad esibire insegne in slavo, delle bottigliette di inchiostro ma che ricaddero, facendo un gran chiasso, sulle loro serrande. Considerammo a lungo l’idea di appiccare il fuoco all’arco in legno posto in Piazza Elena, un recipiente di benzina lasciato colare all’inizio dell’arco, un cerino casualmente acceso e poi la fuga, ma per dove? C’era, accanto al Bar Piva, quel vicolo che portava alla segheria Scavezzi e che poi proseguiva fino a sbucare in via De Amicis, accanto alla scuola Brentari ma esso poteva divenire agevolmente il classico “cul de sac”. Rimasero quindi, le nostre, solo piccole velleità.

Fu sempre di quei tempi che Renato Tich ebbe a parlarmi di un posto come correttore di bozze alla “Voce del Popolo” . Ebbi un intervista con il suo direttore di allora, Dott. Erio Franchi, e la sera stessa iniziai il mio nuovo lavoro, alla “Voce”. Del periodo trascorso alla “Voce del Popolo” ho già scritto in precedenza ed esso copre il 1946 e gran parte del 1947. Da correttore di bozze passai a redattore di cronaca e sportivo e quindi impaginatore. Mio fratello e mia sorella si stabilirono definitivamente in Italia, io rimasi accanto ai miei genitori in attesa di completare le pratiche per l’opzione in Italia. Il 18 aprile 1948 attendemmo con ansia i risultati delle elezioni nel nostro paese. Avevamo già ottenutl gli atti di opzione, numero due quello di mio padre, numero tre quello di mia madre, numero quattro il mio. Ci volevano proprio fuori dai piedi. Se in Italia avessero vinto i comunisti sarebbe stato un bel disastro per noi. Invece vinsero i democristiani. E noi, ancora e sempre “malegnasa mularia”, percorremmo in lungo e in largo il corso vistosamente leggendo, rovesciata, la testata del giorno precedente dell’ ”UNITA” che faceva: OGGI VINCIAMO! In caratteri cubitali.

Qualche mattino dopo io, mio padre e mia madre sostavamo sotto la terrazza di casa Spehar, in riva C. Colombo 6, insieme a tutti gli altri inquilini. Baci, abbracci, lacrime, tante lacrime. Ed io non sentivo nulla, ero come svuotato. Mi vergognavo di non provare nulla di fronte alla evidente commozione dei miei che, alla loro età lasciavano la casa, la città nella quale avevano vissuto la loro vita, le amicizie, gli avvenimenti più care. Il taxi che ci doveva portare a Gorizia intanto attendeva con le poche valigie già riposte nel vano portabagagli. Aiutai i miei a sistemarsi sui sedili posteriori e poi mi posi davanti, accanto ad un taciturno autista. Proseguirono ancora un po le strette di mani attraverso i finestrini, gli scambi di fazzoletti ormai umidi ed infine la partenza lungo le vie ancora deserte di passanti. Ecco subito Piazza Elena con il suo odiato arco ancora eretto a beffarmi, Viale delle Camicie Nere, con i lucidi binari del tram sul selciato e gli ombrosi alberi al lato, ecco il caffè Budai ed i suoi punch alla menta, l’ospedale, il Giardino pubblico, Viale Italia, le Caserme, ìl Siluruficio, i Cantieri Navali con gli scali vuoti e poi Borgomarina con le ultime case di Fiume ed ora, ora di fronte la sagoma del Monte Maggiore e tutte le cime, dal basso Lisina fino all’Alpe Grande, fino al Rifugio Andreani, ora tutto mi ritornava insieme nella mente, il Rifugio Egisto Rossi con i suoi campetti di neve, le selve dell’Alpe Grande, la brulla vetta e la vecchia torretta in vetta al monte Maggiore, gli amici, le comitive, le risate e le cantate insieme con il piano di spesso legno del tavolone e le chiazze di rosso vino su di esso, il tintinnio dei bicchieri brindati, si, fu allora, in quel momento che a me dapprima mi fece sentire come un nodo alla gola e poi le lacrime infine, liberatorie, non vedrai più quei posti, non sarai più parte dei loro sentieri, era un rimprovero il loro ed ancora un rimprovero fu la vista, sopra Preluca del mare, del mio Quarnero, e laggiù in fondo, difficile da discernere, Valsantamarina, le vacanze, le prime ragazzine, le prime veleggiate, la spiaggia di S. Giovanni, Segnavaz, le salite a Moschiena su, su per tanti gradini sulla collina verde. Ora più che un rimprovero era un richiamo, quel richiamo è sempre rimasto dentro di me. Inascoltato.

Il viaggio prosegui in silenzio verso Gorizia. L’autista lo rispettava guidando attento su strade che non conoscevo, vedevo passare soprattutto grandi selve verdi ai lati, è tutto quello che ricordo, grandi selve verdi ai lati e il duro, arcigno profilo dell’autista taciturno al volante. Poi, d’un tratto, l’orizzonte si allargò e fummo su una strada dritta e piana, una curva ed ecco che l’autista si alza quasi di scatto dal sedile, lascia il volante ed errompe in un grido: “ECCOLA LA NOSTRA BELLA BANDIERA , ECCO LA BANDIERA ITALIANA”. Avevamo davanti agli occhi il colle con il Castello di Gorizia sul quale un enorme bandiera italiana sventolava nel cielo azzurrissimo.