Un tifone sul pacifico

di

Neumann Antonio




Giungo a Tokio nel tardo pomeriggio del 21 novembre del 1965. Tra la folla che si forme intorno alle uscite dell’aeroporto riesco a scorgere un grande cartello agitato freneticamente al di sopra di centinaia di teste sul quale giganteggia la scritta: MR. NEUMANN, quello sono io. Aprendomi un varco in mezzo ai viaggiatori raggiungo l’ometto che regge una specie di cartellone ripiegabile, mi presento, mi stringe la mano e mi invita a seguirlo nei locali dove dovrei recuperare la mia verde sacca da marinaio. Il tappeto rollante gira rapido, decine di mani afferrano valige, sacchi, pacchi, infine compare la mia vecchia compagna di tanti viaggi il cui colore manco più si distingue tra bolle e bollette strappate dalla gialla colla delle FF.SS. Raggiungiamo una macchina, il mio accompagnatore si destreggia abilmente nel caotico traffico, percorre una larga striscia d’asfalto che ci porta rapidamente al porto della vicina Yokohama. Si ferma esattamente al lato dello scalandrone della M/n “Castasegna” di bandiera svizzera, Lo ringrazio, riprendo la mia preziosa sacca e salgo a bordo.

Il comandante è un triestino, non ne ricordo il nome, l’equipaggio, al solito,è misto svizzero e italiano. Io, tra il personale di macchina annovero un primo ufficiale di macchina slavo, il secondo è di Trieste. La nave è noleggiata ad una società di navigazione giapponese per un viaggio con mercanzia generale per il Centro e Sud America. E’ stata costruita nei Cantieri Navali di Trieste ed a Trieste è stato costruito su licenza, il motore principale Sulzer. Il direttore di macchina precedente è ricoverato all’ospedale per cui posso assumere immediatamente le mie funzioni e prendere possesso della mia cabina. Faccio appena in tempo a raggiungere a cena il comandante che mi esprime il suo gradimento di avere un “capo delle nostre parti” . Non è uno triestino ma un lussignano, sono tanti i nominativi di suoi colleghi che entrano subito nella nostra conversazione. Tra gli altri argomenti mi esprime una sua preoccupazione, si parte all’indomani in giornata mentre sulle vicine acque del Pacifico è in formazione un tifone, mi suggerisce quindi, come prima mia cura, di assicurarmi che tutto il materiale mobile nei locali macchina sia rizzato a dovere.

L’’indomani mattina incontro tutto il personale giù in macchina, nessuna vecchia conoscenza, gli svizzeri in genere. fanno uno o due viaggi, prendono qualche fotografia dei porti, qualche malattia venerea da occasionali prostitute e poi se ne ritornano tra i loro monti. Sono bravi operai, fanno meraviglie con i torni e le frese. Il sabato sera s’ubbriacano con regolarità, sia in porto che in navigazione ma la loro è sempre una sbornia bonacciona. Il primo di macchina è un giovane ragazzo slavo, parla correntemente l’italiano, il secondo ufficiale è un omone di Trieste, di quelli del rione di San Giacomo. Il terzo è un esile svizzero biondastro. Il capo fuochista o “caporale” come si usa chiamarlo a bordo, è di Sussak che dio lo perdoni. Metto tutti a rizzare solidamente tutto ciò che si può muovere e li invito, poi quando hanno finito in macchina di sistemare per bene tutte le cose nelle loro cabine. Con i tifoni non si scherza. Alle due manovra di partenza, ridiscendono tutti, troppa gente per il mio carattere, Mi sono sufficienti il personale di guardia, macchinista e motorista, l’operaio sulle testate del motore, l’elettricista sul quadro elettrico.

“Ma l’altro direttore ci voleva tutti giù!” “Fareste troppa confusione se succede qualcosa, ringrazio comunque” rispondo. Al finito in macchina seguo ancora le operazioni per il passaggio dal gasolio alla nafta pesante e poi risalgo in coperta per ammirarmi il Fusiyama sulla nostra destra, è già innevato fino a metà della sua conica erta figura.

