Mio padre

di

Neumann Antonio




Mio padre faceva Ignazio di nome. Era nato nel 1863 in quel di Mura Szombat, una cittadina nei pressi di Maribor, in Ungheria. Suo padre, mio nonno paterno faceva Marco di nome ed era un agiato commerciante in granaglie. Mia nonna paterna era una Heumer di Graz (Austria), generò tredici figli ma ne sopravissero alla nascita, oltre a mio padre, un fratello e quattro sorelle . Mura Szombat è stata inglobata alla fine di questa guerra nella avida Croazia divenendo Murska Sobota. Mio padre frequentò le scuole ungheresi dopodiché mio nonno Marco lo avviò al lavoro dapprima come garzone poi come operaio in una conceria del luogo. Quando venne il suo turno prestò il suo dovere militando negli "Honved", la famosa, per quei tempi, milizia ungherese (ricordo una sua foto con gli alamari sulla giubba). In seguitò mio nonno, suppongo, lo dotò di una qualche modesta somma e mio padre raggiunse Fiume dove aprì una piccola impresa di concia e lavorazione di tomaie in via della Fiumara (un tempo affacciata al confine con della ex Iugoslavia). Nel primo novecento l'impresa arrivò a contare 23 dipendenti. A lui si unirono, ad un certo momento il fratello (ponendo questi fine ad una vita scapigliata di "dandy" d'epoca a Budapest, a Vienna, a Parigi, a Madrid dove si sposò con una spagnola) ed un cognato che fu posto a dirigere una succursale dell'azienda nella zona franca dei Magazzini Generali. Dopo questi fatti la ditta divenne quella dei "Fratelli Neumann". Nel periodo citato mio padre ebbe ad acquistare, a Vienna, due palazzi divisi da un giardino circondante una chiesetta. Comperò anche dei terreni nei dintorni di Fiume. La prima guerra mondiale, però, significò un tracollo per l' impresa avendo investito essi grossi capitali nell'acquisto di buoni di guerra in valuta austro-ungarica e la conseguente caduta del loro valore, dovette quindi ridurre la sua attività gradualmente rinunciando alla conciatura e quindi alla confezione delle tomaie per condurre infine un negozio di vendita di pellami e accessori per calzolai, all’ingrosso e al minuto sempre nella vecchia sede di via della Fiumara ed un altro negozio nella zona del porto franco gestito dal marito di una sua sorella.. Di tutto il suo personale rimase solo un commesso alle vendite, Franz, un austriaco. Nel 1923 ebbe a subire le non richieste attenzioni di alcuni squadristi superstiti dell'impresa fiumana di D'Annunzio rimasti a Fiume e per liberarsene dovette dotarsi della tessera del fascio anche se per il solo 1923. In seguito ce la fece vedere più volte sfottendo noi, suoi figli, quando ci vedeva nella divisa di avanguardista o balilla o piccola italiana.

