Sono stato balilla. Ed allora?

di

Neumann Antonio




Quello del passaggio tra la terza alla quarta elementare della Scuola Elementare di Piazza Cambieri, (1934-1935) fu un passaggio traumatico. Ne converrà anche Mario Stalzer che come me e gli altri nostri compagni di classe avemmo a transitare dai sommessi, delicati, quasi teneri insegnamenti della maestra Concetta Centis, alla vociante rudezza militaresca del maestro Sante Modesto ed ai suoi rozzi, talvolta brutali anche se validi, metodi di insegnamento. E traumatico fu il passaggio dal confortante avvicinamento alla chiesa impartitoci dal Padre cappuccino Andrea nelle prime tre elementari allo stolido, imperativo catechismo di Padre Pavan che non lesinava pesanti ceffoni ai più renitenti alla parola del Signore, ceffoni la cui pesantezza non gli evitò un vivace scontro con mia madre, nel corridoio della scuola nel corso del quarto o quinto anno. E fu nel quarto o quinto anno, non rammento, delle elementari che venne introdotto il sabato fascista. Al mattino a scuola tutti in divisa, al pomeriggio adunata in palestra se pioveva o nell’ampio cortile della scuola se era bel tempo, le esercitazioni militaresche e le marce al passo, “up-due, up-due, alt, fronte a sinistr, fronte a destr … “ e così via.

Non credo che la cosa ci spiacesse. Si viveva ancora nell’atmosfera della vittoria dell’Italia nella 1° Guerra Mondiale, gli eroi erano Cesare Battisti e Nazario Sauro quando non erano Guglielmo Oberdan o Tommmaso Gulli. Si usciva insomma a questo modo dalle guerriglie tra bande di ragazzaglia tra quartieri per entrare in un mondo ancora vagamente militaresco e patriottico. Rammento che la prima volta che indossai i pantaloni corti grigioverdi da balilla li trovai piuttosto irsuti, la camicetta nera, invece, s’infilò in essi con facilità. Ebbi dei problemi con il foulard azzurro al collo, rammento che me lo accomodò mia mamma. E poi quel buffo berretto nero sul capo con il fez che saltellava di qua e di là. Non credo comunque che nella mia uscita di casa, il primo sabato mattino, ci fosse molta fierezza, provai come un senso di imbarazzo, poi vidi gli altri tutti uguali a me e mi rasserenai. Chi ci superava tutti era il maestro in divisa di centurione della Milizia con un grande cinturone in pelle nero bello lucido sulla giacca grigioverde e l’altrettanta lucida guaina per il pugnale da ardito senza parlare degli alti stivaloni neri addirittura brillanti. Quanta “patina” ci avrà impiegato a renderli tali? Quel giorno si dimostro più accattivante, non aprì mai l’armadio dove conservava i righelli e le stecche, suoi normali mezzi di insegnamento nel farci entrare nelle “zucche” la coniugazione dei verbi o la storia trionfale di Roma. Suo figlio, che aveva la sfortuna di condividere con noi la sua classe, in quella occasione non si prese nemmeno un rimprovero orale per una qualche eterna mancanza (il figlio doveva diventare un fascista perfetto e quindi darsi da fare con il libro e il moschetto). Qualche nome di quelle prime esperienze: Stalzer, Piccoli, Ferrara Penco, Pirottini, Lucchi, Rodizza, Hirath, Morpurgo, “Jaca”, Vezzil, Paci, Ortali (mi perdonino coloro che cito e gli altri che ometto per non rammentarli).

Il nostro maestro era certamente uno di quei legionari dannunziani fermatosi poi a Fiume. Il suo sistema per insegnare le coniugazioni dei verbi era unico. Per prima cosa disponeva tutta la classe in posizione eretta rimanendo in piedi entro al banco, poi imponeva all’allievo di posare una mano sul piano inclinato, quindi gli sussurrava la domanda all’orecchio sollevando contemporaneamente un righello da disegno o una qualsiasi stecca ad una certa altezza sopra la mano del malcapitato, quindi si faceva sussurrare la risposta nel proprio orecchio, se la risposta che gli giungeva era esatta passava al prossimo alunno, se era errata, il righello s’abbatteva con forza di piatto sulla mano offerta. Se aveva da fare con qualche discolo, si allontanava di un passo come se la risposta ricevuta fosse stata quella giusta per poi rigirarsi di colpo e facendo partire la piattonata con forza maggiore. Lo stesso sistema veniva impiegato nelle interrogazioni orali alla cattedra. Solo che in questo caso la mano bisognava poggiarla sulla superficie della cattedra. Ma al termine delle lezioni era sempre quella di suo figlio ad essere la più gonfia. In un’occasione, era un sabato, gli av venne di scagliare su di lui il pugnale producendogli una bella ferita sulla coscia. Il lunedì seguente venne, per sua fortuna, trasferito in un’altra classe. Il nostro maestro era tipico di quella categoria che noi, ragazzini, indicavamo come “fascistoni”.

