Cinque anni di scuola media

di

Neumann Antonio




Istituto Tecnico Commerciale “Leonardo da Vinci”. Sezione A della prima classe mista della Scuola Media Inferiore, inizio dell’anno scolastico 1935-1936. Classe mista significa che ci stanno insieme maschietti e femminucce, queste ultime riempiono la fila di banchi accanto alle finestre, in mezzo e accanto alla parete interna ci sono le file di banchi degli ometti. Ci sentiamo strani, non dobbiamo indossare più i grembiuli neri delle elementari ma pantaloncini e camiciole borghesi, tra noi vi è qualcuno impacciato che sfodera un ingombrante fiocco al collo. Il professore, capoclasse, che ci insegnerà l’italiano, il latino, la storia e la geografia passa lo sguardo tra una fila di banchi e le altre. Non posso rivelarne il nome nemmeno oggi, era molto bravo ma aveva alcune peculiarità sue particolari. Non fraintendete, aveva una moglie e due figli, tutto normale da questo lato. Ma gli piaceva bere, soleva ricattare i genitori più facoltosi degli alunni in modo discreto, senza creare scandalo ed infine aveva il vezzo, specie nei mesi invernali, di aiutare le ragazzine ad indossare i propri paltò, ma questo ovviamente nel terzo o quarto anno, in modo da sfiorarne i seni immaturi.

Fiume, a quei tempi, era una città tranquilla ed aperta. A certe piccole manifestazioni non ci si faceva caso, si tolleravano magari con un sorriso di compatimento. Lo sguardo che il capoclasse lancia ai suoi alunni in quel primo giorno di scuola, è soddisfatto, è riuscito ad accalappiarsi i figlioletti di tre ricchi commercianti ebrei e di un industriale, gli ebrei sono Berger (mobili), la Herskovitz (mobili), io Neumann (pellam)i e Vezzil (saponificio). Dopo un due, tre mesi di insegnamento si sarebbe presentato in abiti dimessi, ai genitori nel loro luogo di lavoro e lamentando le ingiustizie del governo, la pochezza del suo salario, i prezzi in rincaro, il costo di mantenere i figli, il prezzo dei libri, avrebbe sollecitato un piccolo aiuto tanto per arrivare a fine mese. Il piccolo aiuto consisteva sempre in 50 lire da restituire quanto prima. Ovviamente stabiliva un’alternanza nelle richieste lasciando scorrere un due tre mesi prima di ripresentarsi al genitore che, per non offenderlo compromettendo i risultati scolastici del figlio, fingeva di aver scordato il precedente prestito e tirava fuori di tasca altre 50 lire. A questa pratica ne aggiungeva un’altra.

Ancora oggi, tra aprile e maggio si effettuano le gite scolastiche, ne annunciò una anche lui fin dal primo anno per una certa località però ogni alunno doveva portare a scuola 50 lire per le spese del trasporto. Attendemmo trepidanti, finì l’anno e non ci fu nessuna gita scolastica tranne che una passeggiata a piedi fino alla trattoria Vinas in quel di Drenova. Forse eravamo troppo piccoli ci disse, conservo le vostre lirette per la gita nell’anno prossimo quando sarete più grandi. Per tutti gli anni seguenti ci fu sempre l’annuncio con ogni volta il versamento di altre 50 lire perché la meta diventava sempre una località più lontana facendo crescere le spese per il biglietto del treno. Passarono i quattro anni di media ma di gite scolastiche non ne facemmo mai, in compenso ebbe a ripetersi ogni anno la passeggiata da Vinas con il professore sempre più ubriaco si da doverlo accompagnare, al ritorno, sorreggendolo a turno fino alla sua dimora. Agli esami di promozione alle superiori io e Vezzil fummo bocciati e dovemmo ripetere l’anno con il professor Vitali.

Molto ovviamente, nella Sezione A c’erano anche altri insegnanti, quello di lingua inglese, Repoli, nativo di Catania, una pronuncia tutta sua, per nostra fortuna dopo due anni giunse la professoressa Miller, già istitutrice in Libia dei due figli di Italo Balbo, pronuncia e conoscenza dell’inglese perfetta. Quella di scienze naturali era buona e brava, la Ceilon ricordo. Di matematica avevamo il “cinese”, lo rammento con questo soprannome, ci insegnò ad odiare sia la il far di conto che la geometria. Durante la sua ora di insegnamento non si sarebbe udito volare una mosca, non c’era molto “feeling” tra lui e noi. Come non includere in questa lista il buon Natalino, il bidello e sua moglie che nella pausa delle ore 10 arrivava puntuale nel corridoio con le merendine, rosette e salame per i più indigenti a 20 centesimi l’una e con l’aggiunta di burro a 50 centesimi per i più facoltosi.