Intorno al 1919 mio padre si unì con mia madre Vincenza, divorziata e nata ad Arbe, figlia di un falegname di Bescanova nell'isola di Segna, che faceva di cognome Grandich (immagino derivante da Grandi veneto) e Maria Scalamera originaria di Bersezio, in Istria (Bersezio fu antica roccaforte greca). Dall' unione di mio padre e di mia madre nascemmo nel 1920 mio fratello Mario (deceduto a Santa Fe, New Mexico, U.S.A. nel 1996), io e mia sorella Nives che vive tuttora a Riverside, in California. Nel 1928 mio padre e mia madre sistemarono la loro e la nostra posizione unendosi in regolare matrimonio civile. Tornando a mio padre Ignazio, egli visse tranquillamente gli anni del fascismo, lavorando nel suo negozio, allargando la sfera dei suoi commerci all'Austria, all'Ungheria, alla Cecoslovacchia parlando correntemente tutte quelle lingue, seguendo, con un certo distacco i nostri studi, passando spesso le sue serate in un vecchio caffè, mi sembra ricordare si chiamasse Caffè Risorgimento che poi chiuse e in suo luogo subentrò un azienda di autocorriere e spedizioni Grattoni, giocando interminabili tresette e briscola e fumando i suoi preferiti sigari toscani, quelli con la fascetta tricolore. Mia madre glielo impediva a casa. Amava farci delle sorprese a noi bambini, talvolta, a sera, ci portava delle leccornie acquistate in una rosticceria; d'estate, nei mesi delle nostre vacanze a Valsantamarina (ameno villaggio di pescatori sulla sponda orientale dell’Istria) arrivava il sabato pomeriggio con il vaporino scaricando, letteralmente, un bidone frigorifero di gelato acquistato alla gelateria Fontanella in Piazza Elena, del bidone si prendeva poi cura uno degli ormeggiatori e uomini di fatica che ce lo portava fino a casa, quasi affacciata al porticciolo. Mio padre ritornava poi a Fiume, al mattino presto del lunedì, con lo "Jadera", un vaporetto misto merci e passeggeri. Alla domenica non ci seguiva sulla spiaggia, al mare, ma riposava sulle seggiole dell' unico bar nella piazzetta, all'ombra dei gelsi e nella frescura dell'alito di vento che proveniva dal canalone che collegava Valsantamarina, oggi Draga di Moschiena, alle prime falde del Monte Maggiore. AI pomeriggio non disdegnava dì unirsi ai pescatori nella trattoria del porto per una qualche partita di tresette o di "rovescin" o si limitava a seguire le partite in corso ai rozzi tavoli di legno del fumoso locale.

Nel triste settembre del 1943 si unì a noi a Draga avendogli i tedeschi imposto di chiudere il negozio. Giunse anche mio fratello dal Monginevro, sottotenente di artiglieria pesante di prima nomina, dopo un viaggio avventuroso. lo feci il partigiano per due giorni, poi mi riuscì a raggiungere Abbazia a piedi e quindi Fiume dove mi attendevano gli ultimi esami all'Istituto Nautico. Qualche giorno più tardi, mio padre noleggiò un autocarro su cui furono caricate le nostre masserizie estive e dove prese posto il resto della mia famiglia per il ritorno in Riva Cristoforo Colombo in quel di Fiume. L'estate del 1943 fu l'ultima nostra vacanza. L'8 settembre cancellò la nostra spensierata giovinezza, da lì a due mesi, sui pendii del Monte Maggiore si accesero, a sera, i fuochi, le vampate dei combattimenti tra tedeschi e partigiani. Li guardavamo dalle nostre finestre nella casa in "riva dei bodoli", che poi sarebbe divenuta "Trschanka Obala Broj sest" . E mio padre che diceva: "Ma cosa fanno lassù!". Lassù cadeva in quei giorni, tra i primi partigiani, un mio compagno „di giochi di Draga di Moschiena, Anton Rossovich, oggi la stradina principale del paese è intitolata a lui, nei giorni di pioggia ci si univa tutti nella falegnamería di suo padre a rovistare tra trucioli e pezzetti di legno per costruire sagome di piccole navi. Ero già adulto quanto tornai per l'unica volta a Draga, a scorgere così all'improvviso il suo nome su quella targa piansi, e si che ci bisticciavamo ad ogni occasione. Tante, tante cose finirono in quella fine d'estate, per mio padre, per la nostra famiglia, per tutti i fiumani.

