Pescatori sul Quarnero

di

Neumann Antonio




Rammentiamo quelli della bella Valsantamarina, oggi Draga di Moschiena o Moscenize Draga. Il più caratteristico era Andre pronunciato con la A iniziale accentata, un pezzo d’uomo atticciato da prendere da negro per l’abbronzatura di stagioni sull’epidermide scoperta, specie nei mesi estivi quando esibiva il suo largo torace, le robuste braccia, la faccia raggrinzita e le fessure degli occhi rimpiccioliti dall’azione del sole. Pescatore si ma anche uomo tuttofare nel piccolo paese, disponibile a qualsiasi genere di lavoro, dal rimessaggio d’un’ imbarcazione di un villeggiante alla saldatura del fondo d’una padella di una massaia, dalla paziente riparazione di una rete lacerata al cambio di una lampadina bruciata. S’impicciava anche nei pochi motori fuoribordo di allora.

Parlava un dialetto stretto, a volte non discernibile la qual cosa provocava da parte sua grida gutturali di insoddisfazione. Andava a seconda degli umori, in genere variabili. C’era la giornata che salpava al mattino presto sul suo gozzo grigio cupo dall’impavesata d’un rosso scuro che rendeva la sua barca un tantino lugubre, per rientrare a sera tardi con il pescato. Per magari, il giorno seguente, ormeggiare l’imbarcazione armata a vela in prossimità del bagnasciuga della spiaggia ghiaiosa in attesa di clienti tra i villeggianti.

Fu lui, tra improperi ed urla ad insegnarmi l’arte del veleggiare. Perché noi s’era in un certo senso soci. Nelle serate della tratta mi ponevo io, accovacciato a prora, a pompare il carburo della lampara; allorchè decideva di fare il noleggiatore lo sostituivo nelle sue frequenti visite all’osteria, non era un ubriacone, si lamentava solo che aveva sempre le labbra secche. Inoltre, tutte le volte che un vaporino non riusciva ad attraccare al moletto a causa del mare eccessivamente mosso, si usciva insieme con il suo gozzo per trasbordare a terra i passeggeri. Solo che dopo il primo tragitto lui si soffermava in banchina a discutere il prezzo ingiungendomi di ritornare da solo al piroscafo per non perdere i clienti. E così lui rimaneva a terra a discutere ed io a vogare avanti ed indietro. Va detto che poi, onestamente, ci si divideva il ricavato.

C’era poi Giacomo che dal suo sempre lindo gozzo parlava con il mare. Era considerato l’inocuo scemo del villaggio. Sempre ben vestito e curato, non fraternizzava con nessuno, quelle poche parole che gli uscivano dalla bocca erano più che altro suoni gutturali, in mare remava sempre lentamente, ogni tanto si fermava, si alzava in piedi dallo scanno e protendeva le mani sulle onde, proferendo strane parole, e proseguiva nel suo gesticolare per qualche minuto per poi riprendere la voga. Effettuava la pesca dei pesci “moli”, come li chiamavamo noi, specie di naselli quasi bianchi belli grossi. Di fondo. Al largo della costa sotto Bersezio, ad un cento, duecento metri dalla costa.

A volte preferiva la pesca dei branzini, dai trenta ai cinquanta metri dagli scogli, in tale caso aveva bisogno dell’aiuto di noi ragazzaglia, chiunque gli capitasse d’incontrare per istrada. Poiché l’imbarcazione doveva rimanere immobile nella posizione scelta, assicurata al basso fondale da due ancore, una a prora ed una a poppa attraverso un unico cavo ben tesato sopra lo scafo. Ognuno di noi aveva una lenza in mano, vigevano il silenzio e l’immobilità. Qualsiasi movimento suscitava un mormorio dalle labbra di Giacomo. In un’occasione, nel tesaggio del cavo, il suo eccesso me lo strappò dalle mani ed ancore e cavo affondarono quietamente. Mi attendevo una sgridata, una sfuriata ma non fece che indicare me con un dito e il gesto di infilarmi in mare per ricuperare il tutto. Mi tuffai ma non fu facile riportare in superficie il cavo tesato. In genere, dopo un due orette di attesa e pesca si rientrava e come compenso mi riportavo a casa uno dei branzini più grossi.

Giacomo rimase sempre un mistero per noi. Doveva pur aveva una casa e qualcuno che se ne prendeva cura. Al mattino, nella piccola pescheria offriva la sua merce con il consueto silenzio agitando le dita delle mani nel contrattare il prezzo, aumentandone il ritmo se questo non era di suo gradimento. Tra l’altro era anche un bel uomo e più di un’avvenente forestiera ci chiedeva di lui ma eravamo noi ad agitare un dito negativamente. Il nostro Giacomo non si toccava.

Il gozzo di Vize era di un bianco immacolato, Vize faceva il garzone nel più grande, a quei tempi, albergo di Moschiena Draga e, come accade spesso sulle sponde dell’Adriatico, il pescatore. Il suo pescato finiva regolarmente nelle cucine dell’albergo del quale egli manteneva pure la pulizia ed agiva saltuariamente da portiere con le valige degli ospiti. C’era un lato di questa sua attività che mal incontrava il fatto che lui scaricasse direttamente l’immondizia dell’albergo in mare, a pochi metri dall’entrata al porticciolo del paese, proprio là dove erano ormeggiate le imbarcazioni dei pescatori molti dei quali affidavano la custodia e cura delle loro barche a noi mularia, ben orgogliosi di tali compiti.

Non ci faceva certo piacere lo scorgere residui vari di cucina od altro galleggiare pigramente attorno ai nostri scafi per cui, ad un certo punto, considerato che non desisteva da tale abitudine, decidemmo di adottare qualche misura. E ci sembrò opportuna quella di, in ore serali, salire in due sul suo gozzo, uno di noi in avviso sul cavo d’ormeggio e l’altro a svitare il tappo di aleggio si da far allagare lentamente la barca. Essendo di legno rimaneva sospesa nell’acqua senza affondare completamente. Ma l’indomani quel zoticone doveva vuotare con la sagola il gozzo. Era un tontolone e non afferrò subito il nostro intento. Dovemmo ripetere ancora l’operazione, fu alla terza o quarta volta che proprio io con la gamba sul cavo d’ormeggio che sentii un forte strappo su questo e scorsi, nel buio, la sagoma non certo benevola di Vize. Vi fu un vivace scambio di parole mentre quello tirava la barca verso di se e noi iniziavamo a saltare da impavesata a impavesata delle imbarcazioni vicine.