La giornata seguente iniziò con un mare appena increspato e un cielo uniformemente grigio, mentre, a colazione, il comandante mi informava che il barometro stava scendendo rapidamente, il tifone, sviluppatosi sulle Filippine stava procedendo rapidamente al largo delle coste della Cina dirigendosi verso il nord-nord-est e quindi verso il Giappone. Lo avremmo incrociato nella nottata, non c’era modo di evitarlo. Ben presto dalle nubi prese a scendere una leggera pioggerella che a mezzogiorno si trasformò in pioggia e prese a soffiare un vento fresco che sollevò le prime creste bianche del mare. Prima del pranzo scesi ancora in macchina per controllare che tutto fosse a posto con i materiali, percorsi tutta la linea asse fino al premitrecce dell’elica, tutto sembrava bene assicurato e a posto, quando stavo risalendo, il caporale mi informò che tutto il materiale movibile era stato solidamente fissato. Con queste assicurazioni raggiungi il comandante a tavola, “Ci siamo, disse, il fatto è che siamo ancora troppo vicini alla costa per avere possibilità di manovra, dovremo prendere il vento e il mare da dove ci vengono.”. Conversando, appresi che suo padre era stato armatore e comandante di trabaccoli e che lui, fin da piccolo aveva calpestato le coperte di quei piccoli scafi, da qui la sua andatura sempre ondeggiante., non si era mai abituato alle superfici ferme terrestri.

Al pomeriggio mi risveglio da un sonnellino con una strana sensazione, è come se venissi sbattuto in tutte le direzioni. Mi affaccio al oblò, sono onde che sbattono la nave da tutte le direzioni, le creste bianche delle onde superano i tientibene laterali ed il mare dilaga in coperta, un forte vento le sostiene e le solleva in modo vertiginoso verso l’alto, a volte raggiungono l’altezza del oblò. E’ un mare ancora confuso, non formato, consulto il mio piccolo barometro, si sta avvicinando ai 90 millibar. Per la forza dell’abitudine scendo in macchina. Li c’è un senso di conforto, Il motore non ha vibrazioni di sorta, la lancetta dei giri è immobile su quelli previsti, l’elica morde bene. Ritorno in cabina, nel mio studio ufficio. Noto una matita che rotola sulla scrivania, la rimetto nel porta oggetti. Seguo ogni tanto il movimento delle tende di panno verde collocate all’ingresso dell’ufficio, tengono ad allargare sempre di più le loro oscillazioni. Compare sulla porta il mio primo ufficiale di macchina che è in procinto di assumere la sua guardia, controllo l’orologio a muro a parete, manca qualche minuto alle ore 16.00. Commentiamo il tempo, ora il vento scaraventa con forza il mare sul vetro dell’oblò e si accentua il rollio della nave. Un breve congedo “Se accade qualche inconveniente giù mi informi”. Salgo sul ponte di comando, le vetrate sono già avvolte dalla schiuma di vento e mare. Il comandante è chino sullo schermo del radar, Mi dice, “Se aumenta il rollio mi metto con la prua al mare, non mi fido dell’abilità degli scaricatori giapponesi nell’rizzare il carico nelle stive.”, interviene il primo ufficiale, “Ho seguito il loro lavoro, m’è sembrato che abbiano saputo farlo abbastanza bene, gli ho solo fatto osservare che delle funi mi sembravano piuttosto sottili per il carico da sostenere. Sono piuttosto altezzosi e respingono le nostre osservazioni.” Conclude il comandante “Speriamo bene”

