Il salvataggio

di

Neumann Antonio




La nave è sempre la “Celerina” di bandiera svizzera, il mare è di nuovo la Baia di Hudson nell’estremo nord del Canada. Ora siamo nel settembre del 1962, attraccati per la seconda volta alla banchina del Silos di Port Churchill. Il comandante si è portato dietro moglie e figlia. Ha già fatto la sua visita a bordo il pilota dell’aereo che sorveglia la posizione delle banchise di ghiaccio nella baia. Si stanno già riformando lungo la costa. La breve stagione di Port Churchill sta per chiudersi. Si apre alle navi solo ad agosto e settembre, il periodo concesso dalle assicurazioni. Non ci sono più a giocherellare alla foce del fiume Hudson gli orsacchiotti bianchi. Le madri gli avranno spinti ben all’interno, lontano dalle carabine dei cacciatori esquimesi.

Domenica mattina, insieme al comandante ed i suoi famigliari ci siamo recati ad assistere alla Santa Messa dentro alla base missilistica. Linda, linda, pareti in azzurro chiaro, sopra l’altare una singolare Annunciazione, il Bambino Gesù nella culla è un piccolo esquimese, i suoi genitori indossano pesanti pellicce decorate con i cappucci rovesciati all’indietro a rivelarne le tonde facce abbronzate dal sole e dal riverbero della neve tutt’al intorno. I Re Magi sulle slitte trainate dai cani Uskies. La Stella Cometa sopra l’igloo sull’azzurro sfondo della corona boreale.

E intorno a noi i fedeli, donne esquimesi con bamberottoli infilati negli ampi cappucci, accanto a loro i cacciatori con i faccioni seri e raccolti, qualche americano della base in uniforme festiva. Una messa insolita e sicuramente unica. Al pomeriggio ritorna il pilota, basso, tracagnotto, cappelli rossi. Altre informazioni meteo, altro bicchierino di whisky e il giornale locale per me. Lo faccio quasi sempre, in ogni porto, mi piace leggere le notizie del luogo, mi sembra di legarmi al posto, alla gente. Questa volta a Port Churchill le autorità sono preoccupate. Un vecchio orso bruno si aggira intorno all’abitato, ormai troppo vecchio per cacciare, rovista tra le immondizie per qualche resto di pasti. E’ raro che si spingano così a nord ma anche loro sanno che la fame è una cattiva consigliera. Rappresenta però una minaccia per i bambini. E proprio oggi pomeriggio organizzeranno una “posse”, un arco di cacciatori per scovarlo e riportarlo nei suoi lontani boschi. Se no dovranno sopprimerlo loro malgrado.

Per l’indomani mattina il comandante Lugli di Genova, la moglie e la figlia intendono recarsi ad un “Eschimo Art Shop” dentro alla base per acquistare regalini. Un incidente in coperta lo trattiene a bordo. Debbo fare io da accompagnatore. Io mi attendo un qualcosa come gli empori della “Hudson Bay Company” di Montreal con le loro vetrine scintillanti di lucide pellicce e attrezzi in legno originali costruiti nei lunghi inverni negli igloo dalle esquimesi mentre i mariti sono a caccia. Le signore ed io rimaniamo delusi. E’ un “Art Shop” turistico”, con qualche incisione in legno colorata, qualche quadretto, statuine degli indigeni , sagome di orsi e orsacchiotti bianchi, robaccia per i militari americani. A bordo poi, delusione completa, sotto gli oggetti acquistati tanto per gli amici la scritta “Made in Hong Kong”.

Il giorno prima della partenza per Anversa, sul giornale locale la notizia che il vecchio orso bruno è stato abbattuto.

Siamo in navigazione verso l’Europa, verso Anversa. Questa volta il tempo non ci è favorevole. Passiamo da una depressione e l’altra, cielo grigio, grosse ondate, vento impetuoso. Non è un problema per la nave, bella, marina, stabile con il suo carico di grano e l’elica ben immersa nel suo elemento, il mare. E’ piuttosto un problema per la moglie e la figlia del comandante. Ambedue rinchiuse in cabina per il mal di mare. La stessa cosa accadde nella traversata di andata anche se il Nord Atlantico era abbastanza bonaccione. Così il comandante ed io desiniamo da soli nel vasto salone, ci penserà il cameriere di bordo a portare qualcosa di appetibile su alle signore.

