A Fiume nei primi anni del 70’

di

Neumann Antonio




Attraccammo alla banchina nelle prime ore del mattino. Tra i primi a salire a bordo furono i doganieri e poi quelli della polizia. Nessuna traccia del personale dell'agenzia marittima. Uscendo dai locali macchina dopo aver predisposto i servizi di porto incontrai nel corridoio il comandante che mi pregò di recarmi presso la sede dell'agenzia per sollecitarla. "Lei è di Fiume e forse riuscirà a farsi capire." Mi cambiai in fretta, scesi dallo scalandrone e mi avviai verso la radice della banchina. Di fronte a me scorsi subito la vecchia passerella in ferro che, elevandosi sopra i binari della ferrovia, conduceva alla porticina posta di fronte all'entrata all'Ospedale Civile. La percorsi con titubanza, non era mai stata in buone condizioni nemmeno prima della guerra, ora bisognava saltellare fra traversa e traversa di legno traballante. La strada in quel momento era deserta, nessun tram a sferragliare rumorosamente sulle rotaie così preferì ad avviarmi verso la stazione ferroviaria dove mi riuscì di trovare un taxi che mi portò, attraversando la mia vecchia Fiume lungo il Viale delle Camicie Nere, sbirciai di passaggio la Chiesa dei Cappuccini rivedendo nella mente il piccolo oratorio sul di dietro, verso Via Carducci, che tanti anni prima avevo frequentato, poi la Piazza Regina Elena e, in successione la Piazza Dante con i suoi tre pennoni, infine la fermata in piazza Scarpa, davanti a quello che una volta era stato il Palazzo della Finanza (si chiamava poi così?). Sborsai una cifra esagerata in dollari americani al taxista e poi scesi un paio di scalini per entrare nella cosiddetta agenzia ricavata in un camerone diviso in due da una vetrata resa opaca dalla polvere. In giro panche vetuste di legno e due scrivanie di quelle con un panno verdastro scolorito sul pianale. E due persone in abiti dimessi che mi affrontarono in lingua slava. Risposi in italiano qualificandomi e indicando il nome della nave. Quelli insistettero con lo slavo per cui riprovai con la lingua inglese. Con questa andò meglio e mi fu chiarito che per essi era ancora presto per recarsi a bordo, avrei dovuto pazientare un po' e poi mi avrebbero riaccompagnato al porto. Chiesi loro se incidentalmente potevo usare il loro telefono e pormi in comunicazione con la Jugoljnea. Assentirono e mi chiesero, sempre in inglese con chi desiderassi parlare: "With Rade Martincích."

Si guardarono in faccia, poi uno di essi entrò, bussando, nell'altra metà del camerone. Mi giunse un borbottio indistinto e quindi ne uscì, muovendosi rapidamente incontro a me ed offrendomi la mano una specie di omaccione piuttosto robusto che mi strinse calorosamente la mano e terminando quindi di allacciarsi i bottoni della giacca e sistemandosi la cravatta.

"Lei la xe?"

"Son el diretor de machina della Libra e el comandante voria saver perché non se ga visto ancora nessun dell'agenzia a bordo."

"Venimo, Venimo subito. La voi parlar con Martincich?"

"Si. Volo saludarlo. Serro cresudi insieme."

"A si. La vegni, la vegni con mi dentro che la facio telefonar subito. Apena che la ga finirlo andremo a bordo."

"Già che ghe semo la ghe dispiase ciamarne el proveditor de bordo e attaccarne el telefono?" "Come, non i e xe ancora vegnudi? Adeso ghe li mandemo."

