Mia madre

di

Neumann Antonio




Il suo nome era Vincenza Grandich ed era nata a Bescanuova, nell’Isola di Veglia da padre Grandich (probabile origine veneta) e madre Scalamera di Bersezio (probabili lontane origini greche). Suo padre faceva il falegname costruendo mobili e arredi per case. Si esprimevano entrambi in veneto. Ignoro le loro date di nascita, non ne conobbi il padre, la nonna morì in tarda età nella nostra casa in via De Amicis. Mia madre non ci disse mai molto ne della sua infanzia ne dei suoi rapporti con i genitori. Ci disse di frequenti viaggi da Veglia a Segna e poi a Fiume dove stabilirono infine la loro residenza. Mia mamma ricevette una educazione frammentaria, leggeva ma scriveva a stento in italiano. A 16 anni di età fu posta a lavorare nella Fabbrica Tabacchi. Ad un certo punto fu indotta dai genitori a sposare lo scaccino del Duomo di Fiume. Non fu un matrimonio felice e deve essere durato poco. Si separò presto da costui e si allontanò dai genitori imputando a costoro l’infelice esperienza. Seppi quasi per caso della nascita di due gemelle nate morte e di una figlia infelice. Ne so in quale momento subentrò nella sua vita mio padre. So che mio papà era un bell’uomo e un facoltoso industriale mentre lei era una ragazza di eccezionale bellezza. So di un incontro ad una “cavalchina” carnevalesca al Teatro Verdi che, in queste occasioni, si trasformava in sala da ballo ricoprendo le file delle poltroncine di platea con tavolati e strutture in legno.

I miei genitori hanno sempre evitato di dirci delle occorrenze del loro legame. Ad un certo punto, avrebbe dovuto essere intorno al 1910, presumo, che mio padre debba aver acquistato una rivendita tabacchi per mia madre, a quei tempi usava, e deve essere stata questa l’occasione che la folta, rigida, bigotta parentela ebraica di mio papà a Fiume, da lui mantenuta, gli impose l’ostracismo alla convivenza. Che mio padre ebbe a disdegnare, e fu in quegli stessi anni che nacque un figlio, Ignazio, con lo stesso nome di mio padre, divenne Nazi per i genitori, perì tragicamente all’età di cinque anni davanti agli occhi di mia madre mentre lei, dal portone della casa popolare in via dell’Acquedotto, gli agitava il “Corriere dei Piccoli” da lui atteso con ansia, mezzo arrampicato sulla ringhiera della tromba delle scale, un movimento falso e Nazi precipitò al suolo, praticamente ai suoi stessi piedi. Mio padre le rimase accanto anche in quella occasione. Come le fu sempre accanto, ormai inviso al parentado, nel 1920 quando naque mio fratello Mario, nel 1924 quando arrivai io e nel agosto del 1925 quando giunse Nives, la mia sorellina.

Di Nazi e della sua triste sorte ce ne parlò spesso, a noi bambini, e di frequente l’accompagnammo al cimitero, davanti al loculo con la sua foto ingiallita nel vestitino alla marinara. Qualcosa stava nascendo in quegli anni di fine 1920, o meglio, stavano crescendo i miei tre cugini, Marcello, Lilli ed Herta. Dapprima fu soltanto Marcello. Mia madre, nelle belle giornate, ci portava a passeggiare sul molo lungo, lei amava il mare, perdonatemi una piccola divagazione, quando dopo molti mesi in quel di Savignone, in esilio tra i monti liguri, ebbi ad offrirle una gita a Genova e poi a Chiavari, come il treno uscì dalla stazione di Brignole ed iniziò a sfiorare la costa, lei esclamo, con l’entusiasmo e gli occhi di una bambina: “Oh il mare, il mio bel mare” e ripetendosi ancora ed ancora “Il mio mare, il mio bel mare!”. Provenendo da via dell’Acquedotto s’era obbligati ad imboccare via Fiumara e passare davanti al negozio di mio padre che udiva le nostre grida di gioia e ne usciva seguito da quello che noi chiamavamo zio Marcello anche se era cugino. E malgrado le proteste di nostra mamma, Marcello ci faceva tornare indietro per portarci nella frescura della Gelateria Fontanella ed offrici un gelato a ciascuno.