E’ l’ultima domenica di settembre del 1962. E’ il dopocena, sono nell’ ufficio della mia cabina appiccicato alla mia radio personale per cercare di captare qualche stazione italiana con i risultati di calcio della mia Juventus, ma c’è il marconista svizzero che pesta a tutto spiano sul tasto del telegrafo (siamo nel 1962). Siamo amiconi per cui gli telefono se può sospendere la trasmissione per una ventina di minuti. E’ un gran bravo ragazzo, diverrà forse il vero eroe di quel salvataggio in mare. Mi informa che siamo in emergenza, un aereo passeggeri, un “Super Constellation” americano si trova in difficoltà. Lo ringrazio e mi levo subito di mezzo. Poco dopo mi convoca il comandante sul ponte. E’ ovviamente tutto al buio ma un po’ di luce fuoriesce dalla tenda della sala nautica e scorgo le sagome del timoniere, del comandante, del terzo ufficiale e poi vedo altre due figure sul lato sinistro della plancia, sono la moglie e la figlia del comandante il quale mi si avvicina e mi informa che un aereo è in procinto di ammarare sul Atlantico in tempesta, siamo in contatto radio con una “Alert Ship” (navi della Guardia Costiera inglese con posizione fissa in mare sulla rotta più seguita), la quale ci ha comunicato che siamo la nave più vicina alla posizione dell’aereo, posizione che dobbiamo raggiungere al più presto cambiando la rotta e puntando la nostra prora contro vento e mare. Mi ordina di preparare tutto per la virata e la prontezza del motore all’inversione.

Mi precipito in macchina dando la voce al primo ufficiale macchinista da poco smontato di guardia, al capo fuochista e all’elettricista. Aumento gradualmente i giri dell’elica, inizio ad effettuare le operazioni di cambio dalla nafta pesante a quella leggera e appena il personale di guardia e quello sopraggiunto hanno raggiunto le loro posizioni e mi hanno avvertito che ogni oggetto libero nei locali macchina è stato rizzato, avverto il ponte, con il telegrafo di macchina, la disponibilità a manovrare. Sul quadro di comando davanti a me ho anche un indicatore dell’angolo assunto dal timone che vedo iniziare a ruotare lentamente, improvvisamente sento una serie di scoppi in alto, è lo sforzo impresso al motore a porsi contro le ondate, le valvole di sicurezza lo avvertono, diminuisco i giri fino a farli smettere sempre seguendo con lo sguardo l’angolo del timone. Allorché questo ritorna nella posizione centrale, provo ad aumentare i giri fintantoché uno scoppio singolo mi avverte che ho raggiunto il massimo consentito della potenza. Lascio così scoppiettare di tanto in tanto la valvola starata quando probabilmente la prua si avventa su qualche ondata più alta.

Rimango ancora un po’ ad osservare che tutto prosegua bene e quindi risalgo sul ponte. E’ tutta una schiuma bianca di mare che si abbatte con violenza contro i vetri delle finestre della plancia. Siamo tutti illuminati per segnalare la nostra presenza. Puntiamo vero il cielo il forte proiettore per l’avvistamento dei ghiacci. Il comandante mi informa che l’aereo è ammarato e c’è in mare un e che siamo vicini all’ultima posizione segnalata dal pilota. Nell’ammaraggio è stato aiutato con il lancio di “flares” (razzi illuminanti) da un aereo della Guardia Costiera, sapremo poi che si tratta di un sergente dell’aviazione statunitense partito immediatamente da una base militare in Irlanda fin dalla prima segnalazione di difficoltà del pilota del “Super Constellation”. La nostra nave si scuote tutta affrontando le ondate ma procede imperterrita. D’un tratto sentiamo sopra di noi il rombo di un aereo, esco anch’io sull’aletta laterale del ponte, e scorgiamo le luci di via del piccolo aereo di soccorso, balla anche lui contro la forza del vento, deve avere un bel coraggio lassù quel ragazzo. Si mette di prora indicandoci in tal modo la direzione da seguire, il fascio di luce del nostro proiettore già cerca tra le creste delle onde se ci sono dei superstiti.