Verso sera è tutto un ribollire di mare e vento, Non esiste più una netta divisione tra cielo e mare. Sono ora ondate che il vento scaglia contro la nave il cui movimento tende a farsi pesante con la prua che si risolleva sempre più lenta dall’abbraccio dei marosi. Altra visita nel locale macchina. Il moto del motore non è più uniforme, il contagiri dell’elica ha ampie oscillazioni, indicazione che le pale stentano a vincere la forza del mare. Telefono sul ponte informandone il comandante. Mi fa, “Se rallentiamo corriamo il rischio di traversare, se ci mettiamo con il mare a poppa finiamo sulla costa. Teniamo così fin che ce la facciamo.” .Rimango un po’ giù con il primo, guardiamo spesso, sul quadro manovra, l’indicatore di angolo del timone. Per il momento non ha che brevi escursioni, segno che la prua regge bene il mare. Alle 18 scende giù il terzo ufficiale che rileva il primo per la cena. Rimango con lui, E’ giovane, certamente inesperto. Dopo mezz’ora ridiscende il primo “Come si fa a mangiare con i piatti che ti sfuggono dalle mani!”. Risalgo con il terzo. Il cameriere mi informa che il comandante prenderà un boccone sul ponte. Io gli chiedo un due panini al prosciutto che divoro nello studio aggrappato alla poltroncina fissata al pavimento.

Si prosegue così. Saranno verso le 21.30 che l’inclinazione delle tende sulla porta assumono una posizione quasi verticale, vi sostano un po’ e quindi risalgono al centro per poi ricadere sempre quasi orizzontali al lato opposto. O Dio! Abbiamo traversato. E rollio. E che rollio. Sento cose che rotolano nel corridoio. Qualcosa ci si dimentica sempre. Sono sbattuto qua e la dalle pareti prima di raggiungere l’ingresso al locale macchina. Aggrappandomi qua e là scendo per le scalette e raggiungo il quadro manovra. Il terzo macchinista sta appiccicato a gambe larghe, chino sul cofano delle leve, mi guarda smarrito. In quella suona il telefono, lo agguanto come posso, siamo sbattuti di qua e di là, per fortuna qui in basso il moto è più lento. “Neumann!?” “Si, comandante”. “Siamo sul traverso, non riesco a portare la prua al mare, lei può provare ad aumentare i giri?” “Va bene, provo!”. Spingo lentamente avanti la leva di accelerazione scostando il terzo, sul quadro il contagiri oscilla troppo per giudicarne la posizione ma quando ecco un primo scoppiettio in alto. Una valvola di sicurezza su qualche testata. Ritiro a me un po’ la leva finche lo scoppiettio cessa. Troppo combustibile. Riprendo il telefono. “Comandante, sono al massimo.”. “Grazie, ora riprovo”. Le nostre voci sono calme. Io mi sento calmo. Girandomi per guardare l’azione del timone vedo accanto a me il primo macchinista. Rimane anche lui fisso a guardare la lancetta del indicatore di barra che ritenta di riportarsi al centro, ci riesce per un attimo, esita e poi ricade dall’altra parte con un'altra rollata dello scafo. Sul ponte ritentano, stesso risultato. Ritentano ancora, ogni volta che la lancetta raggiunge il centro si scatenano gli scoppietti delle valvole. “Al telefono: “Comandante, qui non ce la facciamo, debbo ridurre”.”L’ho visto, diminuisca i giri fino a che si manovra in traverso. Pazienza per il rollio, ecco così, si tenga cosi, perlomeno manteniamo la prua in parallelo alla costa e non andiamo a sbattere da nessuna parte.”. Rimango giù, vicino a me il primo che invito a risalire in cabina per riposarsi un po’. Mi indica il terzo, è a terra, a pagliolo, con la schiena appoggiata ad un motore ausiliare. Vado a fare un giro intorno al motore, dall’altro lato incontro il motorista: “Direttore, sono stato nel tunnel, c’è qualcosa che non mi piace, venga a vedere e a sentire.” Lo accompagno, si ferma all’altezza della stiva numero 5. Ora odo anch’io, un colpo sordo che si ripete ad intervalli regolari, mi accosto alla rotonda parete del tunnel asse dell’elica. Non solo sento ma vedo, un pesante corpo sta rotolando al di là del metallo, la pittura bianca si sta già staccando a strisce, accosto la mano, è già presente una piccola rientranza sul metallo. La dove sbatte la massa rotolante.

