La M/n Enrico Mazzarella

di

Neumann Antonio




Fu un imbarco drammatico. Ed era stata una giornata iniziata normalmente in quel di Savignone, il paesino ligure collocato al di là dello spartiacque degli Appennini, poco distante da Busalla, enclave dei profughi giuliani e dalmati, per lo più marittimi, stabilitisi insieme ai loro famigliari in quei paesotti vicini alla Genova in quei tempi affamata di marinai validi per equipaggiare le tante navi che affluivano dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra a guerra terminata. La marina mercantile italiana era stata praticamente distrutta dagli attacchi navali e aerei degli alleati ed ora doveva ricostruirla ex-novo attraverso l’acquisto di navi eccedenti ai bisogni delle nazioni vincenti.

Savignone era un grazioso villaggio costruito lungo un vallone al cui termine sorgevano ancora i ruderi di un antico castello feudale, protetto da una grigia rupe rocciosa sulla quale mi arrampicavo di tanto in tanto nelle soste tra un imbarco e l’altro. Amoreggiavo, in quel tempo, con la bella figlia di un Maresciallo dei Carabinieri e della levatrice del paese. Frequentava le Magistrali a Genova che raggiungeva giornalmente in corriera. Ci si incontrava nel tardo pomeriggio per qualche passeggiata lungo i diversi sentieri di quella località di villeggiatura. Quel pomeriggio mi raggiunse tutta affannata: il bidello della scuola stamani è venuto proprio qui, a Savignone, per parlare con mio padre circa le mie numerose assenze scolastiche”. Doveva accadere, per due volte ad incontrare il vice-preside m’ero recato io, fingendomi suo cugino, per accampare scuse più o meno plausibili ma lei di andare a scuola non ne voleva sapere, a volte ci si incontrava a Genova, in un cinema di Sampierdarena che proiettava film al mattino e che presentava compiacenti balconcini nella balconata.

Ora lei aveva timore di tornare a casa e mi proponeva di fuggire insieme, la cosa non mi garbava, una di quelle mattine in cui mi aveva promesso di recarsi a scuola, mi avvenne di recarmi da solo in quello stesso cinema e di trovarla, in platea, insieme ad un ragazzo a me sconosciuto. Ci fu una lite, lei mi spergiurò sulla sua fedeltà ma il dubbio rimase. La cosa non mi garbava davvero, eravamo in mezzo al paese, ci portammo un po’ fuori dalle case, le dissi chiaro e tondo che io di “fuite” non ne facevo e lei mi rispose tutta calma che a casa dei suoi non ci tornava e che allora si sarebbe rifugiata a Roma dove aveva dei parenti, ma le ci volevano i soldi per il treno. Questa era una piega che mi giungeva a fagiolo, feci un salto a casa mia per procurarmi un po’ di quattrini, riempire dell’occorrente la mia sacca da marinaio poiché nemmeno io me la sentivo di incontrare suo padre, la raggiunsi e ci incamminammo, con il broncio di lei, verso Busalla dove prendemmo un treno per Genova e dove le feci il biglietto e la accompagnai, sempre imbronciata, sul primo treno in partenza per la capitale.

L’indomani mattina, appena uscito dall’alberghetto che mi aveva ospitato per la notte, mi precipitai ad acquistare il giornale “Il Secolo XIX” nella cui rubrica "Avvisi per i Marittimi” alla voce Ricerca trovai questo avviso “Cercasi 3° Ufficiale di Macchina per motonavi.” Era il caso mio. Da lì a poco mi presentai all’Ufficio di Collocamento della Capitaneria di Porto, a quei tempi ancora nei pressi di Piazza Corvetto Alle 09.00 ebbe inizio la chiamata davanti ad un folto gruppo di marittimi. La mia venne presto, sollevai il braccio gridando “Io!”, mi guardai intorno, nessun altro rispose, Mi presentai con il libretto di navigazione allo sportello, presero nota del suo contenuto, vi posero il timbro il loro consenso e mi disse di recarmi in via Milano per effettuare la visita medica presso la Cassa Marittima in via Milano. Il tempo di ricevere il nulla osta, recarmi all’alberghetto per ritirare la sacca da marinaio e recarmi, in taxi, sulla cala dov’era ormeggiata questa “Enrico Mazzarellla”.