Ad un certo punto il piccolo aereo di soccorso si mette a girare in tondo, noi ci si ferma, il pilota inizia a lanciare in mare i “flares” che non sono proprio razzi, si innalzano all’inizio poi scendono lentamente illuminando la zona, si vede che ha individuato qualcosa ma ora per noi la visibilità in tal modo peggiora, Ci sono gli spruzzi sollevati dal vento sul mare in tempesta, le creste d’onda che si rompono, poi, improvvisamente scorgiamo una piccola luce che ballonzola tra un’onda e l’altra. E’ bella e chiara, la luce emessa da una torcia elettrica a mano. Vi puntiamo sopra il riflettore ed ecco comparire un “life raft”, un gommone di salvataggio con tante teste dentro, sorprendentemente per la maggior parte rasate. In quel mare non è possibile per noi lanciare in mare la motolancia di salvataggio. Per giunta si verifica un primo episodio di codardia, discutendo sull’opzione lancia, il primo ufficiale di coperta (Palermo) ed il secondo ufficiale di coperta (Napoli) si rifiutano di prendere il comando dell’imbarcazione mentre il mio primo (Olanda) e il mio terzo litigano fra di loro per imbarcarsi sul mezzo. Io decido per il terzo, è un pescatore ed è più pratico di piccoli motori.

Il comandante, comunque, decide per l’abbordaggio, esegue un primo tentativo per portarsi accanto al gommone ma un ondata ed il vento lo allontanano, pone quindi al traverso del mare e del vento la nave che ora, spinta dai marosi si accosta lentamente al gommone fino a che questo si blocca sulla murata di dritta in prossimità della stiva 3. Tenendo stretti a se dei cavi, il carpentiere svizzero si butta letteralmente in mezzo ai naufraghi, e lì connette solidamente ai tientibene. del “life raft” mentre la loro estremità a bordo vengono assicurate ai tieni bene della coperta del “Celerina”. A scriverlo si fa presto ma per questa operazione ci si impiega ben due ore.

Ora il gommone con il suo carico di superstiti è solidamente assicurato e si tratta di far salire a bordo quei poveretti mentre la gomma stride contro il ferro della murata a seconda come l’investono le ondate, facendolo salire e scendere su e giù con quel stridio funesto, reggerà?. Su quel lato della murata viene calata una “giapponese” (rete per scaricare i sacchi di frumento), il carpentiere la sistema per bene e quindi assume il compito di aiutare i naufraghi a salire a bordo, ci si accorge che quelli a testa rasata sono tutti militari e sono loro i primi a tentare l’avventura dell’arrampicata sulle ampie maglie della rete. Attaccati con una mano al tienitibene della “Celerina” due marinai issano di peso a bordo quanti si presentano, altre mani li posano in coperta e li accompagnano dentro, nelle cabile. Appena si apre uno spazio dentro al gommone (destinato a contenere 25 persone ne raccolse 51), viene data la precedenza alle donne, a riceverle e prendersi cura di loro saranno la moglie e la figlia del comandante.

E’ quasi l’alba quando sono tutti a bordo, inclusi una donna e un uomo deceduti e un terzo che s’accascia e muore appena messo il piede in coperta. Intorno alla “Celerina” si sono nel frattempo raccolte una decina di altre navi accorse all’avviso di soccorso in mare e adesso lo frugano alla ricerca di altri superstiti.

Ad un certo punto il comandante mi richiama sul ponte, dal centro di soccorso in Irlanda desiderano che comunichiamo i nomi dei superstiti, tra noi, dispersi nelle cabine dell’equipaggio vi sono anche dei feriti curati da un medico militare filippino che si trovava con la moglie a bordo del Constellation. Nella mia cabina ospito un colonnello dell’aviazione (marito della donna deceduta) e un giornalista del giornale dell’esercito U.S.A. “Star & Stripes”. Sveglio quest’ultimo e gli spiego il problema, ho timore che il mio inglese non sia sufficiente a sillabare i nomi, acconsente. Iniziamo ad ispezionare tutte le cabine, il nostro equipaggio si è sistemato alla meglio in due o tre cabine alternandosi a riposare tra un turno di servizio e l’altro. Ci prendiamo anche dei “Fuck you!” tra i superstiti mezzi addormentati ma infine abbiamo l’elenco.