Iniziò così la faccenda. Con Rade fu uno scambio tanto caloroso quanto rumoroso. I "ciò mi" e i "ciò ti" si sprecarono. Concordammo per un appuntamento nel primo pomeriggio per recarci insieme a Valsantamarina. A bordo l'omaccíone dell'Agenzia, parlando con il comandante, si dimentico' di parlare anche l'italiano ma poi, di fronte a qualche bicchierino di wisky ritrovò la parlantine veneta. Più tardi, accompagnato dal nostro cambusiere fuori di se, entrò in cabina mia un giovanottino magro mentre dietro a loro s'affacciava anche il primo ufficiale. "Questo ci dice che non ha niente di quanto abbiamo chiesto, ne farina per il pane, ne carne, ne spaghetti, ne pomodori, ne pesce." E il primo ufficiale intervenne agitato, "Non hanno nemmeno pitture, pennelli, cascame, stracci, diluente, niente di niente." Si trattava ovviamente del provveditore richiesto, quello che avrebbe dovuto, in teoria sembra, rifornire la nave e il suo equipaggio del materiale di consumo. Lo aggreddii io a mio volta: "Iei vuol dirci che a Fiume, dove so nato e cresudo, in questo momento non ghe xe pese in pescarla, non ghe se carne in macelleria?" "Non gavemo niente, proprio niente sior." E se ne uscì. Noi ci guardammo in faccia. Dopodiché mi ricordai di Rade e della sua Jugolinea. Lo richiamai al telefono. "Scusami Rade, ma ti ti xe dirigente dellaJugolinea?" “si"

"La Jugolinea la xe la più grande compagnia de navigazion in sto paese?" "Si."

"Allora dove xe che le vostre navi fa le provviste de bordo, qua, el nostro proveditor el ne ga dito che non i ga niente."

"Come se ciama el vostro provvedito?”

"Aspetta, el ga lasà qua un cartonzin."

"Ah, se quei, adesso ghe penso mi, Tonci, non steve preocupar."

M'ero affacciato sulla banchina per guardare i primi autocarri che arrivavano per caricare il grano quando scorsi una macchina percorrere a tutta velocità la banchina bloccandosi davanti allo scalandrone e salire a bordo il giovinetto con i cappelli ancora più scompigliati che mi aggredì quasi urlando: "Cosa mi ha combinato, io vi avrei procurato tutto domani, disturbare quella personalità, lei non sa quale guaio ci ha combinato, adesso tra mezz'ora le arriva tutto a bordo, tutto quello che avevate ordinato. Oh mio dio."

"Non si scordi del pesce fresco che qui, nel Quarnaro, e' ben buono!"

Nel pomeriggio attesi per un po' Rade ma, non vedendolo arrivare, tornai alla stazione riprendendo un taxi.

"Mi porti a Valsantamarina."

"Ne govorim talianski"

"Ecco qua un altro mona, la me porti a Moscenize Draga." Si mosse senza aprire più bocca. Riecco la caserma del 73°, ex casa degli emigranti, poi il Sílurificio, dio com'era ridotto e la Romsa anch'essa messa male, i Cantieri con le grue mezze divelte, la Compensum e poi Cantrida con le sue casette che mi impedivano di scorgere i sottostanti bagni Riviera e Savoia con la pista di pattinaggio e poi Costabella che mi si apriva davanti al meraviglioso Quarnero, bello come non mai, A destra il verso dei rilievi, le due gobbe del Monte Maggiore, e, in basso, la riviera con le piccole costruzioni bianche di Volosca, di Abbazia, il taxi filava veloce, avrei voluto dire all'autista di rallentare per farmi godere più a lungo il paesaggio ma come farmi capire da quel bruto. Preluca sempre arida, con quel suo rossiccio desertico. La curva su per Volosca ed ecco le due lunghe scale delle tonnare, ancora protese verso il mare. I verdi frondosi alberi che nascondono le ville di Volosca, bella, silenziosa e subito dopo la una volta elegante Abbazia. Ora appare quasi deserta, il bel lungomare è vuoto di turisti. Anche gli alti imponenti alberghi appaiono grigiastri, le imposte delle finestre abbisognano di mani di pittura, i tavolini all'aperto sono privi dei gioiosi tovaglioli di un tempo. Vuoti i bagni con le vernici che si staccano dal legno delle cabine. Una desolazione, mi sembra che si rattristino le pur azzurre acque del Quarnero.