Mio padre si diede da fare per riaprire il negozio, suppongo si sia rivolto al vice-prefetto di Sussak (la cittadina croata divisa da Fiume da un corso d’acqua, l'avvocato Spehar, voluto dai tedeschi, nostro padrone di casa e amico di famiglia, ottenendo il consenso delle autorità. Così lui e mio zio ripresero possesso del vecchio locale con le pareti annerite e cosparse di ragnatele che da anni lo distinguevano e il casotto di legno su un angolo dove era collocato l'ufficio, con una larga scrivania parzialmente occupata da annosi registri contabili ricoperti di polvere, poi la bottiglietta dell'inchiostro e penne e pennini spuntati. Nei cassetti i, fatturazioni ingiallite, carte carbone arricciate e, su quelli inferiori, altri registri rosicchiati dai topi. I vetri che consentivano la vista dei pesanti banconi nel negozio vero e proprio da anni avrebbero avuto bisogno di una sciacquatura robusta. Gli avevo più volte chiesto perché non mutasse quell'arredamento così particolare nella nostra epoca ma mi rispondeva sempre che i calzolai, suoi avventori, si sarebbero trovati a disagio in un ambiente più moderno. II vecchio Franz, l'unico commesso, non c'era pìù a saltare sul bancone più grosso per arrotolare convenientemente i gropponi di cuoio per i clienti. All'occasione lo faceva mio padre malgrado i suoi 81 anni. Tutto l'ambiente era permeato dall' odore forte del cuoio, del pellame e, fino a qualche hanno fa lo risentivo con piacere, allorché mi accadeva di entrare nel negozietto di qualche calzolaio.

Comunque, in quei mesi di fine anno 1943 nella nostra famiglia, così come in quella di parecchie altre, non vi era più la serenità di un tempo. Se per la gente comune la presenza dei militari tedeschi in città nulla poteva suggerire se non forse un maggior senso di sicurezza contro l'avvicinarsi delle bande titine, ben diversa era la posizione degli ebrei, risparmiati fino allora dalle blande leggi antirazziste del governo italiano. La creazione di un Litorale Adriatico, il cosiddetto Kunsterland sanciva di fatto il distacco dell'Italia nord orientale dal territorio nazionale e la direzione del Litorale Adriatico veniva affidata al Gauletier della Carinzia , Dr. Friedrich Tainer. Mio padre era ebreo, non di quelli osservanti ma ogni sera, prima di coricarsi intonava ad alta voce I"'Adonai" facendoci spesso osservare che lui, ebreo, recitava ogni sera, mentre noi, cristiani, non pregavamo mai, comunque, aggiungeva che, nella sua preghiera serale chiedevo a Dio di preservare la salute anche a noi.. In casa mia, durante la Pasqua ebraica, "II Passover; entrava il "mazes", quella specie di pane che gli antichi ebrei consumarono nella traversata del deserto fuggendo dall'Egitto. Veniva distribuito da una congregazione di rabbini sotto forma di farina e di una specie di cialde. La farina l'usava mia madre impastandola a mò di gnocchi, squisiti nel brodo, le cialde ce le mangiavamo noi, erano molto sottili e si sfaldavano facilmente. I rabbini furono i primi a scomparire, non erano molti e li si incontrava spesso in istrada, sempre frettolosi nei loro abiti neri, la barba curata sul mento ed una specie di zucchetto nero sul capo.