Riceviamo ancora istruzioni dal centro di soccorso. Riprendere la nostra rotta e stabilire un incontro in mare, al mattino, con la portaerei canadese “Buonaventure” per trasbordarvi i feriti e ricevere viveri e generi di prima necessità per i naufraghi. Siamo così di nuovo in navigazione, in tutto questo tempo io e il mio primo ufficiali ci siamo alternati al quadro manovra in macchina, per una boccata d’aria in coperta ogni tanto. I nostri ospiti continuano a riposare nelle cuccette, stesi sui divani delle salette equipaggio e sottufficiali. Prima di coricarsi hanno tutti dovuto liberarsi del kerosene e delle divise od abiti zuppi poi gettati a mare, farsi una doccia e indossare quanto fornito loro dai membri dell’equipaggio.

Alle dieci del mattino l’incontro con il “Buonaventure” . Ancora il comandante che mi convoca sul ponte di comando, Dalla portaerei ci stanno facendo delle segnalazioni con la lampada “Aldis” da segnalazioni ma nessuno le comprende. Mi ricordo del colonnello d’aviazione in cabina mia, lo risveglio, brontola che lui è nell’amministrazione e che di segnali non ne mastica ma che gli sembra di aver visto sull’aereo un ufficiale pilota dell’”Air Force” con i capelli rossi.. L’altro mio ospite, il giornalista sente il parlottare e si offre .per aiutarmi. Ci dividiamo le cabine da visitare. Ha più fortuna lui. Mi porto il riluttante pilota sul ponte, si prende in mano la nostra lampada “Aldis” ed inizia a discorrere con i suoi colleghi canadesi. Un “fucking bastards!” e poi spiega al nostro comandante che deve portare la nostra nave parallela alla portaerei a lento moto controvento.

Siamo all’incontro con la “Buonaventure”, la portaerei canadese. Il mare è incrociato, cioè il vento è calato e le onde provengono da tutte le parti L’equipaggio si dispone a poppa intorno alla stiva numero 5. Giunge sopra di noi il primo elicottero, il primo dei feriti, una hostess bionda, giace sulla barella di bordo sulla boccaporta , il pilota dell’elicottero ha un compito ben difficile, le pale ruotano ad un due metri dall’albero di poppa che a volte divengono anche un metro a seconda dei movimenti della nave. Dall’elicottero fanno scendere la loro barella speciale al fianco della quale è legato un membro dell’equipaggio dell’ elicottero. Trasferiamo la hostess sulla barella speciale e li viene assicurata solidamente su istruzioni dell’aviere che ora l’’accompagna in alto, sulla larga porta del mezzo dove viene afferrata da altri ragazzi che la sistemano all’interno. Così si procede con gli altri feriti ed infine con le salme.

Ora sgombriamo la boccaporta della stiva mentre arriva un secondo elicottero che lascia cadere dall’alto dei grandi pacchi di cartone, evidentemente contengono viveri e beni di necessità per gli altri superstiti. Grandi risate quando li apriamo. Due contengono spazzolini per i denti. Altri due biscotti dall’aspetto indefinibile ed infine l’ultimo e pieno di fazzoletti di carta. Agitiamo ugualmente le braccia in segno di saluto e ringraziamento quando l’elicottero s’allontana verso la portaerei. Ia “Celerina” riprende la rotta verso Anversa. Attraverso le parole dei superstiti rimasti a bordo, apprendiamo che il “Constellation” precipitato in mare era partito da una base militare negli U.S.A., aveva fatto rifornimento di carburante nell’aereoporto di Halifax ma che subito, sin dalla partenza, i piloti s’erano resi conto che il rumore dei motori era insolito, poi s’era bloccato un primo motore, dopo qualche tempo il secondo, con due motori avevano superato il punto di non ritorno, sempre sperando di farcela, il bloccarsi del terzo li aveva costretti all’ammaraggio. Il comandante dell’aereo, rimasto a bordo della nostra nave, attribuiva l’accaduto ad una pessima qualità del carburante.