Ci immergiamo tra gli alti fusti che ombreggiano la litoranea da Ica ed Icici, qualche costruzione barrocca s'intravede tra i rami, quindi Laurana, una rapida visione del suo porticciolo, dei contrafforti verdosi che si elevano fino alla vetta del Monte Maggiore, le casette del borgo e di nuovo il grigio dell'asfalto spezzettato al centro, l'azzurro del mare a sinistra, le abetaie a destra, quindi la curva ghiaiosa di Medea, ancora bianca e sgombra la spiaggia, belli, alti e intonsi gli abeti (la rivedrò in una foto recente zeppa di piccole imbarcazioni e di villini bianchi tra gli sparsi abeti sfuggiti alle ruspe). Ci siamo quasi, la strada che s'innalza sulla costa e il mio cuore che batte sempre più veloce, L'ultimo tratto, la scuola elementare nel verde, e poi ecco la curva in discesa, ecco Valsantamarina, la mia Valsantamarina. Ma accade qualcosa, l'autista non imbocca la solita stradina curva ma passa davanti all'ex dogana e prosegue lungo il percorso verso Moschiena Alta.

"Stoj, druze, stoy!" Ma non si ferma, mi indica il basso, scorgo allora, la tra la distesa dei vigneti, una piazzola di asfalto proprio là dove c'era il nostro campo di calcio, quello della parrocchia. E difatti la carozzabile ora si divide in due e quella di sinistra ci porta giù, tra i vigneti, fino all'improvvisa piazzola di sosta per le auto. Siamo arrivati. Mi guardo all'intorno, è tutto come allora, mi turba solo quell'asfalto, C'è la casa della Slatina con il vecchio fico, la larga casa dell'americano con i campi ben recintati. Non c'è l'erba corta del campo di calcio ne il grosso albero che un tempo manteneva all'ombra il portiere della porta più a sud. Mio avvio verso la piazzetta centrale passando accanto alla chiesetta. Non ha più il bel bianco del gesso d’un tempo, è quasi grigiastra. Non c'è più ovviamente il largo gelso abbattuto dal vento del fortunale del 46'. La piazzetta si che è sempre quella, a destra il negozio dei Bradicich. A sinistra il casolare con l'officina del Gallovich, l'ingobbito maniscalco già da tempo trasformatosi in fabbro ferraio. Gli alberi sono sempre gli stessi celando a destra l'albergo "Armanda", che nome avrà adesso? Fu proprio lì, nell'alveo dei Potok che fu steso dal fuoco dei militi o dei partigiani, non lo si seppe mai, Anton, il figlio del proprietario. E, a sinistra, immutato anche lo sdruscito tendone dei bar. Deserto anche se si è appena a metà settembre. Quante "frambue" consumate su quei tavolini. Sempre a sinistra c'è come sempre, nello sgabuzzino, Adrario, con la minuscola rivendita tabacchi. Entro per acquistare un pacchetto di sigarette (ho fumato nervosamente nel tratto in macchina).

"Buon giorno, signor Adrario"?