Non era solo nostro padre per cui noi si temeva ma, nel corso degli anni, lo avevano raggiunto a Fiume, oltre al fratello, anche tre sorelle, una di queste con marito e figlio, tutti ebrei. Due sorelle erano gravemente ammalate di Alzheimer e bisognose di costanti attenzioni. Mio padre ebbe sentore che in un convento di frati, a Parma, venivano ospitati, opportunamente celati alle autorità, gli ebrei; vi si recò mio fratello ma i frati, all'udire delle malate, obbiettarono che loro non erano in grado di accudirle e che avrebbero certamente disturbato, con la loro presenza, la comunità. Quei mesi tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944 furono per ciò trascorsi in non poca ansietà anche perché alla sparizione dei rabbini seguivano altre improvvise scomparse di giudei a cauta distanza delle une alle altre per non creare fermenti nella popolazione. Mio padre confidava molto nell'amicizia del già citato avvocato Spehar, sindaco di Sussak, il quale riuscì effettivamente ad infilare mio fratello e mia sorella nell'ufficio della Ditta Getto di Padova che eseguiva i lavori di costruzione, per conto della Todt, di casematte, fortini ed altre costruzioni di carattere bellico a Fiume. Rimanevo io e l'avvocato ebbe a convocarmi un giorno al Municipio di Sussak dove esaminò la mia situazione. Di lì ad una settimana mi pervenne una richiesta per imbarcare in qualità di terzo ufficiale di macchina, su un piroscafo della Plovidba (non ricordo più il nome della nave, seppi solo che navigò ancora per sette mesi prima di essere silurata mentre navigava tra le isole della Dalmazia), mia madre si oppose decisamente al mio imbarco. Tuttavia, quasi opportunamente, a marzo fu emesso il bando di leva per le classi del 1923, 1924 e 1925. Io optai per il servizio nella X Flottiglia Mas passando regolare visita medica presso la Capitaneria di Porto di Fiume insieme ai miei coetanei del Nautico e rimanendo in attesa di poter raggiungere Novara, sede dell'arruolamento. Ma in un primo tempo, considerato lo scarso successo delle domande per lavorare alla Todt, le autorità tedesche si opposero al nostro impiego nelle forze armate italiane costringendoci al lavoro nella organizzazione del lavoro Todt.

Fu forse verso la fine di marzo che, una sera, vi fu una scampanellata alla porta di casa, fu mia madre ad aprire arretrando muta per lo sgomento, mi affacciai anch'io e vidi il pianerottolo invaso da militari, ben quattro militi con la camicia nera e altri quattro soldati delle SS. Fecero il mio nome ed io emisi un sospiro di sollievo, non era quindi per mio padre. lo me la sarei cavata comunque, pensai. Mi chiesero per quale motivo non avessi risposto alla chiamata di leva. Esibii il mio tesserino di lavoratore della Todt ma mi chiesero di seguirli. Portato in una palestra a conclusione di una vera e propria retata, fui il primo ad essere rilasciato facendo ritorno a casa nel cuore della notte.

Pochi giorni dopo, rientrando in una scuola, base dell’Organizzazione Tedesca del Lavoro per deporre i nostri attrezzi di lavoro, fummo radunati in gruppo alla presenza di due sottufficiali dell'esercito italiano che trassero dalle sacche una lista di nomi, c'era pure il mio ed invitati a recarci a casa per prendere quanto ci abbisognava portare seco per prestare servizio militare in una unità italiana di fanteria a Gorizia. Ci intimarono di fare in fretta la bisogna e di ritornare subito dopo alla scuola per dormirci la notte e prendere, al mattino presto il treno per la città isontina. AI congedo da casa mio padre mi diede un forte abbraccio esortandomi di far bene il mio dovere come lui aveva fatto negli "honved, mia madre mi trattenne un attimo sulla porta di casa per guardarmi, senza aggiungere più nulla.

Concluso il periodo di addestramento nella vecchia Caserma del 9°Alpini di S. Andrea di Gorizia raggiunsi la mia prima destinazione, la stazione ferroviaria di Cormons, ai pìedi delle colline del Collio. Verso settembre si verificò un attacco di caccia bombardieri al deposito del treno armato germanico collocato accanto alla stazione con i suoi carri officina, vagoni alloggio del personale tedesco e vagoni merci contenenti le munizioni per i suoi lunghi cannoni. In quell'occasione, con la mia incoscienza giovanile, compì un intervento che ebbe a procurarmi alcuni elogi e una rara licenza premio a casa per dieci giorni. In attesa della concessione fui trasferito ad una nostra postazione sul ponte ferroviario di ludrio un fiume già linea di demarcazione del confine dell'Italia dall' Austria-Ungheria nel 1914. Mio padre mi scriveva regolarmente ogni settimana dandomi le notizie di casa, in fondo ad ogni lettera vi era il breve saluto di mia madre la cui conoscenza della lingua italiana non le consentiva lunghe digressioni.. Fu in questo periodo che la nostra 2° Compagnia subì le prime perdite, falciato dall'esplosione di una bomba collocata sui binari della Gorizia - Udine morì il fiumano Faldich e furono feriti piuttosto seriamente Cuttini di Fiume e Cuccagna di Trieste.