Il “Super Constellation” era un volo charter poiché gli aerei passeggeri dell’esercito U.S.A. non volavano se il tempo sull’Atlantico èè burrascoso, Le compagnie aeree che gestiscono i voli charter cercano sempre di risparmiare e da qui il pessimo kerosene imbarcato ad Halifax. Lo aereo era decollato con 76 persone a bordo di cui 3 bambini, al momento dell’ammaraggio, nell’urto contro le onde si erano completamente staccate la file di sedili sul lato sinistro premendo l’uno sull’altro gli infelici passeggeri. Ora a bordo erano rimasti 44 superstiti. Nel pomeriggio dello stesso giorno, chiacchierando su un aletta del ponte con il comandante Lugli, ligure di Chiavari, venivo a conoscenza di altri particolari delle operazioni del salvataggio. Si erano ancora distinti in senso negativo il secondo e primo ufficiale di coperta, il secondo essendo stato l’unico tra tutto l’equipaggio a rifiutare di porre la sua cabina a disposizione dei naufraghi, il primo per avere prestato assistenza a quella che aveva giudicato essere la meglio dotata tra le donne tratte in salvo e rimorchiandosela in cabina, sfortunatamente aveva pescato l’unica ad avere un marito vivo e vegeto, il medico filippino che, dopo aver prestato le dovute cure ai feriti ora premeva per aiutare la moglie per cui il il primo dovette abbandonare loro la cabina. Ebbe anche la faccia di andare a protestare dal comandante perché ora non aveva alcun posto dove riposare.

Si erano verificati anche comportamenti elogiabili, in priimis il marconista che continuava imperterrito a lavorare con i suoi tasti rispondendo alle tante agenzie giornalistiche che pretendevano particolari e offrivano laute compensazioni ritardando i suoi contatti con il centro di soccorso. Il comandante del “Constellation” che benché ferito e una vistosa fasciatura sulla testa aveva insistito nel rimanere per tutta la notte e l’alba per seguire le ricerche di altri naufraghi. Tra di essi vi era anche un caso penoso. Sull’aereo volava anche una coppia di giovani sposi freschi freschi. Lui sergente paracadutista, lei una ragazza profuga ungherese giovanissima, si erano recati negli U.S.A. per presentarsi ai genitori di lui ed ora stavano rientrando nella base militare in Germania dove il marito prestava servizio nella 92° Divisione aviotrasportata, distintasi particolarmente nella seconda guerra mondiale. Era comandata dal generale Patton. Al momento dell’impatto dell’aereo, erano riusciti ad abbandonare il SuperConstellation, ed il marito l’aveva infilata dentro al life-raft, il gommone di salvataggio, poi era scomparso. Mi sembra di aver già scritto in uno dei precedenti messaggi che il gommone era destinato a contenere 25 persone mentre in effetti ne avevano trovato posto ben 51. E’ facile immaginare la lotta frenetica, tra i superstiti, accanto all’aereo che affondava (scomparve in tre minuti), sbattuti tra le ondate, mezzoo asfissiati dai fumi del kerosene che si era sparso in mare per la rottura d’un’alta, con il chiarore rossastro dei razzi lanciati dal veivolo soccorritore, la prevalenza dei robusti ragazzoni paracadutisti sulle più deboli donne e sui bambini. E’ da arguire che il marito sia stato soprafatto in questa lotta, forse già esaurito dallo sforzo sostenuto per aiutare la moglie.

Una volta a bordo del “Celerina” fu aiutata dalla moglie e dalla figlia del comandante nella ricerca del sergente, non avendolo trovatò, tentò di rigettarsi in mare per ritrovarlo, Faticarono le due donne e qualche marinaio a trattenerla e a spingerla dentro ad una cabina evacuata prontamente, fu tentato di calmarla dallo stato di choc, le fu detto che c’erano già tante altre navi vicino, ed era vero, intente a salvare altri superstiti. Si abbrancò all’unico oblò della cabina scrutando il mare nella ricerca di scorgere il suo novello sposo mentre la moglie e la figlia del comandante le toglievano le vesti inzuppate di kerosene e di acqua di mare. E rimase così per tutti i giorni che precedettero l’arrivo ad Anversa. Sorvegliata a vista dalle due donne che si alternavano ininterrottamente al suo fianco. Nessuno a bordo ebbe il coraggio di dirle che non vi erano stati altri superstiti ma che erano stati ripescati solo quattro cadaveri.

