Moschetti e stuccagnize

di

Neumann Antonio




“FIAAANK AAARM! “BAIONETAAA!” “PRESENTAAAT ARM!” Ed ora quello ricomincia con l’allineamento ed io debbo tenere sto affare che pesa un accidente per l’aria. Siamo cresciuti ed ora siamo balilla moschettieri intruppati alla Casa Balilla. I moschetti sono ovviamente senza otturatore la qualcosa a noi, altrettanto ovviamente, sembra quasi una beffa. Alla fine il graduato è soddisfatto e ci da il “FIAAAANK ARM!”. E non è finita, ora è “FIAANK SINISTR, SINISTR!” a cui segue “SPAAL ARMA”!” e “AVANTI MAARCH!”. E noi a marciare cadenzati sulla carbonina del vasto campo di calcio di Casa Balilla.

Si, la nostra esistenza si è un po’ complicata. Anche alla scuola, le Medie dell’Istituto Tecnico Commerciale, le cose non vanno come dovrebbero. Gli è che, esauritosi il nostro entusiasmo e la nostra curiosità di maschietti nell’ essere assegnati alla Sezione A mista, di fronte alla più completa indifferenza delle nostre compagnucce, non c’è che rimasto lo studio dell’”Iliade” e dell’”Odissea” e le astruosità della geometria e dell’algebra, per non parlare poi del latino. All’Istituto Tecnico Commerciale” troneggia la figura del Prof. Sirola, il Preside. Che dire dei miei professori. Che dire del capoclasse, il Prof. Delli Galzigna, zaratino. Ha il naso fragile, dicono che sia falso, che sia un naso di cera. Sarebbe un gran brav’uomo se non gli piacesse tanto il bere, se non cadesse ogni tanto. Se non gli accadesse, durante le gite scolastiche a Drenova, attardarsi troppo da Vinas per cui, al ritorno, si doveva noi prestare attenzione alle sue andature incerte.. Infine lo affidavamo a due ragazzi suoi vicini di casa, per riaccompagnarlo. I Del capoclasse le materie di italiano, latino, storia e la geografia. Se rammento bene professore di matematica era la Prof. Viviano. Un donnino minuto, piuttosto acido, Inflessibile. Specie con me. Di scienze naturali c’era la Ceilon o qualcosa del genere, non ricordo, attempatella ma brava. Nella lingua inglese dopo una prima infelice esperienza con il Prof. Repoli, siciliano, mai stato vicino all’Inghilterra e quindi con pronunce tutte sue che mutavano ogni qualvolta ripeteva quella stessa parola, dopo di lui la Miller, seria e brava. Non posso lasciare fuori il buon Natalino, il nostro bidello, che spesso cercava di tirarci fuori ogni volta che andavamo a cercarci un qualche guaio.

E come non rammentare le neghittose colleghe di classe che per quattro anni ci hanno ignorato nel modo più sfacciato. Al primo banco c’erano, inseparabili, la Tavolato, una seria morettina, e la bionda Vigori, più facile a rari sorrisi. Dietro a loro le prime della classe, la Herskovitz, quella dei mobilieri, una sfinge addirittura, e la Blandi, la figlia del maestro Blandi, con il nasino sempre all’insù. Poi la Calcich, la Coacci, l’ Ambrosio il cui fratello giocava al calcio nella squadra dell’Istituto, un bel ragazzo alto, più tardi assassinato brutalmente, come sottotenente di fanteria, da partigiani mentre, nel mercato di un villaggio slavo, acquistava provviste per il suo reparto. Poi, per uno o due anni ricordo una Conighi, moretta, la Smareglia di Pola, una bella bionda, l’unica che ci donasse un po’ di confidenza. Concludo con la Bianca Lenardon e passando ai maschietti con il suo fratello Silvio. Altri nomi , anche se forse non tutti, Berger (anche lui dei mobilieri), Brazzoduro, Vezzil. Io e Vezzil eravamo gli ultimi della classe. Difatti, agli esami per l’ammissione alle superiori fummo entrambi bocciati.