Non mi guarda in faccia ne mi risponde. Mi consegna le sigarette senza alzare lo sguardo. Un altro, mi dico, ci si mettono anche i regnicoli ora. Mi avvio verso la casa di Rade, è in salita sulla vecchia strada che un tempo portava in piazza, sulla destra ho il molo con la piccola darsena per le barchette e le "trattarizze", più avanti il molo si allarga la dove attraccano i vaporetti che vengono da Fiume. Poi, a sinistra la casa dei Barbalich, ci saranno ancora i pescatori d'una volta, ci saranno ancora i loro nipoti di Trieste Tini e Mini con i quali ci si litigava sempre da ragazzi. Iniziavano loro: `Fiuman, magna merda e lasa pan" cui noi si rispondeva "Triestin, meso ladro e meso assasin." Poi la casetta dei Descovich e di Natalia, il palazzotto dove al primo piano c'era la casermetta delle guardie di finanza, (tra Valsantamarina e Moschiena c'era la line di confine della zona sdoganale di Fiume) e al secondo i Liverani “regnicoli» con il padre unico impiegato tutto fare al Comune ed i figli, Nisi, Dino, Mariuccia, e Lena, ed infine la casa di Rade, dimora estiva della mia famiglia divisa con il padrone di casa Pepin, cuoco di bordo della `Tirrenia", la moglie Maritza e i figli Rade e Liliza.

Non mi andò bene quando salii sulla grande terrazza della costruzione. Proprio in mezzo, seduta su una seggiola, immota a guardare il mare, c'era la vecchia Maritza. In fondo non mi guardò nemmeno quando le dissi che ero Tonci, rispose solo seccamente: "Non la conosco, non so chi sia! Vada via." Insistetti, le dissi il nome di mio padre, di mia madre, dei miei fratelli. Le uniche parole che uscirono dalla sua bocca furono ancora: "Vada via, Vada via, Non la conosco" rivedo ancora quella vecchia dai capelli bianchi, immobile sulla seggiola, che continuava a fissare il mare. Per ventidue anni eravamo stati ospiti estivi, loro villeggianti. Forse era malata. Non lo so. Eppure parlava ancora l'italiano. Pepin, suo marito, era stato uno slavofilo inveterato, irragionevole.

Me ne andai un po' sconvolto, non era esattamente un bell'inizio.. Scesi sul molo lungo le decrepite scale di pietra. Scoraggiato mi diressi verso la lunga spiaggia sassosa. Li le casette dei pescato erano collocate una addossata all'altra. I guzzi erano allineati sulla spiaggia regolarità, ancora ben tenuti e pittati, lungo le travi che sostenevano le reti gocciolanti catrame, stese ad asciugare. Davanti alla porta di una delle abitazioni c'era un anziano pescatore, il Rossovich. "Tonci, cosa ti fa da queste parti?" Gli spiegai che mi trovavo a Fiume con una nave. "Ti sa che Nadan el vive a New Yrok e che mi go ancora qua tra i piedi Ivo."

"Ma nol naviga?" "Qualche volta, d'inverno, el xe sempre secondo macchinista, non ha mai voluto prender la patente, lui ghe piase solo le mule, come vien la primavera el torna a casa e el scominzia a girar dietro le cotole, non più dele mulete ma dele vecie forestiere, el se fa anche dar soldi da loro e non se vergogna, mi si che me vergogno però, el fa el zigolò o come se dise. Se ti lo incontri parlighe e disighe che queste non xe robe da far." Glielo promisi. Nelle località turistiche è, in genere, come una malattia. Un tempo Abbazia era piena di gente così.