Poi per me arrivò la "Bassa di viaggio" per la licenza a Fiume ove giunsi un pomeriggio di metà settembre 1944. Volai per le scale, abitavamo al terzo piano, e mia madre mi abbracciò baciandomi e piangendo, pensai fosse per la gioia di rivedermi ma, sempre tra le lacrime mi trascinò nella sala da pranzo obbligandomi a sedere. Pensai subito a mio padre ma si affrettò ad assicurarmi dicendomi che stava bene e che si trovava in cucina. Era accaduto quanto si temeva da tempo. I tedeschi della polizia SS si erano recati, la settimana precedente, al mattino, al negozio dove mio padre non c'era perché convocato a Sussak dall' avvocato Spehar. Avevano ingiunto a mio zio di uscirne, abbassato e sigillato la saracinesca di apertura, e poi, con mio zio tra loro in un grande macchina s'erano recati in via De Amicis dove avevano prelevato le mie zie e mio cugino, infine erano giunti ai Magazzini generali dove s'impossessarono del cognato di mio padre dopo aver chiuso e sigillato la succursale della ditta. Terminato il suo resoconto mia madre mi esortò a recarmi in cucina a salutare mio padre e raccomandandomi di non parlargli di ciò che era accaduto. In cucina, lui stava leggendo la "Vedetta d'Italia", il quotidiana di Fiume, ma si alzò dal tavolo e mi venne incontro abbracciandomi a se, stemmo un attimo così poi si mise a chiedermi di come stavo, di come mi ritrovavo nella vita militare, gli risposi che andava tutto bene, che ero nel Friuli dove c'era ogni ben di Dio da mangiare e vino buono del Collio. Mi guardò ancora e poi disse: "Scusami", abbandonando in fretta 1a cucina. Mia madre mi disse che faceva sempre così, gli si parlava poi ad un tratto scappava via a rifugiarsi nella camera da letto su cui si abbatteva scosso dal pianto. Poi gli finiva e rientrava senza dire nulla con gli occhi arrossati. L'unico guaio era che non voleva uscire quando suonava l'allarme aereo, non c'era verso, così era costretta anche lei a rimanergli accanto. Uscimmo tutti insieme due giorni dopo, ci recammo al rifugio scavato dentro alla roccia con ingresso da un lato del Municipio. Era il più vicino alla nostra casa. Rimanemmo li dentro qualche ora senza parlarci molto e consumando ciò che mia madre aveva preparato per lo scarno pranzo. E così accadde anche nei giorni seguenti della mia licenza, diminuirono anche le scappate di mio padre in camera da letto. E iniziò a parlare con noi più di frequente interessandosi a me, a mio fratello e mia sorella anche se appariva sempre come un po' frastornato.

La mia licenza ebbe termine ma, a Ponte ludrio, trovai gente di un altro reparto, v'era rimasto per attendermi solo l` Allievo Ufficiale Loi che aveva instaurato una tenera amicizia con una delle figlie del mugnaio, del mugnaio rimanemmo ospiti a cena dormendo poi su sacconi ripieni di foglie di pannocchie (gli "stulzi") nella larga soffitta. II giorno dopo raggiungemmo insieme prima il Comando del Battaglione a Salcano (oggi "Nuova Gorica") e poi, in treno, la tetra Canale d'Isonzo dove fui assegnato alla postazione della stazione ferroviaria che pullulava di troppi militi confinari in camicia nera che ammazzavano il tempo attendendo la fine della guerra per raggiungere la Sardegna e per i quali I'Isonzo non rappresentava altro che un fiume qualsiasi mentre per noi era un baluardo contro gli slaví. Erano talmente infingardi che, in un occasione, si rifiutarono di uscire in pattuglia lungo la ferrovia Canale-Salona. solo perché nevicava e soffiava la bora. II capitano tedesco ufficiale di collegamento presso la 2° Compagnia che aveva alla stazione il suo alloggio, si incammino da solo lungo i binari, Era un ufficiale anziano e vederlo allontanarsi così suscitò in me un senso di ribellione e perciò mi posai sulle spalle il fucile mitragliatore e mi incamminai dietro a lui; esitanti, anche i nostri ragazzi presero a seguirmi ed infine, riluttanti si mossero anche i militi. Però la vicenda si diffuse e il giorno dopo il tenente Pedrazzini, milanese, comandante della Compagnia, mi richiese alla Villa Comando, con lui. Questo fatto però ebbe, qualche mese più tardi, a salvarmi probabilmente, la ghirba per rimanere in termini militari.