Fu un evento memorabile, non la bocciatura, quella era scontata, ma quanto accadde a Fiume quel giorno, circa metà giugno del 1938. Quindi, io mi trovavo a scuola, in aula dove ci trovavamo io e la professoressa di latino della commissione esterna. Da un buon quarto d’ora eravamo fermi a “Gallia omnia est …….” di cui ignoravo il seguito quando, dal di fuori, ebbe inizio uno scampanio festoso, un suonare di sirene dagli stabilimenti e dalle navi in porto. Ci si chiedeva cosa stesse accadendo quando la porta dell’aula si aprì di colpo rivelando Natalino, il nostro bidello che, tutto infervorato grido’: “Il Duce, il Duce, è arrivato a Fiume con un grande aereo! Dobbiamo andare tutti in piazza Dante, si sospendono gli esami.”.. Uscimmo tutti immergendoci in quel frastuono e giù, quasi correndo, per via Carducci, piazza Elena e poi il Corso, era già una folla che si dirigeva e che si stava assiepando sotto il balcone della Casa del Fascio. Gente che sbucava da tutte le vie laterali, e premeva sotto al balcone, nella calca vidi anche mia madre, in quel periodo non stava bene ma si era ugualmente sollevata dal letto e, vestita alla bell’e meglio, s’era fatta aiutare dalla domestica per uscire. Non avevo mai visto il corso e piazza Dante così affollati, perfino i tram erano bloccati dalla gente. Infine comparve il Duce in tenuta di aviatore, e tutti a gridare da matti: “Duce…. Duce…. Duce. Disse qualcosa ma non afferrai le sue parole perché ad ogni sua frase, veniva interrotto da scroscianti applausi e rinnovate invocazioni. Accoglienza, questa, che gli era riservata in tutte le città italiane.

Qualche anno dopo, molte cose erano avvenute nel frattempo, mi trovavo su un palco in legno frettolosamente allestito proprio accanto alla ex Casa del Fascio, inviato da Erio Franchi, direttore della “Voce del Popolo”, a commentare la visita di Tito, a Fiume. V’erano diversi giornalisti di fuori Fiume che facevano a gara nello stimare il numero dei presenti in 100, 200 o addirittura 300 mila mentre la città, a quei tempi ne faceva circa 60.0000 scarsi. E’ comparve Tito, un gran mantello, di raso certamente, nero di fuori, di un rosso vivace la fodera interna. In testa una grande visiera verde con un grosso cordone dorato. Sul petto della divisa file di decorazioni scintillanti. La folla, se vogliamo chiamarla così, composta da operai prelevati dagli stabilimenti industriali, molti in tuta da lavoro, e altri palesemente gente del contado. I consueti “Zivio Tito, Zivio Tito” che poi si spegnevano in fretta, qualche applauso durante il discorso (m’era già stata fornita la traduzione in redazione).

Ma ora debbo parlare del titolo di questo articolo. I moschetti con o senza otturatore sono già stati affrontati all’inizio. Vi è da aggiungere che ripetei il quarto anno della media con il prof. Vitali per capoclasse di soli maschietti. Forse non più turbato dalle” presenze femminili, mi misi a studiare di buzzo buono anche se, nel frattempo, erano stati sospesi gli esami di promozione così, a fine anno scolastico, fui promosso quasi onorevolmente. Qualche nome, Coccioli fratello del ben più noto fratello Carlo, topo della Biblioteca Civica di Fiume, scrittore iniziatosi in Italia con racconti sulla terza pagina del “Corriere della Sera, poi emigrato per diversi anni a Parigi pubblicando alcuni libri in francese ed infine seppellendosi in Messico passando allo spagnolo o “castellano” . Diversi i suoi libri tradotti in italiano pur continuando la sua sporadica collaborazione al “Corrierone”. Poi Carta, Bruzzese, Stamin. Mi spiace, ma il mio ricordo di quel periodo è vago.