Ce n’era un altro, il Prof. Turrone, insegnante di Educazione Fisica. Anche lui in divisa di ufficiale della M.V.S.N. (Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale, una specie di organizzazione fascista paramilitare). Accadde proprio in quegli anni, mentre ci si preparava in vista del saggio finale a corpo libero allo stadio di Borgomarina (Cantrida). Si eseguiva l’ultima prova del saggio nel cortile della scuola, eravamo in tanti nei pantaloncini neri e maglietta bianca con sul davanti la scritta O.N.B. (Opera Nazionale Balilla), stavamo quindi facendo le consuete figurazioni di tipo militaresco quando il Turone ebbe ad urlare con voce stentorea:.”NEUMANN, NON FARE IL PAGLIACCIO”. In mezzo alla massa c’era anche mio fratello maggiore e quindi mi girai istintivamente con il capo, per vedere cosa stesse combinando. “NON TE, L’ALTRO”. E subito dopo “NEUMANN, VAI FUORI, VAI VIA”. Io e mio fratello ci guardammo in faccia in modo interrogativo, a chi di noi due si riferiva?. E Turone tuonò ancora più forte: “ANDATE VIA TUTTI DUE, SPARITE”. Udimmo alle nostre spalle le risate e le ulteriori urla dell’energumeno. Così, per quella volta, mi godetti il saggio ginnico dalle gradinate dello stadio. Ovviamente non tutti erano così. Molto più mite era invece il custode del giardinetto davanti al Teatro Verdi in una divisa consunta che senza badare alla ragazzaglia preferiva raccontare alle mamme o alle servette che accompagnavano i bambini le sue avventure di guerra. Poi c’erano i professori di ginnastica giovani, quelli che provenivano dalla Accademia della Farnesina a Roma, ragazzi e ragazze, veramente bravi che insegnavano con garbo e preparavano i vari campeggi e impartivano ai campeggiatori nozioni che servivano loro tanto a livello di istruzione militare che di digerimento dell’ostica cultura fascista e dell’ancor più astruso corporativismo..

Cerco di rammentare che cosa significassero, per noi ragazzi di 8 o 10 anni tutti quei discorsi sulle imprese degli antichi romani. Sui libri di storia i soldati romani erano tutto alti, con muscolature sviluppate, torsi possenti e cosce che sembravano colonne mentre poi, dalle caserme del 73° e del 26° fanteria vedevamo uscire militari meridionali in grigioverdi piccolini di statura, esili o grassottelli, ben poco aitanti. Nella classe del maestro Santé Modesto io, Penco e Pirottini ci sentivamo invece tanto “tre moschettieri” cioè D’Artagnan, Athos e Aramis a combattere le guardie del Cardinale Richelieu, più avidi delle letture di Dumas e di Salgari che non del testo scolastico “Il balilla Vittorio” con la sua placida giumenta “Sofronia”.

Da balilla mi ricordo un campeggio, d’estate, a Clana, in un campo erboso accanto alla segheria sulla strada che sale al Passo della Morte e a Ermesburgo. Rammento solo i cinghiali che di notte assediavano il campeggio, ricordo Nino Florkievitz (si, proprio il nostro “Niflo”), con il quale condividevo la tenda, e che conservava gelosamente nel sacco, una bottiglia di grappa o rakia che sorseggiava a piccole dosi, segnando con una punta di matita ogni volta il livello raggiunto e che io regolarmente cancellavo o aggiungevo a seconda delle contingenze (se mi pubblicano e se mi leggi, Nino, perdonami). Al campo facevamo delle gran camminate ma il nostro incubo erano sempre i cinghiali e sul come agire in caso d’un fortuito incontro. C’era chi proponeva di darsi ad una fuga veloce, chi insisteva per arrampicarsi sull’albero più vicino e chi, scambiandoli per orsi bruni, suggeriva di fingersi morti. Una domenica venne a trovarmi mia madre trovandomi in condizioni abbastanza disastrose, con calzini posti alla rovescia, calzoni imbrattati d’erba, bottoni della camicetta nera mancanti, più di una abrasione alle gambe provocate dalle spine nei passaggi di fossati. Rimessomi in sesto, andammo a consumarci un pranzo in una trattoria che immagino, durante la settimana, preparava i pasti per gli operai della segheria. Mi sembrò strano, desinare da solo con mia madre su un rozzo tavolone, seduti su lunghi panconi in legno grezzo, Ma come cibo fu favoloso, come accadeva sempre nelle trattorie fuori mano del nostro Carso.