Verso sera sorsero nuove preoccupazioni, alcuni dei salvati iniziarono a sentire dei dolorosi crampi agli arti inferiori, che presto si diffusero anche ad altri mentre aumentava l’intensità del dolore si che la notte trascorse tra i lamenti che uscivano da gran parte delle cabine. Il medico filippino si prodigò ancora una volta nel cercare di lenire la pene di quelli colpiti. Dopo una visita generale alle loro membra e parti inferiori ed un consulto tra medico, comandante della nave e comandante dell’aereo, si accertò che si trattava di ustioni causate dal kerosene che sciabordava all’interno del gommone tra i 51 corpi addossati gli uni agli altri e scaraventati in continuazione l’uno contro l’altro nel continuo movimento del mezzo tra un ondata e l’altra nelle due ore che precedettero il loro ricupero. Perciò, intorno alla mezzanotte fu ristabilito il contatto con il centro di soccorso in Irlanda che fu messo al corrente della situazione in sviluppo sulla “Celerina”, il centro fu informato delle ustioni e del kerosene e dell’impossibilità, con i mezzi di bordo, di ovviare alle sofferenze dei colpiti. Dopo circa un’ora, il centro comunicò al comandante della nave di dirigersi verso il porto di Cork, nel sud dell’Irlanda, rimanendone però al largo in modo di effettuare il trasferimento dei malati, per mezzo di elicotteri all’ospedale attrezzato. della città.

Agenzie di stampa che evidentemente intercettavano le comunicazioni tra la nave e il “Rescue Center” diffusero subito la notizia e vi fu qualcuna che al sentire parlare di ustioni, comunicò che a bordo dell’”Celerina” si era verificato un incendio e che un certo numero di persone, rimaste ustionate sarebbero state ricoverate nell’ospedale di Cork, il centro di soccorso chiese subito una conferma, svegliarono anche a me per sapere se magari in macchina si fosse sviluppato un incendio. Una telefonata all’ufficiale di guardia rassicurò me ed il comandante che potè così smentire subito l’allarmante notizia al “rescue”. Comunque la smentita non fu sufficiente per impedire la iniziale diffusione allarmistica per cui , nella loro edizione mattutina, in Italia il “Corriere della Sera” di Milano, il “XX Secolo” di Genova ed altri quotidiani al Sud diffusero la notizia dell’incendio a bordo per cui dei parenti in Italia dei marittimi imbarcati sul “Celerina” presero il primo treno in partenza per raggiungere Anversa. Per mia fortuna, “Il Resto del Carlino” di Bologna pubblicò tanto la notizia del presunto incendio che quella della smentita per cui mia moglie ed i miei non ebbero a preoccuparsene. I giornalisti alle volte!

Il mattino seguente fermammo sempre in alto mare e senza avvistare la costa, intorno alle ore 10.00 quelle stabilite per l’ appuntamento. Ancor prima degli elicotteri giunsero tre piccoli aerei civili che presero a girare intorno alla nave evidentemente per riprendere con delle cineprese il trasbordo. Attraverso il radiotelefono informammo il centro della loro presenza e del pericolo che essi avrebbero potuto recare alle previste operazioni. Non avemmo da attendere molto che comparvero velocissimi due caccia dell’aviazione militare che provvidero ad allontanare a debita distanza dalla zona i tre intrusi. Dopodiché iniziò la girandola di due elicotteri che si portarono sempre all’altezza della stiva numero 5, le condizioni del mare erano ben differenti da quelle del giorno precedenti e più agevole fu il compito dei loro piloti. Infine lasciarono cadere a bordo un quarto di manzo e scatolame con pasta ed altre necessità per la cucina.