Proseguii, la casa dei Benaglia era chiusa sbarrata, chissà cosa ne era di loro, avevano tre figlie scatenate, mi ricordo solo il nome di una, la Muzzi, e già, poi c'era un figlio piccolo, Marino. Arrivando davanti all'albergo Marina, vi incontrai Piero, ormai proprietario, Si ricordò di quando facevo il tutore al figlio dell'onorevole Host Venturi. Erano tanti gli anni trascorsi. Accanto all'albergo c'era ancora, incredibilmente, lo stabilimento dei bagni con le cabine in legno che si riempivano alle domeniche quando arrivavano da Fiume i vaporetti pieni, zeppi di gitanti. Il miracolo accadde subito dopo, appena passato lo stabilimento. Vidi precipitarmisi addosso una ragazza con un grosso cane canadese husky. Era Wilma, non so quanto tempo rimanemmo li abbraccia stretti, le sue lacrime che si fondevano alle mie. Wilma, la compagnona di sempre, si arrabbiava perché la chiamavo la mia Wilma, fin da quando si poteva avere si o no tre anni. M'aveva riconosciuto da lontano ed ora non riuscivamo a staccarci. Alla vicina finestra si affacciò sua madre che mi invitò ad entrare. Insistette per offrirmi del prosciutto locale ed assaggiare dei formaggi. Chiacchierando appresi che il suo figlio maggiore, Boso, viveva nel Canada ma che ogni tanto tornava a trovarli con dei regali, lo husky era uno di quelli. lo guardavo Wilma, eravamo degli stupidi ragazzini ma lei era sempre stata la mia Wilma. Non era mutata, Nelle nostre scorribande giovanili non parlava molto ma mi rimaneva sempre accanto. Non fossero successe tante cose nei nostri anni a venire, probabilmente mia lo sarebbe divenuta per davvero. Purtroppo non potevo rimanere a lungo, dovevo tornare a bordo ma questa volta avrei preso la corriera. Usciti di casa ci abbracciammo ancora. "Ora telefono a Fedora che sei qui. Abita nella casa che una volta era di Lucio, l'olandese il cui padre era vice ammiraglio della flotta olandese in Indonesia ma la cui moglie era nata a Valsantamarina). E difatti c'era, la ancora bella Fedora, piazzata in mezzo alla strada per aspettarmi. Furono altri calorosi abbraccia e mi volle portare in casa per farmi vedere alcuni quadri di suo marito, un pittore di Zagabria, c'era sempre lei come modella con sfondi tratti da scorci di Valsantamarina. Mi disse di Slava, anche lei del nostro gruppo, sposata ad un camionista, la bionda ragazzina che abitava un po' fuori del paese e che a sera accompagnavo a casa.

Ma quella sera fu Fedora che mi accompagnò alla corriera.

Il mattino seguente si presentò di sorpresa a bordo, Rade Martincich con i suoi due figliuoli già grandicelli. Non era molto mutato, sempre il bel ragazzo biondo, un cucciolone. Ci si abbracciò con entusiasmo, scusandosi per il mancato appuntamento del giorno prima, una riunione non prevista. Soggiunse: "Adeso de facio una domanda che te sembrerà strana ma voio visitar la tua nave da prua a poppa scominziando dalla machina".

"Bon ah! Ma speta che te presento prima el comandante".

Scendemmo nel locale macchine, si guardava in giro senza parlare, ogni tanto accennava qualcosa ai figli in croato. Si soffermò a lungo nell'officina, non compresi cosa ci trovasse. Poi volle vedere il magazzino dei ricambi. Sul piano dei cilindri si fece il giro completo, lento, guardando tutto in giro. Giungemmo al piano manovra fermandosi davanti al quadro comandi, poi si infilò nel tunnel dell'asse dell'elica che percorse fino in fondo, sempre seguito dai figli e borbottando di tanto in tanto con loro. Tornammo indietro soffermandosi a guardare il carbonaio che puliva i dischi del depuratore nafta. Osservò il gruppo elettrogeno ausiliario in moto. Poi mi disse, nel frastuono: "adesso andemo a far un giro in coverta." Si mise a girare per le cabine, prima quelle del personale che trovava aperte, poi nella cucina. Non bastò, usci all'estrema poppa osservando gli argani e poi volle salire sui ponti più alti, fino alla plancia. Infine, sempre brontolando qualcosa con i figli, ci dirigemmo a prua dove volle mettere il capo anche nella cala del nostromo. Poi finalmente mi disse: "Go finido. Adesso tornemo nella tua cabina”.

E disse`Bravo, tutti bravi." Cussì vorrio veder anche sulle navi nostre. Tuto bel pulido, lucido, un locai machina dove ti poi anche magnar per tera."

