Lungo le coste dell'America

di

Neumann Antonio




Sono imbarcato sulla T/c “OPEQUON”, nome di un corso d’acqua nella Virginia, bandiera panamense di convenienza, in qualità di Allievo Ufficiale di Macchina. L’anno è il 1951. Siamo in navigazione tra Campana (Argentina) e Caripito (Venezuela). Il T/c sta per turbo cisterna ma questo tipo di nave e più comunemente chiamata T/2, insieme alle navi “Liberty” ne vennero costruite a centinaia nei cantieri navali U.S.A. nello sforzo bellico di questi nella Seconda Guerra Mondiale, al suo termine molte T/2 vennero assegnate ad armatori stranieri collegati agli U.S.A. oppure ormeggiate nelle piccole città costiere centro americane per fornire loro l’elettricità. La propulsione delle T/2 era difatti assicurata da due caldaie a vapore e da una turbina che azionava un grosso e potente alternatore al cui asse era collegata l’elica.

Nell’immediato dopoguerra, come nelle Liberty così anche nelle T/2 approdarono numerosi marittimi, esuli giuliani, sulla “Opequon” vi era il comandante Klinger di Pola, due fuochisti, Prosettich di Pola e Barbadoro di Fiume e lo scrivente. Vi imbarcai a Caripito a fine marzo del 1951 ma dopo due mesi fui colto, mentre in navigazione, da un attacco di appendicite per cui, in attesa dell’arrivo al porto, venni obbligato ad un strettissimo regime di pere cotte per cui le odio ancora oggi. Caripto era un porto petrolifero nel quale le petroliere attingevano, come carico, il crude oil venezuelano. Per raggiungere Caripito bisognava risalire il corso del San Juan, un affluente dell’Orinoco, si navigava attraverso una densa vegetazione tropicale abitata da una popolazione indigena che viveva ancora su case di palafitte ai bordi del fiume. Un serio inconveniente sul suo estuario era costituito dagli sciami di una farfalla, chiamata “farfalla di Caripito” che produceva profonde ulcerazioni sull’epidermide fino a richiedere, nei casi più gravi, il ricovero ospedaliero. Malgrado il caldo afoso, l’equipaggio era indotto a indossare abiti completi e ricoprirsi con asciugamani il capo e il collo, assicurando nel contempo la perfetta chiusura di oblò, porte, maniche a vento, perfino le retine sugli oblò dei locali interni erano insufficienti alla bisogna perché la farfalla ci si posava facendo filtrare all’interno la sottile polvere bianca perniciosa del suo ventre.

La città di Caripito era costituita da un agglomerato da case in legno per i nativi, da una vasta area dove sorgevano gli impianti di raffinazione, studi geologici, officine e le abitazioni dei tecnici ed operai della Creole Petroleum Co.. Tutto all’ intorno la foresta tropicale da cui emergevano qua e là le torri di trivellazione ed estrazione.. Su una sdraducola fangosa raggiunsi l’ospedale dove fui immediatamente ricoverato in uno stanzone occupato da tre nativi. Esisteva l’area per i bianchi ma in quel momento non ero in grado di discernere. S’interessò a me un alto e biondo chirurgo tedesco e non tardò molto che fui introdotto nella sala operatoria, il tempo di rimanere abbacinato dalla larga lampada sopra la tavola operatoria per poi cadere nel sonno indotto. Il mio risveglio fu scioccante, un’infermiera piuttosto robusta mi stava prendendo a ceffoni, a tutta prima pensai che forse l’avevo involontariamente pizzicata dove non si deve ma poi gridai: “Che diavolo fai?” “Ooooh! Ti sei finalmente destato.” E trascorsi un tre quattro giorni in quella stanza. Dappertutto brulicavano i “cacaraci”, quella specie di blatte gialle dei climi caldi, alla sera poi l’ora delle visite, intere famiglie e nidiate di bambini nativi in interminabili chiacchiericci con i degenti. Ad un certo punto i ragazzini, vistisi disertati dai genitori, s’affollavano intorno al mio letto e rimanevano lì belli muti a fissarmi e la cosa m’imbarazzava così mi rigiravo a fissare a mia volta la nuda parete.