Riprendo il telefono ed informo il comandante. Mi dice che ora fa chiamare il suo primo e poi scende a vedere. Lo attendo. Si rolla sempre pesantemente ma giri e timone sono stabili. Giunge il comandante e ci rechiamo insieme sul punto del tunnel dove si verificano i botti e dove sta cedendo la lamiera di protezione. Si è approfondita la rientranza del metallo ed allargata la zona che interessa la rottura della pittura. Il primo ufficiale di coperta ha informato il comandante che nella stiva 5, a livello di stiva, sono stati collocati dei voluminosi rotoli di filo di acciaio. Consideriamo il da farsi mentre accanto a noi ruota imperterrita con un lieve fruscio, la lucida asse dell’elica. Dal telefono di macchina il comandante ordina al suo primo di svegliare nostromo e i marinai liberi dal servizio di guardia e di attenderlo nel corridoio ben vestiti e con le cerate e stivaloni. E a me fa, venga anche lei, ha qualcosa da mettersi addosso di più spesso. Vedrò, gli rispondo. Un bel maglione, una cerata completa di pantaloni che in genere uso o per visitare il carter o per uscire a vela nelle vacanze. Ci ritroviamo tutti nel corridoio insieme ai marinai assonnati. Apriamo il portello stagno e subito ci avvolge un turbinio di vento ed acqua. Il comandante ordina: “Dobbiamo stendere un cavo da qui alla tuga di poppa.” Un cavo, qui al centro dove lo si trova? Poi il nostromo ha un’idea, le barbette delle lance. Scompare insieme ad un marinaio per ricomparire poco dopo con i due sottili cavi d’ormeggio delle imbarcazioni di salvataggio. Ora, chi va per primo? Si tratta di fare una corsa, al momento opportuno, accanto alla stiva 4, abbrancarsi ai verricelli attendendo la prossima opportunità e quindi raggiungere la tuga. Già, chi va per primo? Ci guardiamo tra noi, li in quel stretto corridoio, tutti ammassati nelle lucide cerate, si offre il marinaio più svelto e giovane. Gli leghiamo per bene l’inizio del cavo attorno alla vita, ci si assicura che intorno al cavo arrotolato non ci siano impedimento, il comandante attende il momento giusto tra una rollata e l’altra e poi urla “Vaaai!”. Quello parte rapidissimo e si getta quasi intorno ad un verricello in modo che l’ondata in arrivo gli passa tra le gambe. Ora e lui che deve decidere il momento buono, con il fischio del vento ed il fruscio del mare che sbatte sulle murate prima di uscire fuoribordo dagli ombrinali. Attende guardandosi in giro e poi riparte bello rapido fino a raggiungere la tuga. E porsi al riparo sei verricelli della stiva 5. Si tratta ora di stendere il cavo agendo sulla parte rimasta nelle nostre mani. Il nostromo ed i marinai lo tesano e poi,con un movimento veloce lo avvolgono intorno ad uno dei maniglioni del portello e quindi ad un altro per assicurare una tenuta migliore.

