Un clandestino a bordo

di

Neumann Antonio




La nave “Stromboli” lascia alla sua poppa la piccola Poti all’estremo lembo ad est del Mar Nero ed i lontani monti degli Urali diretta verso Baltimora U.S.A. con il suo carico di minerale di ferro in fondo alle stive. La “Stromboli” , già “Morgan Robertson” è stata costruita nel 1947 negli U.S.A. come parte della vasta flotta delle cosiddette “Navi Liberty” risultate essenziali nello sforzo bellico americano nel corso della 2° Guerra mondiale. Si è in agosto, l’anno è il 1948. Quattro mesi fa ero ancora a Fiume, con tanti problemi e tante incognite. Ora ero in mare su una valida nave. Felice. Quella era la mia vita. Accanto a me i tonfi della motrice a vapore ritmavano il tempo di una canzone in voga. Che canticchiavo osservando i lucidi movimenti delle bielle e delle manovelle in movimento. 66 giri al minuto, non uno più di quelli altrimenti l’asse dell’elica sarebbe entrata in vibrazione armonica e si sarebbe spezzata. Ne stavo imparando di cose. La faccenda più difficile era quella di assaggiare, in moto, il pernone di manovella per controllarne la temperatura, bisognava far assumere alla mano il ritmo dei giri e poi infilarla lentamente tra biella e manovella, se si sbagliava era una bella botta alla mano. Imparavo.

A fine guardia il tempo di riempire di aria fresca i polmoni in coperta e uno sguardo al cielo limpido, prima che giungesse un comando per una qualche altra incombenza. Il comandante, piemontese, faceva Bocca ma era assai sboccato, il direttore di macchina Carmignani invece genovese. Tutta gente che aveva navigato sul “Rex” o sul “Conte di Savoia”, l’orgoglio della Marina italiana prima della guerra, già, anche il nastro azzurro, ora costretti a condurre delle carrette al confronto. Io facevo prima guardia con Bagolini, pure lui genovese primo macchinista. Direttore di macchina sulla prima torpediniera affondata da un siluro, subito all’inizio della guerra. Sulla poppa, in coperta, c’erano ancora il tavolino e le seggiole di vimini dei tempi di pace, lui, il Bagolini, vi stava seduto in comodità leggendosi un giornale, un rombo improvviso e si vede passare davanti la prua della nave, si ritrova in acqua assolutamente illeso. Nessuna traccia della torpediniera spezzatasi in due al momento dell’esplosione. E nessuna traccia di superstiti. Dovette affrontare tre mesi di indagini e processi per giustificare la sua esistenza!

I nomi, i discorsi, gli avvenimenti del primo imbarco non si scordano mai. Carmignani, il mio direttore, era un innamorato della campagna malgrado fosse uomo di mare ed a Poti, girellando per i prati, tra le scarse culture, socializzò con un grillo e se lo portò a bordo, riponendolo in uno scatolo, ne parlava sempre a tavola, si proponeva di liberarlo negli U.S.A. chiedendosi che effetto avrebbe fatto al grillo il trovarsi in un nuovo tipo di civilizzazione. Uno dei miei doveri nella guardia al mattino era quello, verso le sei, di controllare il funzionamento dell’impianto di refrigerazione della cambusa e dovetti quindi assumermi anche quello di staccare una foglia di insalata bella fresca per il grillo, all’acqua ci pensava lui. A proposito di impianto di refrigerazione, zoppicava un po’ nel senso che non raggiungeva le temperature dovute, e si che si trattava di un “Carrier”, una marca delle più quotate a quei tempi anche in Europa.