Si, qualcosa si tramava dietro a noi. Da via dell’Acquedotto ci trasferimmo per breve tempo in via Mameli, in una delle basse case su quella strada sempre affollata e piena di bei negozi e tutta illuminata a sera dalle tante insegne, ricordo quelle del Cinema Centrale, c’erano la scintillante coltelleria di Morpurgo, gli sci esposti da Rodizza, vetrine colme di abitini, lucide calzature. Poi la grande cosa accadde, sembrava un mattino come tanti ma Anna, la nostra domestica di Fianona, aggiuntasi da poco alla nostra famiglia ove sarebbe rimasta per tanti e tanti anni ci mise più impeto del solito a strofinare le nostre faccine (veramente quella di Mario iniziava ad essere facciona), fino a farle divenire rosse. Protestammo per il trattamento ma troncammo le nostre proteste quando, sui nostri lettini, trovammo tanti vestitini e scarpine nuove. E comparvero papà e mamma tutti messi a festa, in ghingheri, lei con un ampio capello e giacchetta e gonnella aderenti, lui in abito scuro ed una gran cravatta. Ad un tratto ci chiamarono dal di sotto. Davanti al portone di casa c’erano ferme ben due carrozze ed i cavalli belli strigliati. Su uno dei veicoli c’era Marcello e due giovani ragazze, una con i capelli neri e l’altra rossi. Noi si salì su quella vuota, babbo e mamma sui sedili di dietro, noi di fronte a loro.

Stava realmente accadendo qualcosa di assolutamente nuovo. Chi erano poi quelle ragazze. Ci avviammo, dapprima le ruote fecero un po’ di baccano sul selciato sconnesso, poi, giunti all’inizio del Corso, rimase solo il calpesto degli zoccoli dei cavalli sul lucido asfalto. Dove ci stavamo, recando. Sui marciapiedi i passanti guardavano con curiosità quell’ insolito spettacolo Giunti nella grande piazza Dante girammo a destra e poi ancora a destra per soffermarci davanti ad un portone dell’edificio che sapevamo essere quello del Municipio. Dietro a noi c’era la Chiesa di San Girolamo. Accanto all’ingresso vi erano alcuni signori che si affrettarono ad aiutare la mamma a scendere per poi scambiarsi grandi manate con papà. Noi fummo presi tra Marcello e le signorine. “Queste sono Lilli ed Herta, vostre cugine, dovete anche a loro se oggi siamo tutti qui. Non ricordo il giorno. So solo che eravamo nel 1928 e so che in quel giorno il mio papà e la mia mamma si unirono civilmente in matrimonio. E quando essi ci spiegarono che da quel momento erano marito e moglie, fu mio fratello Mario a chiedere: “Perché? Prima cosa eravate?”

Vi furono altre sorprese in quella giornata. All’uscita dal Municipio non c’erano più le carrozze ed i cavalli con nostra delusione ma, tutti in gruppo ci si infilò in via Edmondo de Amicis passando davanti all’Albergo “Bonavia” da un lato e alla Scuola Commerciale “Emma Brentari dall’altro lato, passammo su quest’ultimo attraversando la via, oltrepassando una piccola piazzetta al cui centro sorgeva una stazione di distribuzione elettrica fino a giungere all’inizio di grandi severi palazzoni, Entrammo nel secondo, quello con il numero civico 5, breve scalone di accesso con gli scalini in marmo bianco e poi la larga, squadrata tromba delle scale, il pianerottolo e poi il primo piano, alla nostra destra una porta spalancata e una vecchietta con un abito nero ed un grembiule bianco che ci invitava ad entrare, era mia Giuseppina, quella che un giorno ebbe a diventare l’eroina del campo di concentramento di Ravenburg, in Austria, prendendosi cura, come venimmo più tardi a sapere, di tutte le persone anziane ed ammalate, gestendo, lei, ottima cuoca, la cucina del campo con piatti squisiti creati con quel poco che le passavano i pur compiacenti carcerieri austriaci, decedendo infine per cause naturali.

E quella divenne la nostra nuova casa. E che casa! Un lungo corridoio, camere ampie con arabeschi sui soffitti e sugli angoli delle pareti, una vera dimora di lusso, fatta costruire dal meccanico inglese Whitehead, quello dei siluri. Il salone grande dove Zia Giuseppina ci ammenì un indimenticabile pranzo nel corso del quale noi bambini fummo seguiti dappresso dalle nostre cugine con le quali entrammo presto in confidenza. Nel pomeriggio salimmo sul piano superiore dove abitava zia Giovanna, molto ammalata ed accudita con pazienza ed amore dalla Zia Peppina, aiutata da una domestica. Poi ci trasferimmo al palazzo vicino dove incontrammo i genitori di Marcello, la zia Fanny (Francesca) e lo zio Benny (Bernardo). Il piano di questa memorabile giornata di riappacificazione era stato architettato dai tre nostri cugini che avevano trovato ormai buffo l’ostracismo verso mio padre e mia madre. Rimanevano fuori dal complotto mio zio Alessandro e mia zia Rea, quest’ultima di apparente nobile famiglia madrilena che disdegnava l’accostamento ad una ex moglie di uno scaccino.