"Adeso ti esageri, Rade." "No, No. Ghe lo go dito anche ai mii fioi. Xe cussì che se tien una nave, no come tutti quei zingani de macedoni, de bosniaci, che i me manda a bordo. E non sta creder che i ufficiali sia melo, noi se voi sporcar lori, noi prenderla in man una ciave inglese gnanche se la barca va a remengo. Ti ti se, voi se ancora fortunadi che gavè a bordo marinai veri che i ghe tien alla barca, ti dovrii veder quel che se a bordo delle nostre adesso che i dalmati ze sparidi.. I pisa nei lavandini, nele sentine, in machina ghe se un tanfo che non se poi star. Mai che i dessi una man de pítura in giro, i la vende quela che mandemo a bordo,i vende tuto, i magna tuto. E ogni momento ghe se rompe qualcosa. Scusime se devo scampar ma son proprio contento de gaverte visto, stasera vien a casa da mi. Mi stago in via Socol che una volta se ciamava via Gioia, Xe quella strada che va drita su al Istituto Nautico."

Così ci rivedemmo a sera. Per l'indomani attendevo l'arrivo di mia moglie con i figli, la discarica procedeva lenta. Nel pomeriggio pensai di fare un salto alla "Voce del Popolo". La redazione, mi dissero, non era più in via Cíotta vicin al teatro "Fenice" e nemmeno poco più sopra, in Pomerio. Così presi un taxi e mi ci feci condurre su, dove sorgevano quelle casone alte che si vedevano dal mare e che deturpavano, posso scrivere, sconciamente, l'aspetto della nostra città. Il primo che incontrai fu il buon Lucifero Martini che mi fece un sacco di feste: "Guarda Neumann, siediti dietro questa scrivania, si, siediti, se ti voi la diventa tua, resti qui con noi" . E poi comparvero Barbarich e Mazzieri, erano gli ultimi vecchi. Stavano celebrando, in quei giorni, il 25mo anniversario della fondazione del giornale. Non più a quattro pagine ma a sei ora, come mi sembra ricordare. Fu un bel momento per me. Mi venne quasi quasi la tentazione di rimanere per davvero su quella seggiola, ma poi c'era la nave, c'erano i miei, mia moglie professoressa, i nuovi amici. Me ne andai davvero commosso, era anche quello un episodio della mia vita a Fiume.

L'indomani giunsero i miei nel tardo pomeriggio, Avevo prenotato le stanze presso il "Bonavia" ma mia moglie volle recarcisi a piedi. E così, passati davanti alla Chiesa dei Cappuccini, incapammo in un ristorante e nel figli, dopo il viaggio, si ridestò l'appetito. Era un ristorante per me nuovo, prima lì c'era la Cartoleria Lotzinker, se rammento bene. Mangiammo molto bene. Il pesce del Quarnero era senz'altro migliore di quello di Fano. I miei s'abbuffarono per bene. Delusione invece al "Bonavia". Disordine, biancheria umida, mobili vetusti. Al mattino seguente, mentre io me ne tornai a bordo, mia moglie e bambini si misero a girare per la città e finirono, non so come, su a Tersatto. I piccolini rimasero molto impressionati da tutti quei "ex voto" e quelle navi in mari burrascosi. Pranzammo a bordo e poi partimmo per Valsantamarina. Sfortunatamente il cielo era piuttosto coperto e il sole compariva solo distrattamente. Sostammo per un'ora ad Abbazia, sempre deserta dopodiché riprendemmo la strada per Draga di Moschiena (per una volta posso chiamarla anche così).

