Kushiro

di

Neumann Antonio




Cari tutti ,questo è uno dei tanti episodi della mia vita in mare. lo racconto sperando di non annoiartvi. Si svolge un po’ lontanino in una piccola isola a nord del Giappone il cui nome forse rammenterete, è Hokkaido. Qualche anno or sono vi si svolsero i Giuochi Olimpici invernali. La sua capitale è Sapporo. Kushiro, quando vi posi piede, nel 1963 o 1964 era un piccolo porticciolo di pescatori, ora, come leggo sul computer, è diventata Kushiro City e su di una foto recente appare come una delle solite, vaste, piatte città giapponesi. Se mi volete seguire, dovete indossare abiti ben pesanti con scarponi da neve e uno spesso berretto di lana sul capo. Siamo in pieno inverno. Sull’area del porto galleggiano grossi blocchi di ghiaccio. Per scendere a terra bisogna infilarsi in una specie di motoscafo protetto ed avanzare tra i ghiacci sbattendo qua e là con le murate fintantoché si arriva su una specie di molo rabberciato. Da bordo si vedono poche piccole casette di legno, un edificio in muratura e null’altro. Noi si è all’ancora in mezzo al porto. Stiamo scaricando mercanzia varia con i nostri bighi che poi sono quei lunghi pali attaccati alla base degli alberi. Improvvisamente uno di essi che porta il peso di un collo pesante si spezza in due e un tronco dell’albero con il carico precipitano in coperta uccidendo un scaricatore giapponese.

Il motoscafo si attracca al nostro scalandrone scaricando un gruppo di persone, alcune in divisa, altre in borghese, esaminano la scena, il punto di rottura sul bigo, è bello, netto, lucido di metallo. Io sono presente, insieme al comandante a far da traduttore in inglese. C’è la polizia, l’agenzia che rappresenta l’armatore, cioè il proprietario della nave, un tecnico, infermieri che ad un certo punto si prendono cura del deceduto e, aiutati dai nostri marinai, lo calano nel motoscafo. Noi ci si dirige nel salone nel quale, perlomeno, si sta al caldo, compare il cameriere di bordo con un vassoio sul quale sono posate bottiglie di whiski, birra, saki, bicchieri. Ci si siede, nessuno sembra troppo scosso dell’accaduto, io sostengo che è stato il freddo intenso della notte, una differenza di temperatura tra una parte e l’altra del bigo, mi è già accaduto nell’estremo nord del Canada. Si comincia a bere e si inizia a trattare sull’ammontare di dollari da versare alla vedova. Sono impassibili questi giapponesi, il morto è già dimenticato, si discute sull’ammontare della somma da versare, ìl comandante triestino avanza un’offerta, diecimila dollari. I giapponesi lo guardano, poi si mettono a ridere ripetendo “Ten thousands dolllars! Ten thoousands dollars, are you crazy!! Quello non avrebbe guadagnato quella somma in un’ intera esistenza”. Il comandante li affronta: “Noi siamo essere civili, noi siamo italiani, c’è una vedova e, a quanto m’hanno detto i suoi compagni, c’è anche una famiglia dietro al morto. Desidero recarli io stesso alla vedova.” In italiano. Traduco cercando di attenuare i tonì. Ma hanno capito e così ci si mette d’accordo per un incontro, nel pomeriggio, nella sede dell’agenzia, alla presenza di una qualche autorità.

Stiamo pranzando il comandante ed io, Direttore di Macchina, nel salone, giapponesi se ne sono andati non senza portarsi dietro qualcuna delle bottiglie, quelle non stappate ovviamente. Ad interromperci giunge trafelato il primo ufficiale, “Sembra che il pennese abbia un attacco di appendicite acuta, stava mangiando mentre si è accasciato per il dolore, adesso è in cabina ed accusa dolori fortissimi proprio in prossimità dell’appendice.” Ci precipitiamo giù allontanando quanti sono accorsi nella sua cabina. Anche al comandante appare un attacco di appendicite. A chi lo diciamo adesso? A quest’ora anche a terra sono tutti a mangiare, anche quelli del motoscafo. Suggerisco di attaccarci alla sirena, e alla sirena ci attacchiamo con lunghe, ripetute note fintantoché non notiamo del movimenti in banchina e il motoscafo che si stacca. Sempre per la faccenda della lingua inglese corro in cabina a mettermi qualcosa addosso mentre giù ricoprono il paziente con coperte pesanti e lo pongono sulla nostra barella. Sono i marinai che lo trasbordano attraverso lo scalandrone sollevando con le mani alzate la barella sopra lo stretto corrimano. In banchina c’è già un’autoambulanza, gli stessi infermieri che prima erano venuti a bordo lo introducono nel mezzo e vi entro anch’io. L’infermo si lamenta sempre e mormora premendomi le mani “Non lasciatemi in questo posto, non lasciatemi un questo posto. Io voglio tornare a casa.” Cerco di chetarlo. Il percorso non è lungo, passando sempre tra minute casette e stradicciole. L’edificio ospedaliero è invece abbastanza grande, con ampie vetrate. Lo depongono in una stanza singola e larga. , uno degli infermieri mi fa capire in un pidging english che il dottore sta arrivando. Il pennese, colui che a bordo cura i pennelli e mescola le pitture, continua con la litania del non lasciarlo li solo, chi mi riporta poi a casa, qui siamo alla fine del mondo. Sento qualcuno che mi batte alle spalle, è un giapponese piccolo, piccolo. “I am the surgeon.”. Io sono il chirurgo.”.