Peraltro, a pensarci bene, non è che l’essere diventati balilla, ci avesse avulsi dai nostri consueti passatempi e giochi di quegli anni. Le cartine Panini con le foto dei giocatori di calcio disputate contro qualche muretto, o quelle delle figurine Perugina, o le “spigole”, le piccole biglie di vetro colorato, le discese vorticose sui pattini di allora attraverso via Buonarotti e poi via Roma per riportare faticosamente i nostri veicoli lungo la scalinata della Salita del Calvario. Le beghe tra le bande locali, noi eravamo i muli della via De Amicis con la “tana” su un risalto erboso sopra lo spiazzo delle Donne Fasciste (sotto alla Biblioteca Civica) se era tempo buono, dentro alla palestra di ginnastica delle “Brentari” se pioveva (il “mulo” Nerone Smoquina” era il figlio del bidello e quindi vi avevamo accesso a tutte le ore), O in casa di Boris, un coetaneo croato che andava a scuola a Susak ma che abitava sulla salita che congiungeva via De Amicis a Via Pascoli. Questo mi fa venire in mente una cosa, una faccenda che non ho mai vista rimarcata sulla “La Voce di Fiume”, sugli articoli della “Voce del Popolo”, su ML Histria o su F.F. Fiume. FIUME ERA UNA VERA CITTA’ DEMOCRATICA. Una città della quale esserne veramente orgogliosi. Non vi esistevano distanze sociali, non vi esistevano distanze politiche e soprattutto non vi esistevano distanze nazionali o etniche o religiose, non esistevano i “regnicoli”. Chiamavamo,è vero, “Zifut” gli ebrei ma senza acrimonia, così come chiamavamo “tubi ghili” i vigili urbani.. Eravamo tutti sinceramente “muli” (come lo siamo anche oggi, noi nonni fiumani), o del Belvedere, o de “mlaca”, o del porto, o della cittavecia, o de Cosala, o de Drenava e se è per questo anche de Potmurvize. Tutti muli, anche più tardi del Liceo Scientifico, del Ginnasio, delle Tecniche, delle Industriali, del Siluruficio, dei Cantieri, della Romsa. In montagna, a sciare o per fare una camminata s’andava tutti con i camion del Siluruficio, della Romsa o dei Cantieri. Due o tre panche e un telo sul cassone posteriore, erano questi i nostri pulmann. E tante cantate insieme, operai e studenti, “muli” e “mule”. E le “mlecarize” che in primavera, ci portavano a casa oltre il latte e per noi bambini, i “maggiolini? Croate a italiani.

L’essere balilla o avanguardista incideva ben poco sull’essere “mulo”. Era, ed è vero, luogo d’incontro per nuove amicizie ma, per incontrarci, per avvicinarci c’era soprattutto l’ambiente scolastico. I passaggi tra un istituto e l’altro, le competizioni sportive e, ancora più tardi, la “Sala Bianca”, il “Talia”, Ricordo mio padre, più che benestante, giocare a carte in un caffeécon i “facchini di porto”, che poi ognuno di loro parlava due o tre lingue, un caffè affacciato ad un angolo di Piazza Elena, dirimpetto alla Gelateria Fontanella, Ad un certo punto chiuse e lì ci si mise l’impresa Gattoni, quella delle autocorriere. Da bambino i miei mi portarono ogni estate in villeggiatura a Valsantamarina (e va bene, Draga di Moschiena), e questo fino a vent’anni. Gli abitanti erano per la maggior parte pescatori o gestori di alberghi o locande. Tutti di etnia croata. Ma è tra i loro figliuoli che imparai i “jebenti veru”, i “boga ti domani” mentre loro da noi villeggianti apprendevano i “va in mona tumare”, i “vate a far ciavar”. E noi si diventava paesani proprio. Alla domenica, quando arrivavano il “Lussin” o l’”Abbazia” carichi di fiumani ( il weel-end di quei tempi era questo), noi ci prendevamo le barche per andare ad isolarci su spiaggette lontane, difficilmente raggiungibile via terra, dove eravamo belli isolati dai chiassosi gitanti domenicali. Nelle partite di pallone pomeridiano ci si frammischiava sempre, perfino nelle manifestazioni ufficiali come quelle del campionato provinciale dell’ O.N. D. (Opera Nazionale Dopolavoro) noi vacanzieri ci faceva parte della rappresentativa locale, io praticavo il salto in alto e la 10 Km. di marcia e mi allenavo con faticose camminate nel caldo del primo pomeriggio, sull’erto sentiero che saliva verso il Monte Maggiore. Uscivo con i pescatori con le “trattarize” (pesanti barconi) per la pesca da posta, remando per ore sui lunghi remi, o, a sera, uscivo con loro per la tratta, accovacciato a prora dell’imbarcazione, accanto alla lampara, con una mano a pompare il carburo quando s’attenuava la luminosità dell’aggeggio. E poi a stringere con le altre barche sulla spiaggia, trascinando la rete a sacco, appena la prua toccava la ghiaia, saltavo a terra e tendevo la corda della rete ai tanti villeggianti che si affollavano per prestare la loro opera nel trarre sulla spiaggia la massa brulicante di pescato mentre i bambini gettavano i sassolini per costringere i pesci nel fondo della sacca. E’ difficile descrivere la scena, il chiarore accecante delle lampare, l’agitarsi frenetico dei pesci che mano a mano venivano tratti a riva nel vocio delle esortazioni a fare forza, più forza. Anche questo accadeva a Fiume, nel Quarnero. Tanti, Tanti anni fa. Quando ero balilla. E allora?