E noi, ragazzini Neumann, iniziammo la nostra nuova vita nella nuova casa. Mario, mio fratello che aveva frequentato in precedenza la scuola elementare dello Scoglietto con maestro Jacovelli si spostò a quella di Piazza Cambieri con il maestro Blau. E venne anche il mio momento, l’asilo. Se ne era parlato già durante l’estate a Valsantamarina, Poi, una volta rientrati a Fiume, mia mamma si era affaccendata a cucire un affare bianco, come una specie di grembiule, quando ebbe a provarmelo, vidi che, in alto a sinistra, sul petto aveva ricamato un orsetto con filo blu spiegandomi che serviva a non confonderlo con quello degli altri. Altri quali? Il giorno giunse, Brachette e maglietta nuova e sopra a questi il grembiule bianco con l’orsetto, Ci si avviò, lei ed io, su per via Gosué Carducci (quante volte avrei percorso e ripercorso quella via) entrammo nella scuola di cui l’asilo faceva parte,c’era un mare di bambini intorno, chi con i grembiulini bianchi, chi con i grembiuli neri e le strisciette rosse su una manica per indicare il grado della classe. Percorremmo alcuni larghi corridoi aprendoci un varco nella rumorosa folla infantile ed infine giungemmo davanti da una larga porta con delle ante di legno in basso e delle vetrate opache in alto. Fossi un pittore potrei dipingerla ancora oggi, tale era la mia emozione. La spingemmo e la porta si aprì, al di la un altro largo corridoio e le porte aperte delle classi. Mia mamma mi spinse dentro alla prima di queste, sulla sinistra, scorsi i banchetti e già alcuni occupati da grembiulini bianchi simili al mio. Mi presentò ad un alta bella signora, che mi accolse a tutta prima come “Antonio” ma che fu subito seguito da un “Tonci” suggerito dalla mamma, insieme mi condussero ad un banchetto spingendomi a sedere su un seggiolino che faceva parte del banco stesso. Da quel posto potevo scorgere la grande porta del corridoio. Mia mamma mi diede un gran bacio sulla guancia e fece per allontanarsi camminando a ritroso, l’accompagnai con lo sguardo, non piansi come qualche altro ma mi sentii tutto sbigottito, ma come, mi lasciava solo, li in mezzo a tutto quel bailamme di voci, lei continuo ad indietreggiare verso quella porta che ora mi appariva sempre più grande, infine spinse l’anta alle sue spalle, mi riguardò ancora e scomparve mentre le ante si rinchiudevano alle sue spalle. E trascorsero gli anni, con mio fratello al Liceo Scientifico e poi al Politecnico di Milano, io alle elementari sempre in piazza Cambieri e poi le medie al Istituto Tecnico Commerciale e quindi al Istituto Tecnico Nautico. E la nostra sorellina dietro a noi fino alle magistrali delle Benedettine.

Nostra mamma sempre a seguirci, a darsi da fare in casa, prima in via de Amicis e poi in Riva Cristoforo Colombo. Non usciva molto, a Fiume non aveva molte amicizie, era sempre rimasta l’ex moglie di uno scaccino, diventava la signora Neumann solo d’estate, in quei mesi che si trascorrevano a Valsantamarina, tra gli altri villeggianti vecchi o nuovi che si alternavano sulla spiaggia ghiaiosa al mattino e nelle passeggiate pomeridiane tra i boschi ed i prati. Si giunse al 1943 con i primi attacchi aerei ed i timori per il parentado ebraico e per mio padre. Iniziò il 1944 con mio fratello dirigente di una ditta impegnata in lavori per l’organizzazione del lavoro tedesca Todt e mia sorella per sua segretaria. Io partii soldato, e mia mamma, nel commiato, mi lanciò lo stesso sguardo silenzioso di quando, anni prima, mi aveva lasciato solo nell’asilo.

Non è che desideri sembrare patetico, ma fu proprio lo stesso sguardo, colmo di quel suo amore che lei nutrì verso di me anche per tutti gli anni a seguire. Lo stesso sguardo, ma in quel momento smarrito, che mi lanciò quando lasciammo alle spalle, casa nostra a Fiume. Esuli verso un ignoto avvenire. Lo stesso sguardo che mi cercò tra i finestrini di una corriera che da Savignone mi portava a Genova, per uno dei tanti imbarchi, Sapevo che mi avrebbe cercato con i suoi stanchi occhi attraverso quel vetri affacciati sulla strada. Non sapevo, ne lei poteva sapere che sarebbe stata l’ultima volta. Mi spiacque tanto, davvero tanto, quando non riuscì a scorgermi mentre mi allontanava da lei per sempre. Mori mentre io ero in mare.