A tarda sera la “Stromboli” attraversa lo Stretto di Gibilterra. Sono sul ponte con l’allievo ufficiale di Coperta Schiano, di Procida. In plancia c’è anche il comandante, c’è sempre traffico di navi sullo stretto e non ci sono ancora in vigore regole di attraversamento. Anche se è buio, a dritta ci sovrasta la Rocca di Gibilterra, di prora si profila il Faro di Punta Europa. Schiano tiene in mano la Lampada Aldis di segnalazione. Mi spiega dell’antica tradizione che impone ad ogni nave che oltrepassa lo Stretto, di segnalare il suo nominativo, nazionalità, porto di partenza e di destinazione. Tradizione che risale ai tempi in cui l’Oceano Atlantico era un entità ancora pressoché sconosciuta anche se le navi spagnole la ignorano. La Spagna pretende da sempre il possesso del Forte e ne disputa ancora oggi la proprietà. Eccoci allineati al faro, si accende la luce di segnalazione a terra che invia lampeggiando la sua richiesta di informazione. Schiano risponde agendo con rapidità sulla levetta dell’aldis. Lo scambio si conclude con il convenevole “Bon voyage” . Ed ecco le luci del porto di Gibilterra che illuminano anche le navi alla fonda nella baia. Sullo sfondo quelle di Algesiras già in Spagna. Sulla sinistra, in lontananza, il chiarore di Tangeri mentre a dritta compare, vicina Tariffa, l’altra cittadina costiera, questa bagnata dall’Oceano Atlantico. Non ci stavo pensando, la nostra prora solca già quelle nuove acque. Siamo in Atlantico. Da qui in avanti incontreremo solo mare.

Mattino del giorno seguente. Bussano alla porta della cabina, si socchiude la porta, è il fuochista di guardia: “Signurì, Signurì, manca un quarto, manca un quarto”. Sono ancora assonnato, sopra di me, sulla sua cuccetta Schiano dorme ancora tutto raccolto. Una rapida sciacquata al volto, infilo la tuta da lavoro, le scarpe e scendo giù. Ma non è la stessa cosa del giorno prima,mi sento sballottato di qua e di là come fossi ubriaco, debbo tenermi con forza aggrappato ai tientibene. E’’ la nave che rolla con violenza, sembra di trovarsi attaccati ad un pendolo. A ecco, ci sarà del mare, il peso del ferro tutto sul fondo della stiva e le sovrastrutture, il pendolo appunto. Raggiungo non senza fatica il plancito del locale macchina, trovo un appoggio mentre il fuochista, calmo sulle gambe larghe, mi passa la tazzina di caffè, lo ,mando giù, Più agile a scendere è il primo ufficiale di macchina che non si scompone al insolito movimento, allarga anche lui le gambe e si sorbe con calma il suo caffè. C’è qualcosa che non và con me, mi sento le gambe pesanti. Tento di staccarmi dal mio punto d’appoggio ma ci ricado addosso. Poi mi viene qualcosa su dallo stomaco, mi lancio su per le scalette di ferro, riesco ad uscire in coperta e faccio appena in tempo ad affacciarmi sull’impavesata che vomito. Vomito anche quando mi sono liberato l’esofago, mi giro un attimo per vedere se c’è qualcuno che mi osserva, eppure non mi era mai successo, sul mio Quarnero avevo rollato e beccheggiato su ogni tipo di barche, vaporini e motonavi costiere.

C’è chi mi osserva, accidenti. Il nuovo marconista bianco in faccia, la grossa sagoma del direttore di macchina che scende verso di me, mi agguanta e mi trascina verso l’interno del corridoio e avanti fino alla cucina i cui vapori non mi recano certo sollievo, qui sono tutti in piedi per agguantare e fissare pentole e pentolini che sbatacchiano, pile di piatti che rumoreggiano nei contenitori. Il direttore ordina al cuoco di tagliare una fetta di pane raffermo, di stenderci sopra del burro e di versare generosamente del sale su di esso. . Poi mi impone di ingoiare il tutto, tento di rifiutare ma con le sue manacce me lo caccia in bocca, riesco a mandare giù quella specie di impasto. E quindi mi riaccompagna in cabina dove ricado pesantemente dentro alla cuccetta e mi addormento di colpo.

