In esilio

di

Neumann Antonio




Cari tutti,

mi trovo in un povero, squallido ambiente, ai lati divisori di cartone a separare la cucina da quello che suppongo sarà la camera da letto. L’abituro è collegato a decine di consimili abitazioni ad un unico piano lungo la rete di protezione per l’accesso al porto di Callao, nel Perù. Lima, la capitale, dista venti minuti di autocorriera dallo sbocco al Pacifico. Odori di cibi stantii orientali, il sentore dei fumi di carbonella e, quello inequivocabile di urina. Dall’esterno il vocio se non il chiasso o le cantilene di cinesi, giapponesi e spagnoli ed il rumore dei camion che, sulle banchine del porto, transitano verso l’una e l’altra nave.

Lei è inginocchiata davanti a me con le braccia strette intorno alle mie ginocchia: “La ne porti via con lei, la ne porti via de qua, per l’amor de dio, la ne porti indietro a casa, alla nostra casa a Fiume, noi quà stemo morendo, ma lo guardi, lo guardi come che xe ridoto el mio marito, lo guardi!”. Lui, uno dei figli di Colazio, quelli che avevano la macelleria subito accanto al negozio di giocattoli della “Bella ebrea”, sta seduto immobile su una sgangherata seggiola, magrissimo, con le costole che gli sporgono dalla sbrindellata canottiera, il volto scavato su una barba incolta e gli occhi affondati nelle orbite nerastre. Lo ricordavo da una delle volte precedenti, a Callao, dove l’”Opequon” , una petroliera di bandiera panamense sostava alle volte, per poi proseguire il suo viaggio scaricado parte del suo carico di nafta venezuelana lungo le coste del Cile, giù fino a Iquique, fino a Valparaiso, fino a San Antonio dove terminava la Cordigliera delle Ande. Era un ragazzone bello, robusto con delle braccia grosse ed un torace voluminoso.

Lei poi, risollevandosi in piedi: “La vede, non gavemo niente de niente, qualcosa ne da ogni tanto el consolado e l’ambasciata a Lima, coossa podemo offrirle, la guardi cosa ne resta. In Italia, co semo andadi via de Fiume in ne ga impignido la testa con sto Perù, esser richi come un Perù, se dixeva una volta. Al principio si, come semo arivadi i ne ga da una bela casa, lui i lo ga messo a lavorar in una fabbrica anche se non el gaveva un mestier come se deve, ma el scovava, el netava, el aiutava a portar pesi, a scaricar i camion ma dopo un ano el ga comincià a montarsela testa, a dir che a lavorar in porto,a Callao, a far el fachin se guadagnava molto de più cussì el ga lassà el lavor in fabbrica e semo vegnudi qua, ma qua lei la vede, se gente de tute le raze che fa i facchini per un toco de pan. Alora ghe se vegnuda la mania dele miniere de argento dove se ingruma i soldi per tera, i ghe diceva,, el xe andado su, in montagna, i dixe a quattromila metri de alteza. El ga scomincià a sentirse mal ancora prima de arivar in zima e dopo quatro mesi el me xe torna sò come lo vede, più morto che vivo. Gavemo in casa più medicine che de magnar. La prego, la prego, la ne porti via de qua, la parli con el suo comandante che el ne fazi sta grazia de dio.”

Cosa potevo risponderle. Ero passato da poco da allievo Ufficiale a terzo. Contavo meno di zero nella scala gerarchica di bordo. Le suggerii di recarsi al consolato, all’Ambasciata a Lima, ad insistere ed insistere ancora, a farsi accompagnare a Callao da qualche loro impiegato e fargli vedere con i suoi occhi la loro miseria, la loro situazione.

Erano esuli, erano fiumani, potevano essere istriani, zaratini, polesani. Potevano essere come quegli immigrati inviati in Australia senza conoscere una parola della lingua inglese, inviati all’interno desertico di quelle regioni. Senza consolati, senza ambasciate.

Mentre litighiamo tra noi tra liste ed associazione, tra beni ereditati o danni pretesi, pensiamoci un po’ anche alle loro sofferenze patite, pensate ai vostri padri, ai vostri nonni e, ormai, ai vostri bisnonni.