Venne il giorno in cui venni dimesso. E mi portarono in un ufficio della raffineria dove mi comunicarono che avrei trovato alloggio, in attesa del ritorno della mia nave, nell’enclave dei nativi. E quì piantai una grana violenta da non finire. Gli è che, stando all’ospedale, mi ero un po’ ambientato, nel reparto dei dipendenti della Creole avevo incontrato una signora torinese anche essa ricoverata e suo marito, ingegnere minerario incaricato delle ricerche, avevo così appreso delle sistemazioni per bianchi e per nativi. Mi trovavo in mezzo ad una stanza al cospetto di due impiegati venezuelani che, a tutti i costi, volevano cacciarmi in mezzo ai nativi dell’agglomerato, accanto a me la mia valigia. Io insistevo: “Sono un ufficiale della marina mercantile ed ho diritto ad un trattamento da ufficiale, you big bastards!!” Andò a finire che mi misi a sedere sulla valigia dichiarando che non mi sarei mosso da quella posizione se non fossi stato ammesso in un qualche alloggio nelle residenze della raffineria, loro insistevano nel darmi del razzista, i miei ”fucking you” sonori richiamarono l’attenzione degli uffici vicini da cui infine emerse un tipico americano che volle sapere da me la questione, come la sentì, inveì contro quei due impiegati e mi trascinò, me e valigia, nel suo ufficio, un paio di telefonate e, al di fuori comparve un camioncino della Creole che mi accompagnò nella zona residenziale con tanti prati verdi e casette con tetti rossi e due camerette in ciascuna, divise da uno spazioso corridoio in cui troneggiava un grosso frigorifero. Mi sistemai in quella vuota.

Nel tardo pomeriggio giunse l’altro ospite di quella specie di chalet, un americano del New Jersey, sposato con una polacca la qual cosa creò tra noi una subitanea amicizia perchè si divertiva a sentirmi citare parole croate che più o meno si assomigliavano a quelle polacche. Più tardi mi accompagnò nella vasta sala da pranzo dei tecnici e qui rincontrai l’ingegnere italiano che, alla fine del pasto, mi condusse dapprima a casa sua per un contatto radio con i suoi suoceri a Torino e poi uscimmo a fare un giro in macchina tra i sentieri della foresta nella quale, qua e l’là, si alzavano al cielo le fiammate dei gas delle torri di trivellazioni collocate su larghe spiazzate ben lontane dai tronchi d’alberi della foresta. Era uno strano spettacolo quello con la nera, spettrale sagoma delle sovrastrutture, poste in risalto dai gas infiammati, il buio cupo della folta vegetazione circostante lo spiazzo, il sibilo del gas in uscita, il cinguettio dei volatili e le strida delle scimmie celate tra i rami.

Trascorsero così i giorni di attesa del ritorno dell’”Opequon” leggendo libri tratti dalla biblioteca della Creole, trascorrendo le serate insieme all’ingegnere torinese, interessante una visita al reparto della raffineria dedicato agli studi geologici, alle mappe delle trivellazione con lo spaccato, in modello, di una trivella dall’impianto sulla superficie terrestre fino alla trivella vera e propria nel sottosuolo, il sistema dei fanghi iniettati in pressione per raffreddare la trivella stessa e per riportare la pressione nella falda petrolifera al fine di far salire in superficie il crude oil, cioè il petrolio greggio. Dopo circa quasi un mese rientro dell’ “Opequon” e mio reimabarco sulla stessa.

Un altro viaggio per Campana e poi a Curacao, nelle Antille olandesi. Non più petrolio greggio ma nafta pesante per i porti dell’America Latina sul Pacifico. L’equipaggio è più o meno lo stesso. Chiuso e scorbutico il comandante. Sempre in cabina il direttore di macchina, già ufficiale nella marina militare, intento a costruire pupazzi e pupazzetti con gli stracci d’uso di macchina nella quale, tra parentesi, non l’ho mai visto scendere. Il mio primo ufficiale proviene anche lui dalla marina militare dove ha percorso la sua carriera fino al grado di maresciallo nel reparto vestiario di La Spezia, alla fine della guerra, per effetto della riduzione del personale, è stato concesso loro di imbarcare da ufficiali sulle navi di bandiera estera. Considerato la sua precedente esperienza trascorre i suoi e miei turni di guardia su una seggiola appoggiato al lungo quadro elettrico di manovra, bell’e appisolato. E mia cura, tra tutte le altre, badare quando la nave rolla, di non far cadere per terra lui e la seggiola. Stessa levatura anche il secondo, ex furiere, con un po’ di esperienza il terzo con regolare libretto di navigazione della Marina Mercantili. Vi è a bordo una vasta letteratura tecnica, in inglese ovviamente, che divoro rapidamente per rendermi in grado di comprendere il funzionamento di quel impianto, nuovo per me.