Si giunse a Natale, il 27 dicembre venni ferito in un attacco aereo al ponte della tratta ferroviaria Canale­Klagenfurth. Fu anche un Natale triste per i 'miei a Fiume. Qualche giorno prima della festività mia madre, tornando a casa con la spesa, scivolò sulla neve e ghiaccio del marciapiede e cadendo si fratturò una gamba venendo trasferita all'ospedale civile di Abbazia Quando poi i miei ebbero notizia del mio ferimento e ricovero all'ospedale militare tedesco di Gorizia, mentre mio padre ebbe a conservare una certa serenità, mia sorella ebbe un collasso nervoso e mi scrisse una lettera lamentando che tutta la nostra famiglia era sottoposta ad immeritata malasorte. Fu un altro momento difficile per tutti noi, io trassi consolazione delle lettere pacate che mi giungevano da mio padre e da quelle che mi arrivavano da Como dalla mia prima fidanzata. Ad ogni buon modo io prima mi feci trasferire da Gorizia all'ospedale militare italiano di Abbazia, per essere più vicino ai miei, poi, quando fui dimesso, rientrai a piedi a Fiume nel corso di un allarme aereo ritrovando sempre a casa, tutto malgrado, mio padre sempre restio ai rifugi antiaerei, mio fratello e mia sorella se la battevano sulla collina sopra Sussak. Consumata la licenza per convalescenza feci ritorno al comando del mio battaglione a Salcano dove, in pratica, venni accodato ad un altro gruppo di feriti dimessi dagli ospedali militari ed adibiti a servizi leggeri. Un giorno ebbi ad incontrare, nei pressi del comando, il vecchio capitano tedesco di cui avevo seguito l’esempio a Canale d’Isonzo che intercedette per me con il comandante Soravito per cui ottenni quindi altri dieci giorni di licenza premio al termine dei quali mi presentai al comando tedesco a Fiume per la “bassa” di rientro a Gorizia. Qui ottenni un’ennesima licenza premio, immagino sempre su intervento dell’ufficiale di collegamento di Salcano, licenza che ebbe a trovarmi a casa mia proprio al finire delle operazioni belliche.

Mio padre, nel suo negozio che aveva nuovamente potuto riaprire, dove poteva trovare il cuoio per riparare le suole quando fabbriche dì scarpe non c'erano. Dove poteva trovare i chiodini per unire le tomaie alle suole? Dove trovare le lastre di gomma para per risuolare le ciabatte o le "lopanche" delle "mlecarizze" (voci slave per ciabatte e contadine dell’interno che portavano il latte in città), il filo sevato per legarle insieme, già, dove? In qualche modo, bene o male ci si riusciva, c'erano gli spedizionieri che sotto i carichi di prima necessità sugli autocarri, infilavano le piccole richieste di chi cercava di riaggiustare il proprio commercio. Ma a quali prezzi, il costo, il trasporto, i viaggi a Trieste per pagare le fatture, con i quattrini buoni, non con i dinari. Mio padre lo fece fin che ne ebbe forza, lo feci anch'io finché tutto non diventò troppo pericoloso. Per noi, per tutti. E così i fiumani si decisero ad abbandonare la loro città, i loro beni, gli anni della loro giovinezza per cercare nuove risorse per il loro spirito, per la loro intraprendenza. E lasciarono Fiume. Lo facemmo anche noi. Mia madre cucì una striscia di tela che aderisse al torso di mio padre e sotto al quale celare i pochi soldi rimasti sfuggendo alle visite di frontiera. E alla casa rossa, la famosa casa rossa di Gorizia, passammo la nuova frontiera. lo e mia madre fummo perquisiti, mio padre per fortuna no. Qualcuno, al confine ebbe rispettò per la sua età.