Oh Dio! Non poteva essere proprio questa? Pensai allibito, Eppure era proprio quella, sulla poppa la scritta era inequivocabile “Enrico Mazzarella – Palermo”. Una vecchia carretta mezzo arrugginita, Sulla tuga di poppa il timone d’ emergenza bello alto, di quelli ancora con le catene, viste tante volte sui "Pro-Voto" dei Santuari. Il fumaiolo poi, annerito e dritto alto appiccicato al cassero centrale con tiranti dì acciaio. Mi avviai lentamente verso lo scassato scalandrone trascinandomi dietro mestamente la sacca. Riflettevo, O sposarmi la ragazza affrontandone il padre o accettare questo rudere di nave? Accanto allo scalandrone vi era un marinaio con un dimesso paio di blue jeans e una canottiera bianca. “Senta, sono il nuovo terzo ufficiale di macchina, le spiace aiutarmi a portare a bordo questa sacca, pesa un’accidente.” Senza una parola ma con un sorriso sulle labbra scese giù in banchina e mi diede una mano per issarla a bordo. Poi chiesi dove potevo trovare il comandante per presentarmi. E’ a terra, fu la risposta, il direttore di macchina? E’ a terra anche lui. “Ma non c’è nessun ufficiale a bordo?”. “Ci sono io”. “E lei chi e’?. “Sono il primo ufficiale!” “Oh mi scusi, l’avevo scambiato per un marinaio.”” “Non è il primo.” Fu la sua risposta.

Mi indicò quella che sarebbe stata la mia cabina Un buco. Mi tornò la tentazione del matrimonio piuttosto. La nave era stata costruita nel 1922 in Inghilterra ed a quei tempi non è che gli armatori pensassero a comodità per l’equipaggio. C’era appena il posto per un lettuccio con dei cassetti al di sotto, un minuscolo lavandino e un lungo armadietto per gli abiti. C’era di ché scoraggiarsi. Sistemai comunque le mie cose urtandomi qua e là nel eseguo spazio. La pareti con listelli di legno di un color verde pisello per ravvivare l’insieme. L’oblò per fortuna abbastanza ampio. A mezzogiorno nella saletta, saletta proprio con le seggiole addossate alle pareti si che i piatti bisognava passarseli sopra le teste. Il comandante catanese Sguardo mi informò che, in tempi remoti, quel locale era stato destinato agli ufficiali di macchina mentre nel più ampio salone mangiavano gli ufficiali di coperta, un’altra casta. L’attuale armatore, la SOSIMAR, aveva imposto l’attuale sistemazione riservando a sola rappresentanza il salone. Al tavolo incontrai qualche altro ufficiale, il direttore di macchina di Trieste, un omone di 76 anni, il primo macchinista Bommarito di Palermo, il secondo di coperta catanese pure lui che faceva Sguardo senza parentele con il comandante, gli altri erano tutti in licenza, del primo ufficiale Ricciarelli, di Palermo, ho già parlato.

Nel pomeriggio scesi nel locale macchina, un antro semibuio con il motore diesel a sei cilindri che si elevava come un cupo monumento. Vi trovai il capo fuochista, chiamato più comunemente "caporale" in tutta la marineria mercantile, un giovane aitante, siciliano pure lui, che mi fece da cicerone nello svelarmi i misteri degli motori ausiliari, delle pompe, il tutto sempre costruito in dimensioni spropositate, tranne lo scoppiettante gruppo elettrogeno in moto, un piccolo Muzzi tuttofare. Venni presentato all’altro personale, in genere tutti siciliani. Insomma, mi sembrò, tra ufficiali e bassa forza un buon ambiente. Non è che avessero molto da fare, la nave era in attesa di ordini. Cominciai a credere che non avevo fatto poi una cattiva scelta. Una volta in navigazione mi resi conto che tutti, professionalmente, conoscevano bene il loro mestiere e che erano insolitamente attaccati a qual catenaccio di barca.

Il primo viaggio ci portò ad Anversa dove si rivelò una prima peculiarità. Nei porti bisognava prendersi cura del Direttore di Macchina. Alla sua età non tollerava di essere lasciato solo a bordo, voleva uscire con i giovani e partecipare alle loro avventure, perfino in quelle amorose. Non tardò ad ospitarmi nella sua ben più ampia cabina raccontandomi le sue vicende in tempo di guerra. Si era trovato, all’inizio delle operazioni dell’esercito italiano nel porto di Bangkok, capitale dell’allora Siam, oggi Thailandia. La sua nave era stata bloccata dalle autorità locali che permisero all’equipaggio di rimanere a bordo. Stanco dell’inazione, prese a frequentare le officine dove venivano riparati gli innumerevoli fuoribordo delle imbarcazioni locali che percorrevano i numerosi canali della città, fuoribordo strani con gli assi delle eliche lunghe e quasi verticali a motivo dei bassi fondali delle vie d’acqua. Dove queste si allargavano, sorgevano i mercati cittadini dove i "sampan" a vela esibivano le loro mercanzie. Un suggerimenti qui, una mano lì, finì per essere assunto da una delle officine più grosse di Bangkok. Tra la paga regolare, le mance da chi voleva affrettare la riparazione, i lavoretti extra, ad un certo punto fu in grado di acquistare un officina da gestire in conto proprio e trascorse, a questo modo gli otto anni di prigionia mentre la moglie, dalla lontana Trieste, lo invitava a ritornare a casa perché la guerra era finita da ben quattro anni. Il fatto è che in questo frattempo aveva avuto qualcosa come sei mogli e diciassette figli, un piccolo agiato imprenditore con il suo harem.