Il giorno dopo, mentre si attraversava la Manica, vi fu un tentativo di abbordaggio da parte di un peschereccio carico di giornalisti. Un getto di acqua di mare attraverso le nostre manichette antincendio in coperta fu sufficiente ad allontanarli. L’indomani mattina, all’alba, giungemmo davanti all’’estuario del porto di Anversa dove ci si avvicinò rapidamente la pilotina con il pilota che sarebbe poi il pratico della navigazione e delle manovre in porto, una specie di coadiuvatore del comandante ma senza assumerne la responsabilità ultima. Io al solito giù, al posto di manovra davanti il quadro dei comandi del motore principale. Alle 08.00 smonta la prima guardia che viene assunta dalla seconda con il 3° Ufficiale di macchina. Il primo con i suoi risale in coperta. Giù rimango ancora io con il 3°, il suo motorista, l’operaio meccanico sulle testate in alto sul motore e l’elettricista al quadro elettrico. Non amo gli affollamenti che creano solo confusione.

Intorno alle 10 scende di corsa il primo macchinista che mi prende i comandi e mi incita a correre in coperta per vedere quello che succede fuori. Stiamo percorrendo il canale, vengo assordito dal frastuono di decine di festose sirene delle navi ormeggiate lungo le rive, esibiscono tutte il gran pavese, alla loro poppa, marinai accanto alla bandiera nazionale di ciascuna la issano e la ammainano più volte insegno di saluto alla nostra, quella svizzera del “Celerina”. E’ un onore di tutta la marineria presente in porto verso i marinai che hanno portato a termine il salvataggio in mare dell’aereo. E’ uno spettacolo difficile da esprimere, come emozioni suscitate in noi, come orgoglio, come il pensiero della tradizione rispettata dell’aiuto vicendevole in mare, mi vengono in mente anche le decine di navi che erano rimaste sul punto della sciagura per continuare le ricerche di altri eventuali naufraghi. Una tradizione in mare rispettata da secoli di navigazione.

Alle 11 siamo attraccati alla banchina passeggeri del porto. Sulla sua vasta distesa autobus, autoambulanze con la scritta U.S.Army, militare in tenuta oliva, crocerossine, un gruppo di alti ufficiali con alte visiere e petti coperti da medaglie, giornalisti, fotografi, operatori con grosse cinepresee. Tre degli alti ufficiali salgono a bordo mentre due marines armati si pongono davanti allo scalandrone. In coperta essi vengono accolti dal comandante del “Celerina” Lugli e dal comandante del “Constellation” precipitato in mare che poi li accompagnano nel salone. Dopo un po’ ne scende uno degli ufficiali che da disposizioni in banchina, Si avvicina un’autoambulanza ed un gruppo di infermiere. Due di esse salgono a bordo e ne escono subito dopo sorreggendo in mezzo a loro la sposina ungherese che si guarda in giro smarrita, le si avvicina un’infermiera anziana che la informa, sapremo poi, bruscamente, che non ci sono altri superstiti dell’aereo, lei sviene e la sorreggono a stento le due accompagnatrici, accorrono altre infermiere, dall’autoambulanza esce una barella sulla quale viene posta la donna esamine. Una linea di militari U.S.A. blocca, sul nascere, ogni movimento di giornalisti od operatori.

A sera conferenza stampa in una grande sala delle conferenze di un albergo, pieno zeppo di giornalisti. Quando vi entriamo, il Comandante Lugli, sua moglie, la figlia ed io non c’è una seggiola libera cosicché mentre il comandante viene accompagnato al grosso, lungo tavolo delle autorità militari e civili, noi ci accostiamo ad un muro laterale al quale rimaniamo addossati. Iniziano i discorsi in inglese e in belga. Prolungati applausi al comandante Lugli che risponde un po’ in inglese un po’ in italiano. Accanto a me la moglie che ad ogni ovazione verso il marito singhiozza silenziosamente mentre le lacrime le scorrono giù dagli occhi.Tra le autorità è presente, occorre citarlo, anche l’ambasciatore italiano che è stato il primo a stringere la mano al nostro comandante. Assente quello svizzero, assenza notevole che ha suscitato larghi echi sfavorevoli nella sua patria.