Sto per terminare questo ricordo non facile, a volte doloroso, di un epoca. Mio padre la concluse nella ospitale Liguria, a Savignone, Un paesino tipicamente ligure posto al di là dello spartiacque appenninico, con le curiose casette dall'I'intonaco delle pareti esterne dipinto a mò di bassorilievi ornamentali su finestre, porte e supporti dei tetti tutti rigorosamente ricoperti da piastre di lavagna nera. Mio padre rivisse in quei luoghi che forse gli ricordavano il suo paese natale, l'ungherese Mura Szombat ed i monti intorno a Maribor. Trascorreva le sue giornate passeggiando per le straducole del posto, soffermandosi a lungo nello sgabuzzubi dell’unico ciabattino del paese per riassaporare il sentore del cuoio, discutendo con lui delle qualità dei cuoi e delle tomaie, riempiendo l'angusto locale con il fumo dei loro sigari. Nei pomeriggi, dopo il pisolino pomeridiano faceva delle lunghe camminate tra i prati ed i boschi delle circostanti colline per poi sedersi sul bancone di pietra davanti all'ingresso della chiesa in lunghe conversazioni con il parroco del paese, ultranovantenne come mio padre. Non riuscì però a ricuperare i suoi beni a Vienna ne quelli a Fiume, dapprima confiscati dai tedeschi e poi dai comunisti slavi. Era la curiosità di Savignone e nostra quella di che cosa potevano chiacchierare tanto quei due vecchi. Qualcosa trapelò quando il parroco convocò nella parrocchia mio fratello e mia sorella per dire loro che mio padre si crucciava molto del fatto che lui, ebreo, non potesse essere sepolto accanto alla moglie chiedendo loro se non ci sembrasse il caso di convincerlo ad assumere la religione cattolica. Essi gli risposero che fargli prendere una decisione simile, a quell'età, avrebbe senz'altro turbato la sua finalmente assunta serenità d'animo. lo durante una sosta dai miei viaggi confermai la loro decisione. La confermò anche il vecchio prete che disse. Era mio dovere dì parroco suggerirlo.

Non fui presente nè alla morte di mia madre nè a quella, qualche anno dopo, di mio padre. Lo appresi quasi fortuitamente. Ebbi a vederla per l’ultima volta affacciata ad una finestra della casetta di Savignone quando cercava di individuarmi mentre ci passavo davanti nella corriera per Genova per un nuovo imbarco. A bordo, per molto tempo esitai ad indossare le camicie e quegli indumenti che lei aveva preparato ancora una volta per la mia partenza, su di essi vedevo ancora le sue abili, amorose mani intente a stirarli e riporli, preferivo accarezzarli di tanto in tanto pensando a lei. Mio padre morì un pomeriggio nel sonno sul suo suo letto, aveva novantatre anni ed una lunga, tormentata vita dietro a se. Ebbe tuttavia il tempo di apprendere, dalla mia giovane moglie, che era in attesa di un figlio, ne fu confortato e dalla notizia come dalla nostra presenza. II vecchio amico, il più che novantenne parroco di Savignone, celebrò per lui il funerale di rito cattolico e lo seppellì accanto a mia madre con il rito cattolico. Al funerale e al rito partecipò tutta la popolazione del paesino ligure, sindaco incluso. Mio padre era riuscito ad accattivarsi la stima e l’amore di tutti.