Giungo a noi. Prima il sesso gentile. Rammento al primo banco la Tavolato e la Vigori. Morettina la prima, biondina la seconda. Come del resto le sue compagne, freddine con noi maschiacci. Non ci degnavano d’uno sguardo. Dietro a loro, sul secondo banco, la Herskovitz e la Blandi Mirella, Folti capelli nera, carnagione scura la prima, Morettina vivace la seconda, figlia del maestro Blandi ben noto nella scuola elementare di piazza Cambieri. Poi, mi sembra ricordare la Calcich e l’Ambrosio, le bellezze della classe, già orgogliose per questa distinzione. E la Smareglia biondona polesana, l’unica che si degnasse, talvolta, di conversare con noi ometti. La Conighi, altra mora dignitosa per i suoi lunghi capelli che le scendevano fino alle spalle. Ed infine la Bianca Lenardon. Nei prime mesi dall’inizio dell’anno scolastico, sedette sul banco davanti al mio insieme al fratello Silvio per dividersi in due i libri di testo; la cosa non funzionò, i frequenti litigi tra loro obbligarono il professore capoclasse a dividerli inviando Bianca in mezzo alle ragazzine. Non ne ricordo altre o forse non erano così appariscenti ai miei occhi.

Gli ometti poi dignitosi balilla moschettieri. Il Lenardon Silvio di cui ho già fatto cenno, piccollino rispetto alla sorella ma nei ludi juveniles ebbe a distinguersi nel salto in alto. Vezzil invece alto e biondastro con occhi vistosamente azzurri; zuccone come me o forse troppo confidanti nei quattrini dei nostri genitori in prestito? al capoclasse. Mandarà, il mio compagno di banco, figlio di un ufficiale della marina da guerra come veniva chiamata prima dell’arrivo dei pacifisti. Brazzoduro Gino, il padre impiegato alla Capitaneria di Porto, il nostro poeta con le sue odi rivolte alla impassibile Vanda Ambrosio e passate tra un banco e l’altro. Gerbaz Mario, il più bravo e solerte della classe, un secchione avrebbero detto a Milano. Giulio Delfino, difficile parlarne ancora oggi, un destino veramente crudele, molto legato già dai tempi della scuola alla madre che veniva ad attenderlo all’uscita degli alunni ogni giorno dell’anno, poi marò nella X Flottiglia Mas di Valerio Borghese, venne trucidato davanti alla madre venuta a visitarlo amorosamente, in un’imboscata partigiana a Novara, e poi anch’essa assassinata da quella brava, eroica gente. Piccoli, vivacissimo ed eternamente allegro. Giorgio Farkas, ebreo, tradotto con i familiari ad Auswitz, questi ultimi avviati alle camere a gas, Giorgio separato da loro e impiegato alla pulizia dei detriti e rottami sulle strade dopo i bombardamenti, in Germania. Riuscì a sopravvivere e ricongiungersi con il fratello maggiore, negli U.S.A. Gottardi, mio compagno nelle “oculize” e scorribande tra i prati in primavera. Mi rammento ancora di Gerini e delle nostre gherminelle che più di una volta ci condussero alla presenza del severo preside Sirola. Ed infine il pacioso Paci di via Carducci e del mio primo interessamento verso l’elemento femminile, la sua sorellina Olga.

Del quinto anno alle medie mi sono rimasti pochi ricordi. Il capoclasse Vitali, calmo e benevolo, e degli alunni Bruzzese, bravo disegnatore; Coccioli e Carta nel banco di fronte al mio, Coccioli, fratello minore dello scrittore Carlo Coccioli di fama mondiale, corrispondente del “Corriere della Sera”, vissuto in Francia e quindi in Messico, numerose le sue opere letterarie in italiano, francese e spagnolo. Figli di un ufficiale dell’esercito, frequentarono per due anni le scuole a Fiume. Quindi le mie medie si conclusero nel 1940, per lo stato di guerra vennero eliminati gli esami alle scuole superiori e così evitai altre brutte figure.

Il mondo intorno a noi, lontano, sconosciuto. La guerra in Etiopia, quella di Spagna tra franchisti e comunisti, sui giornali, sulla radio. Echi soltanto. Il nazismo in Germania, sfilate di bionda gioventù, agitare di bandiere, l’omino con il ciuffo sulla fronte che si agitava davanti ai microfoni, In Russia, sfilate di militari impettiti ed impacciati, lo sguardo soddisfatto dell’omone con i grandi baffi, in Giappone bandierine bianco-rosse mosse freneticamente da manine di studenti straniti. Il nostro mondo, i fez, le camicie nere, Piazza Venezia con il nostro uomo in grigioverde su uno stretto balcone, i Duce, Duce, i clamori della folla. Fiume, la nostra città, le nostre case, le affollate banchine dei moli del porto, le ciminiere del Siluruficio, dei Cantieri, le torri dell’impianto petrolifero della Romsa, i figli della lupa, i balilla, gli avanguardisti, i giovani fascisti, i fantaccini del 73° e 26° fanteria, la M.V.S.N., qualche manifestazione giovanile in piazza Scarpa lungo il confine sbarrato con la Jugoslavia, viva questo, abbasso quell’altro. Fiume, la nostra città con le bandiere verdi-bianco rosse a sventolare alla bora sui tre piloni di Piazza Dante. Anni 1935-1940.