Torno a piedi verso il porto, attraverso la straducole del centro abitato. Le casette sono belle nitide, con graziose tende alle finestre, ogni tanto qualche tentativo di giardino anche se ora è tutto sotto la neve. In lontananza si scorgono bianche colline. Ho dovuto rimanere con il degente fino all’arrivo dell’anestesista, anche addormentandosi continuava a chiedere di non lasciarlo là. Sono quasi le quattro del pomeriggio. Davanti all’agenzia c’è un piccolo gruppo di persone, come mi vedono arrivare mi circondano e si aggrappano alle mie braccia ognuno tentando di attirare su di lui la mia attenzione facendo a gara nello strillare più forte. Esce l’agente richiamato dal clamore, che, aprendosi un varco fino a me, mi strappa da tutte quelle braccia e mi fa entrare nell’ufficio. “Affermano tutti di essere parenti del morto e di voler gestire ognuno la somma della vedova.” Che è seduta già nell’ufficio con una ragazzina china su di lei. Altro clamore. E’arrivato il comandante. Chiede di porsi in contatto con il nostro armatore a Genova. Dopo una trentina di minuti di attesa arriva il collegamento. Il comandante riferisce l’evento e i suoi termini al nostro direttore degli uffici di Genova. Altre attese al telefono. Invia a Genova i dati completi del deceduto che gli fornisce in contemporanea l’agente giapponese. Prima di chiudere informa Genova anche del ricovero all’ospedale di un membro dell’equipaggio, fornisce a Genova i dati dello sbarco. Genova vuole anche conferire con l’agente. Finalmente si chiude il contatto. Il comandante prende a confortare la vedova che lo abbraccia mentre dagli occhi le escono le lacrime.

Sera. Siamo, il comandante ed io in una specie di ristorante in una cittadina ad un’ora di macchina. O è una casa di gheisce, non si riesce a comprendere bene. E’ un locale non molto ampio. Al centro un lungo tavolo imbandito, alle pareti tende damascate e figurazioni con vedute giapponesi, con noi c’è l’agente, ad una estremità del tavolo un giovane dell’ufficio dell’agenzia. Entrano due graziose gheisce in costume recando seco degli strumenti a corda, una si pone accanto a me, l’altra accanto al comandante, scambio di inchini. Iniziano a fare dei giochetti con dei fiammiferi. Poi arriva una donna di una certa età in costume che reca una specie di larga conca in metallo, ornata finemente. La pone in mezzo al tavolo, solleva il coperchio ed inizia a versare una broda fumante spiegandoci in corretto inglese: “Sono code di rondine ma poi inserisce una parola giapponese.”. Nella broda galleggiano dei pezzetti bianchi. Noi abbiamo, accanto ai piatti i tipici bastoncini decorati ma anche posate occidentali. Dopo una prova con i bastoncini che fanno sorridere le gheisce le quali invano cercano di aiutarci nei nostri goffi tentativi, ci rivolgiamo agli usi occidentali impugnando le posate. E cibo squisito, ora le gheisce si alzano e vanno all’estremità del tavolo, una si pone a suonare una specie di piccola arpa mentre l’altra si applica ad una danza di lente movenze. Arrivano altre portate. Il giovane dell’agenzia sta a guardare ma ogni tanto si alza, scompare per poi tornare poco dopo appressandosi all’agente che lo ascolta e poi mi traduce, è praticamente una cronaca di come procede l’operazione all’appendice del pennese, sta andando tutto bene. Ogni quindici minuti la cosa si ripete. Infine la comunicazione che la sutura della ferita è andata a buon fine e che l’ammalato è stato riportato nella sua camera. E’ una strana scena, quasi irreale.

Ritorniamo più tardi a Kushiro, saranno le 10 di sera, l’agente si ferma accanto all’ospedale, saliamo alla camera del paziente, è già sveglio e, accanto a lui,sedutosi uno sgabello sta conversando con il chirurgo attraverso un dizionario italiano-giapponese. Mi sembra di essere ancora nell’irreale, qui, in una isola a nord del Giappone, un dizionario italiano! E’ un chirurgo che si premura, a fine operazione, di seguire ancora, nel cuore della notte, l’operato. Ci spiega tutto il pennese. A Kushiro c’è una missione cattolica con due frati friulani, dovrebbero giungere a momenti a trovarlo. In chirurgia non sapevano come comunicare con lui ed allora hanno pensato alla missione e ai due frati. Hanno inviato un incaricato alla chiesa, i frati erano fuori ma hanno spiegato ai fedeli la situazione e qualcuno ha avuto l’idea del dizionario. Ma lui ha ora ancora tanta paura di rimanere la da solo. La casa, la casa. Il comandante l’informa della sua telefonata in società che non lo lascerà certo marcire in Giappone e che si metteranno in contatto con il Consolato Italiano a Tokio, per seguire la sua vicenda e prendersi cura del suo rientro in Italia. Giungono infine anche i due frati, due colossi friulani, proprio; si presenta il comandante ed esterna loro il suo desiderio affinché si prendano anche loro cura dell’ammalato specie perciò che riguarda il cibo. Essi lo rassicurano con pesanti manate sulle sue spalle: “Bravo, bravo, non si preoccupi, ci pensiamo noi a lui. Nessun comandante di nave straniera si troverebbe a quest’ora di notte accanto ad un membro del suo equipaggio, e co sto fredo. Ghe se vol uno de noi, un triestin, un italian , per far questo!”.