Ho scritto di due istriani nel personale di macchina, tutti e due fuochisti. La guardia in macchina è composta da un ufficiale, un ingrassatore ed un fuochista. Uno, il palesano è un anziano del mestiere, cresciuto nella Marina austro ungarica, un gran brav’uomo, con tre affondamenti nel corso della guerra, per tale motivo è rimasto un po’ scosso, scatta al minimo rumore imprevisto, non ci vede molto, i livelli della caldaia sono posti in alto e talvolta gli vengono dei dubbi sull’altezza dell’acqua per cui compare improvvisamente nel locale turbine dove vi sono i ripetitori a distanza dei livelli belli colorati a cui si rivolge con un respiro di sollievo, guarda l’ufficiale e ritorna in fretta nel locale caldaie. E’ un po’ scosso, ho detto, e c’è chi, del personale ne approfitta e durante il suo turno di guardia alla notte dall’alto del accesso del corridoio in caldaia fanno cadere un bugliolo al di sotto con gran fracasso, il poveretto scappa accanto alle turbine, vede che tutto e in ordine e piangendo torna alle sue caldaie. Mentre sono di guardia la cosa si ripete un due volte. Alla terza, mi precipito nel locale caldaie, sollevo il bugliolo, mi arrampico rapido per gli scalini, mi affaccio al corridoio e lancio con violenza il bugliolo nel corridoio dove esso rotola fino alla paratia. La cosa si ripete la sera seguente, rimango nel corridoio, sento le proteste di chi dorme, qualcuno s’affaccia dalla cabina, mi affrontano: “Fino a quando dura la faccenda?” . “Fintantoché non la finiate voi di vessare quel poveraccio”. E la cosa finisce lì. Diversa è la posizione dell’altro fuochista, il fiumano Barbadoro, famoso pugile. Sua moglie ed una figlioletta vivono a Ponte di Savignone, un trecento metri da Savignone dove abitano i miei famigliari. E’ un carattere un po’ difficile, gli piace bere ed abbonda per cui diventa litigioso. Primi ufficiali e a volte anche il direttore di macchina mi chiamano per sedare risse, come mi vede si ferma. E si mette a chiedere scusa a tutti. “Sior Neumann …. inizia a piagnucolare, non lo diga ha mia moie de quel che fazio quà, la prego, mi provocano, tutti mi provocano …”. Peccato, è un bravo fuochista, il più bravo di tutti. Una notte, verso le due, mi vengono a svegliare direttore e il secondo ufficiale di macchina che è di guardia “Vada giù, vada giù a vedere cosa succede nel locale caldaie il suo concittadino” mi fa il direttore. Perché, cosa ha combinato chiedo al secondo. “Ha smontato tutto il quadro di controllo di entrambe le caldaie e ha sparso tutti i pezzi, tubi, manometri, per terra. Tuta e giù. Barbadoro, tutto tranquillo e soddisfatto mi fa: “Eco Sior Neumann, la vede come facio andar le caldaie senza tuti questi automatismi.” e mi indica i pezzi per terra. E’ accanto a me e sento il suo alito. E’ ubriaco fradicio, vicino a me il secondo fa: “E adesso cosa facciamo?” Lo invito a riprendersi la guardia davanti al quadro turbine. Scuote la testa e se ne va. Mi rivolgo al Barbadoro: “Ora che ti ga visto come vanno le caldaie senza tuta sta rumenta, te dispiasi rimeter tuto come prima. Non tuti i xe bravi come ti.” “Si sior, si sior, la stia qua con mi e ghe mostrerò come se fa.” Ed inizia a raccattare tubi, tubicini, manometri, valvole e rimetterli a posto sui quadri di controllo dando ogni tanto un’occhiata ai livelli dell’acqua in caldaia. Provvede rapido, avvitando dove c’è da avvitare, inserendo dove c’è da inserire. Mezz’ora o forse qualcosa di più e tutto il quadro del controllo della combustione è bell’e a posto. E conclude: “Voio proprio veder se tuti quei altri mona i gaveria sapudo far come mi.”. Rimango giù, con lui fino alla fine della sua guardia. Il giorno seguente mi verrà a piangere in cabina. “Non la ghe stia contar a mia moie, la prego,m non la ghe stia contar.”.

C’è il passaggio del Canale di Panama, impressionante la prima volta con tutti quei carrelli elettrici che trascinano silenziosamente la nave da una chiusa all’altra, poi la prima sosta breve a Mollendo, Perù e quindi Arica, Iquique dove venni promosso terzo ufficiale di macchina e messo a ruolo come tale, S.Antonio, Concepcion in Cile. Ritorno nei Carabi, questa volta a La Cruz sempre in Venezuela, quindi a Boston con ritorno a La Cruz per un carico da portare in Islanda, dapprima in una baia, attraccati ad un pontile di legno e con accanto un largo scivolo anch’esso in listelli di legno sul quale robusti verricelli a vapore tirano a secco le balene che piccole baleniere trasportano trascinandole ai due bordi. Una volta sullo scivolo le balene vengono squartate a pezzettini ed infilate attraverso delle aperture sullo scivolo dentro a sottostanti caldai dove esse si trasformano in grassi od olii. Tutto ciò avviene in una zona attraversata da un forte vento costante per cui nell’aria non vi è alcun sentore sgradevole. Ad un certa distanza delle basse colline con delle fumarole naturali di vapore bianche, lo stesso vapore usato nei caldai. Infine sosta a Reikiavik, la capitale dell’Islanda, una bella cittadine con delle linde casette e tante belle ragazze.