Scorrendo l’elenco dei viaggi del “Mazzarella” incontro la lugubre Costanza con il rigore delle autorità comuniste, poi Montreal dove una madre amorosa accompagna la figlia ninfomane a bordo affinché s’accoppiasse ad un ufficiale di suo gradimento per sedare le sue brame. Il fortunato è il terzo ufficiale di coperta mentre la premurosa madre raccomanda la cura della figlia al comandante. Ai fatti è malguratamente presente il Direttore di Macchina che cerca di irretire la matura signora. Vi è poi Le Havre, ormeggiati fuori dai bacini per cui a volte, se non fosse per la lunghezza del nostro spropositato fumaiolo, con la bassa marea sarebbe un problema ritrovare il nostro vascello. Savona che è quasi casa ed infine Trieste per lavori. Qui sbarca il nostro Direttore che si rammarica non sia scoppiata qualche altra guerra, quello nuovo è anche lui anziano e triestino, un muso lungo che non lascia confidenze, il nuovo secondo di macchina che sostituisce un gaio veneziano è un uomo in età di poche parole. Sbarca anche Bommarito, il mio primo, quello nuovo è lussignano, un altro musone che per cinquant’anni ha fatto il commerciante di scarpe ma i drusi gli hanno detto che il suo negozio apparteneva al popolo sovrano. Insomma, in macchina tutta gente di poco mestiere. Chiedo di sbarcare anch’io ma il comandante che ha già giudicato i nuovi, interviene. Io passo secondo ufficiale di macchina e quello imbarcato farà il terzo, brontola un po’ ma senza entusiasmo.

Ad un certo punto si viene a sapere del prossimo viaggio. Fusan, nella Corea del Sud, c’è la guerra con gli americani in mezzo, carico: fosfato d’ammonio. Che può essere usato come fertilizzante o come carica esplosiva, per di più carico pericoloso, aumenta l’assicurazione della nave ed interviene la Capitaneria di Porto di Trieste per avvertire il personale di bordo che chi vuole sbarcare sarà collocato al primo posto nella lista dell’Ufficio di Collocamento degli imbarchi. Inoltre all’equipaggio verrà corrisposto un aumento sulla paga per rischi di guerra. Quest’ultimo argomento convince i più reticenti. Si procede con le debite precauzioni alla caricazione del fosfato d’ammonio e si parte. Un inghippo al Canale di Suez. Carico pericoloso a bordo e aumento dell’assicurazione per il transito. Due giorni di sosta mentre le assicurazioni discutono e poi si riparte. Attraversamento del Mar Rosso e poi dell’Oceano Indiano con breve sosta al largo di Colombo allora ancora Ceylon e quindi Mar Cinese e Fusan. In questo ultimo tratto vengono posti sul ponte due fuciloni per respingere eventuali abbordi in mare di pirati. Sembra di vivere in un libro di Emilio Salgari.

A Fusan salgono a bordo una decina di americani della Military Police che si piazzano attorno alle boccaporte delle stive con fucili mitragliatori puntati a sorvegliare gli scaricatori coreani. Ci si reca poi a Dairen, nella Manciuria, per un carico di mercanzia generale, un grande onore per la nostra vecchia carretta che continua ad arrancare faticosamente per i mari. Sosta a Shangai, poi a Singapore dove oltre al carico si provvedono a riparazioni urgenti al motore che si sta riducendo a pezzi malgrado le sue dimensioni ed infine lasciando l’Indiano, entriamo nell’Oceano Atlantico ed entriamo nel porto di Rotterdam che ci accoglie con freddezza malgrado il nostro "exploit". E in questo porto resisto a tutti i tentativi di trattenermi ancora a bordo e me ne torno a casa non senza un grato sguardo a quel lungo, nero fumaiolo.