All'arrivo mi dissero che per il posto in albergo c'era un piccolo ufficio in piazza. Vi ci recammo, un affare un po' disadorno con qualche gigantografia alle pareti ed una vecchia scrivania. Il bello era tutto dietro alla scrivania, una bella ragazza mora e vivace. Le diedi il mio nome, sollevò un attimo il capo e poi si mise a consultare le sue scartoffie. Mi dissi, eccone un'altra. Era la Liliza Martincich, la piccola sorellina di Rade. Il loro padre, Pepin, aveva indottrinato per bene moglie e figlia. Mi interessò l'albergo, faceva parte del mio rapporto con la storia di Valsantamarina. Per noi era sempre stato nient'altro che il Contovo", la villa di un conte a pochi passi dalla nostra dimora estiva, mai visto il conte, mai visto nessuno li dentro. Una confusa, selvaggia vegetazione aveva ricoperto le tracce di quello che doveva essere stato, un tempo lontano, un bel giardino, con scalinate e putti. L'edificio era piatto e lungo, come quegli edifici che si vedono nelle foto della campagna ungherese. Era tenuto bene. Ermeticamente chiuso. Le persiane intatte tenevano lontani eventuali intrusi.

Ora era diventato un edificio a due piani, le persiane spalancate aperte, sul davanti una pista da ballo con intorno tavolini ricoperti da tovaglie linde, dei piccoli prati ancora infiorati, la scalinata lucida, bianca e bianchi i putti. Una meraviglia. A sera ebbero inizio le danze e gli spettacoli. Noi ci si era già coricati ma avevamo le camere proprio sopra la pista da ballo e l'orchestrina. I bambini vollero scendere, c'era anche il solito orso grigio incatenato che ballava al ritmo della musica. Ci sedemmo. A noi ci si unì subito Ivo Rossovich al quale riferii della ramanzina del padre. Mi promise che si sarebbe ímbarcato quanto prima e mi diede i suoi dati per riferirgli ad un qualche armatore di Genova. Rimase al nostro tavolo (io pagavo le consumazioni) mentre alcuni stranieri affollavano la pista. Poi giunse il "clou" della serata, una bella ballerina inizio a danzare in mezzo all'ovale della pista, privandosi, gradualmente dei suoi indumenti, indossava un abito nazionale ungherese con il tricolore verde bianco e rosso della bandiera del suo paese sui lunghi nastri tricolori dei quali si sbarazzava tra una movenza e l'altra al ritmo di una "tciarda" e ponendo in vista dapprima i suoi indumenti intimi ricchi di ornamenti ricamati come usava un tempo e rimanendo infine completamente ignuda. Un nudo integrale quindi. Guardai dapprima i miei bambini che seguivano la scena senza commenti e poi mia moglie che mi fece cenno di non intervenire.

La ballerina, capelli rossicci con piccoli boccoli, si rivestì rapidamente sedendosi del tutto disinvolta, ad un tavolino non distante dal nostro. Accanto a lei si sedette un uomo quasi calvo con una faccia piacevole che dapprima le baciò garbatamente la mano e poi si diede un occhiata in giro. Il suo sguardo si fermò un attimo su Ivo, poi il suo volto espresse una viva sorpresa, si alzò e mi venne incontro "Tonci, cosa diavolo ti fa qua? Non ti me riconosci?, xe passà del tempo ma non son ancora cussì vecio. Son el Tomiza dell'Armanda: Questi chi xe, tua moglie e i tuoi fioi? Signora, la me scusi ma ghe lo porto via un momento." E mi trascino al tavolo della ballerina ungherese. "Le bele mule non le se poi lasar sole se no i te le ruba subito."

Era diventato ingegnere navale e aveva da non so quale parte un cantiere per barche in vetroresina. Chiacchierammo a lungo mentre la ragazza ungherese s'introduceva ogni tanto nei nostri discorsi in uno stento italiano. Avremmo fatto notte fonda se mia moglie non mi avesse richiamato, ad un certo punto, ai miei doveri di marito e genitore.

Fu questa la prima e, purtroppo l'ultima volta che tornai a Valsantamarina. E a Fiume. Fu come vivere in un sogno, un accavallarsi continuo di ricordi, di momenti di felicità, mai turbati da quei pochi isolati episodi di ripulsa da parte di quanti, un tempo, erano stati amici. E amici rimangono, erano i tempi di allora, dei primi anni del 1970.