Mi risveglio. Guardo l’orologio, Non sono nemmeno le cinque, caspita, non ho dormito che una mezz’ora. Ma è stato un sonno profondo. Mi accorgo di non provare più alcun fastidio nel veder dondolare i capi di vestiario entro agli armadietti le cui ante si aprono e si chiudono a seconda della rollata. Mi siedo, provo lentamente a rialzarmi, non accade niente, mi bilancio con le rollate, cammino e mi precipito, questa volta in giù quasi volando sui corrimano delle scalette atterrando bello saldo a gambe divaricate davanti al primo macchinista. Da quel momento, in tutti i miei trent’anni di navigazione non avrei mai più sofferto un attacco di mal di mare. Ma l’esperienza non è stata piacevole. Si era trattato delle onde lunghe di una recente burrasca a provocare la buriana.

Baltimora, siamo ai primi di settembre ma sulla città è bella stesa una cappa di calura che fa sudare anche a stare distesi. E’ una domenica mattina, in porto si fa servizio giornaliero ma il cambusiere mi scuote vigorosamente anche se sono soltanto le sei: “Il frigorifero della cambusa è completamente fermo, non parte più, è bloccato ed io ci ho dentro milioni di lire di provviste.” E’ meglio se chiama il primo!” “Perché non lo chiama lei?”. “Quello mi mangia vivo. Voi allievi siete carne più tenera per i superiori.”, e se ne va. Già, mi vesto ma mi investe anche il signor Bagolini che nella calura ha solo le mutande indosso e non fa una bella figura. Le sue urla svegliano tutta la nave: “E’domenica oggi, quel maledetto di frigorifero, perché non poteva bloccarsi ieri, adesso dove ce lo troviamo uno che lo ripari. Ci abbiamo provato tutto già noi.” E’ davvero un bel problema, da ieri abbiamo chiuso tutte le derivazioni alle fontanelle d’acqua di bordo, con il caldo che fa, nei giorni scorsi l’equipaggio ha svuotato tutti i dispensatori di bibite a pagamento nei magazzini nostri e in quelli delle altre banchine. Niente da fare, si ridiscende in cambusa, ora è bloccato anche il compressore grosso.

Smontiamolo fa il primo, smontiamolo faccio io e vado a chiamare elettricista e operaio meccanico. Via le testate, via le valvole, sono a piastre, bisogna smerigliarle, ci sono poi quelle ad espansione da controllare, ci vorrà tempo e sudore, l’officina di bordo è un forno, ci si mettiamo chi se non io e l’operaio; accanto a noi l’elettricista bestemmia intorno al motore elettrico, è tutto a posto, è tutto a posto borbotta ma intanto smeriglia i carboni di contatto, con il sudore diventa subito tutto nero per il polverino. Il primo di macchina si fa ogni tanto vedere, lui ha navigato sul “Rex”, era sempre in bianco, tuta e divisa, che ne sa lui di queste cose, c’è l’operaio e c’è l’allievo che ha bisogno di imparare e se avete bisogno chiamate il carbonaio. Grazie.

Ed è domenica. A sera io e Schiano siamo invitati a Little Italy, il quartiere italiano di Baltimora, c’è una festa di un qualche patrono, si balla, ci saranno ragazze. Trascorre il mattino, un boccone in fretta e di nuovo giù con il cambusiere che si aggiunge al nostro gruppo con le sue lamentele per quanto sta accadendo dentro alle celle e alla sua roba. Rimontiamo tutto, siamo esausti. Non sappiamo più dove mettere le mani. Io sarei in grado a questo punto di disegnare a occhi chiusi un impianto frigorifero. Così, in un momento di scoramento, premo ancora una volta il tasto di avviamento del motore elettrico. Non si muove. “Accidenti, elettricista, ora si è bloccato anche il tasto dell’avviamento!” “Come si è bloccato?” “Che ne so, veda lei.” Oh Dio! Ora dobbiamo smontare tutto il quadro elettrico. Smonti il portello, io non ce la faccio più!.” Prendo il cacciavite e riprendo a svitare. C’è sempre la vite bastarda che è restia ad uscire. Infine allargo le mani, afferro i lembi del portello e lo tiro verso di me. E’ probabilmente un urlo di spavento quello che mi esce dalle labbra. L’interno è un brulicare di cacaraci, di blatte, di scarafaggi come volete chiamarli. Ci sono dappertutto, ad isolare con i loro disgustosi corpiciattoli i contatti, le bobine, le molle degli automatici, tutto. Se sono qui, sul quadro di avviamento principale cosa ci sarà sui raccordi, sui termostati, sui pressostati . Via, di corsa per i corridoi a bussare su tutte le porte per trovare qualcuno che abbia una bombola antizanzare o pulci o che diavolo sia. Ne troviamo. Specie tra gli ufficiali. Anche nella cabina del comandante che impreca. Una volta uccise le bestiacce, bisogna rimuoverle, chiamiamo anche il carbonaio ma arrivano anche marinai a darci una mano. Infine chiudiamo tutto di bel nuovo. E con esitazione che mi fanno premere il tasto d’avviamento, così, per buona fortuna. E il motore elettrico parte insieme al compressore, ben presto udiamo il sibili del gas Freon che riprende a circolare. Guardo l’ora. Sono ancora in tempo per la festa a Little Italy.