Anche perché facevo pur sempre parte della “banda” di via De Amicis. Che, nel frattempo, aveva allargato la sua attività impadronendosi del Parco Pubblico ed ammettendo, nelle sue scarse file anche due o tre elementi di sesso femminile. La guerra per la conquista del Parco la vincemmo abbastanza facilmente nel senso che i nostri oppositori erano armati solo di comuni fionde mentre noi, sui loro stessi territori avevamo scoperto come far funzionare, in modo letale, le “stucagnize” cioè le cerbottane ricavate dall’opportuno taglio, tra nodo e nodo, delle canne che vegetavano intorno al laghetto sovra il quale troneggiava la grande ancora della “Regia Nave Emmanuele Filiberto” (se ricordo bene). Dietro al laghetto e in diverse altre parti del Parco, allignavano degli ammassi cespugliosi che, in primavera, producevano grappoli simili a quelli dell’uva ma più piccoli e brunastri, molto duri. A noi dicevano che schiacciandoli fornivano inchiostro per scrivere ma avevamo dei dubbi su tale loro impiego. Il fatto interessante è che, i chicchi, entravano di misura nelle nostre cerbottane per cui, soffiando dentro alla “stucagniza” ne uscivano a forte velocità, quasi quanto quella prodotta dai “flobert” ai loro proiettili. I nostri avversari sottoposti ad un fuoco di fila dalle nostre cerbottane dovettero battere in ritirata per mancanza di idonee munizioni per le loro fionde. A pavimentare le strade, stradine e slarghi del parco c’era infatti solo il ghiaino, niente sassi.

Sullo spiazzo più grande del Parco, la dov’era anche il laghetto, si svolgevano i nostri giuochi, il “ti ti la gà” che consisteva nel rincorrersi vicendevolmente e chi veniva toccato dal battitore doveva a sua volta rincorrere gli altri. Facevamo poi il giuoco della guerra, ci si disponeva in due file allineate. tenendoci con le mani saldamente ancorate, l’una di fronte all’altra a debita distanza, ragazzetti e ragazzette, ogni riga costituiva un regno a scelta, partivo ad esempio io con un monologo: “sono il re di Francia e vengo a combattere contro la Spagna e mando come mio ambasciatore me stesso, mi staccavo dalla mia fila e di impeto, mi scagliavo con il corpo alla congiuntura di mani della fila opposta. E’ chiaro che si mirava quasi sempre la dove erano collegati un ragazzo ad una ragazza o due ragazze tra loro, costituivano il punto debole della catena di mani ed io, se l’ avessi rotta, avrei fatto prigionieri i due che così allungavano la nostra fila dandoci modo di rinforzarci opportunamente, se invece non ci riuscivo ero io ad essere fatto prigioniero.. Molto diffuso era ovviamente il “nascondino” (non rammento come lo chiamavamo in fiuman). Era un gioco un po’ inviso alle madri che vedevano le loro figlioline infilarsi in un boschetto celandosi insieme ad un compagnuccio. Anche se c’era la “Michela”, la vecchia guardiana del Parco, a controllare che tutti si comportassero bene.

Debbo ancora aggiungere che la guerra delle “stucagnize” si estese anche a scuola tra una fila di banchi e l’altra, alla fine delle lezioni il pavimento era tutto ricoperto da quei chicchi. La guerra a scuola durò un due o tre giorni. Poi intervenne Natalino, che quei pavimenti doveva pulirli, a far smettere la cosa. La guerra, quella vera, si avvicinava insieme a tutti i guai che ebbe ad apportarci ma noi ci si divertiva intanto così, Al mattino a scuola, al pomeriggio al Parco oppure all’oratorio della Chiesa dei Cappuccini, in via Carducci, a strillare con “Attenti al paneto”, un ennesimo povero gioco di quei tempi; consisteva nel porre per terra una vecchia pallina di tennis mentre un gruppo di ragazzi si disponeva intorno al punto dove essa giaceva. Uno dei presenti allora gridava:”Attenti al ….. PANETTO” e tutti si precipitavano in avanti per prendere la pallina. Il più rapido la raccoglieva e cercava di colpire con essa qualcuno dei partecipanti al gioco che si allontanavano da lui in tutta fretta, quello colpito veniva allontanato dal giuoco, vinceva chi, in ultimo, rimaneva da solo.

Arrivava l’estate e via a Valsantamarina (oggi Draga di Moschiena. Talvolta dovevo sottopormi ad un due settimane di campagna (prescrizione del dottore) da mia cugina il cui marito, nato a Castelvetrano (Trapani), faceva il medico condotto a Elsane, vecchio, tetro paesone e poi a Clana, vicino al confine con la Jugoslavia, più caserme che case. Di questi posti mi piacevano i pomeriggi, quando andavo in macchina con mio cugino, nel suo giro di visite agli abitanti dei casolari. Ogni dove l’omaggio di un bel pezzo di formaggio, delle striscie di maiale affumicato o le “luganighe cragnoline”. E ovunque i vecchi contadini con l’eterno brontolio sulle labbra “Con Cecco Peppe si stava meglio”..