Siamo tutti al riparo tra i verricelli e la tuga. Qui mare e venti si sentono meno. Io e un marinaio ci lanciamo ad aprire un portello per penetrare nella tuga e rinchiuderla alle nostre spalle, tutto va bene, raggiungo il panello elettrico per l’apertura del portellone della stiva, Ad un oblò verso prua si pone il marinaio in attesa del segnale del comandate di iniziare l’apertura dei portellone di quel tanto da poter farvi penetrare un uomo. Inserisco la lama del contatto senza perdere d’occhio il marinaio che ad un tratto mi urla “Stooop”. Ora, da un locale vicino estraiamo due cappelloni, cioè due grandi portalampade circolari con tante lampade che si usano per illuminare le stive di notte. Inseriamo le spine nelle loro prese ed usciamo il più rapidamente possibile dalla tuga portandoci dietro i cappelloni. E un tratto dei loro cavi, bloccando un po’ aperto il portello della tuga su un tientibene. Infiliamo i capelloni nella fessura tra portellone e orlo della stiva. Dei marinai le sistemano e quindi riescono all’aperto: “Noi laggiù non ci andiamo, c’è da rimetterci la pelle, quel rotolo di acciaio è enorme e non lo ferma nessuno.”. Il comandante, da buon marinaio lussignano fa: “Allora scendo io, prima che quello sfondi qualcosa e ci cacci tutti a fondo. E si infila nell’apertura, lo segue il nostromo. Io sono ancora fuori inzuppato per bene dalle ondate e spruzzate che ci investono e bell’e infreddolito. Così mi ci infilo anch’io in quel pertugio, perlomeno sarò a ridosso., Vedo che il comandante ha già raggiunto il fondo della stiva mentre il nostromo scende con cautela lungo la montagna di casse e cassoni ammassati sulle due paratie, quella di prora e quella di poppa. Già, al centro i rotolo d’acciaio. Mi accosto al limite del carico, vedo che questo è assicurato da una ragnatela di cavi che offrono facile presa per cui inizio a calarmi anch’io. Comandante, nostromo ed io ci riuniamo a consulto accanto al rotolo che ci sovrasta con la sua mole, per ora il suo movimento non è molto ampio, e viene frenato da un lato dalla parete esterna del tunnel, dall’altro dal secondo rotolo addossato alla fiancata della nave i cui cavi di fissaggio stanno allentandosi anche loro, sussiste quindi la possibilità di sfondamento della parete del tunnel e di conseguenza la rottura dell’’asse dell’elica e l’eventualità che cedano le rizze del rotolo esterno con cedimento della fiancata e il conseguente allagamento della stiva e affondamento della nave per sovraccarico di peso.

L’idea viene al comandante, intorno a noi, sul plancito, sono rimasti numerosi grossi cunei di legno, di quelli a forma triangolare spesso usati dai vinai per sorreggere le botti di legno e, a bordo delle navi, per bloccare elementi del carico. Ci consultiamo brevemente sulla procedura da seguire. Ognuno di noi afferra un cuneo, il nostromo ed io ci poniamo a lato del rotolo, il comandante rimane pronto accanto a me, darà lui l’ordine di agire al momenti giusto. Si rimane tutti esitanti, un’ondata passa sotto alla nave facendola inclinare verso l’esterno, il rotolo cozza contro l’altro rotolo poggiato a murata, sentiamo passare sotto di noi l’avallamento tra un ondata e l’altra ed ecco che l’ondata sopraggiungente fa mutare l’inclinazione dello scafo e il rotolo sciolto prende ad avviarsi contro la superficie del tunnel. “Prooonti!” ci arriva l’urlo del comandante e subito dopo il “Viaaaa!” nello stesso momento che il rotolo cozza, fermandosi un attimo, sul tunnel, mi sposto di lato, mi chino ed infilo il cuneo sotto al rotolo, premendolo con forza, la stesa cosa fa il nostromo dall’altro lato mentre il comandante si infila sotto al rotolo forzando il suo cuneo proprio al suo centro. Poi siamo noi a rotolare ai fianchi rimanendo stesi ad osservare se i cunei reggono. Reggono si quando il rollio muta l’inclinazione dello scafo, il rotolo di acciaio rimane bloccato poggiando sul tunnel in tutta la sua molte. Io e il nostromo ci impadroniamo di altri cunei che dapprima inseriamo a forza in una fila accanto a quelli già sistemati e poi usiamo per aumentare con energici colpi. Mentre il comandante emana ordini ai marinai che osservano la scena dall’alto, di cacciare giù in stiva qualche cavo degli ormeggi di poppa. Scendono cavi e ora anche i marinai che agli ordini del nostromo assicurano i rotoli alle capriate laterali di rinforzo alle murate. Osserviamo per un po’ il lavoro e poi comandante ed io risaliamo il carico addossato a paratia, strisciamo attraverso il pertugio e riprendiamo di colpo la sferza del vento e degli spruzzi di mare. Sulla coperta, le mie scarpe sembrano fradice ciabatte mentre ci affrettiamo, aggrappati al cavo steso lungo le stive, verso il portello del corridoio interno. Mentre ci separiamo davanti alla cabina, il comandante mi fa: “Bravo fiuman!”. Al che gli rispondo: “Save miga solo voi lussignani andar per mar.”.