Non si tratta che di una strada addobbata con festoni colorati, bandierine italiane, lampioncini veneziani e un piccolo complesso di fisarmoniche. Ci sono le ragazze e di carine anche ma ci sono anche ai lati, sedute su panconi addossati alle case anziane matrone che non le perdono di vista, ci sono giovanottoni scamiciati con braccia belle nerborute, saranno fratelli, fidanzati, chi lo sa. E c’è anche mezzo “Stromboli”. La voce della presenza di marinai italiana si è subito diffusa e matrone e giovanotti tengono gli occhi bene aperti. Anche il bello di bordo, Schiano, ne è intimorito. Appena uno dei nostri accenna a stringersi troppo a se una ragazza, c’è subito qualcuno che con un “Sorry” sibilato gliela toglie di braccio e si mette a ballare con lei. Aria di zuffa in giro, quelli del posto sono tutti meridionali, Con i coltelli ci sapranno ben fare. Io sono stanco dopo una giornata passati a dannarmi l’anima in una cambusa per dei sfottuti “bacoli”. Rientro a bordo con il primo taxi che riesco a catturare. A notte tarda rientra anche Schiano che cerca di non far rumore, ma si sa cosa accade in questi casi. “Bene, come è andata, chiedo io.”. E’ andata in modo fottuto!” Mi risponde “Erano tre sorelle, difficile anche per i loro parenti controllarle tutte, sono riuscito a convincerne una a farmi vedere i suoi "pennants", quelle bandierine a cui ci tengono tanto le studentesse in America. Sono riuscita ad entrare con lei nella sua cameretta, ad abbassarle il vestitino sulle spalle ma quando ho cominciato a baciarle e succhiarle i seni è sbottata a ridere come una pazza: “You baby! You baby” e a strillare si da superare il chiasso della musica. Fortuna che la casa era un po’ fuori della cerchia illuminata e così ho potuto dileguarmi tra i vicoli. Accidenti però!.”

L’indomani con il Direttore di Macchina, mi si presenta in cabina con lo scatolo e il grillo ancora vivo e vegeto. Venga, usciamo insieme a dare una sistemazione al nostro clandestino in terra americana. Prendiamo un taxi, Il mio è un inglese ancora incerto, i miei tentativi di far capire a quel tanghero che dobbiamo recarci in un qualche posto isolato dove ci sia dell’erba si risolve in grasse risate e l’invito a lasciare la sua macchina. Con il secondo accade la stessa cosa e così decidiamo di non dirgli niente all’autista. “Please, you just go on.” E quello va on, e on ci si va per un bel po’ prima di uscire dalle zone abitate mentre quello diventa sempre più inquieto. Come Dio vuole si giunge ad un prato aperto e qualche alberello. “You just wait a moment, please” . Io sono assai accattivante con i "please". Ci dirigiamo verso un alberello non distante. Io copro la scena all’autista, è severamente vietato negli U.S.A. importare animali, e il Direttore depone delicatamente il grillo sull’erba entro la quale scompare in tutta fretta. Torniamo al taxi non senza aver abbandonato lo scatolo. E poi a bordo a missione compiuta.