La Boa di Valsantamarina

di

Neumann Antonio




Valsantamarina sorge in riva allo stupendo mare del Golfo del Quarnero, sulla costa orientale dell’Istria, in fondo ad un canalone che scende dal Monte Maggiore, un vivo contrasto tra verde e azzurro. A quei tempi era un villaggio di pescatori con qualche pretesa turistica e un piccolo molo per l’attracco dei vaporini che la collegavano a Fiume, capoluogo di provincia. Il molo o, se vogliamo piccola banchina, diveniva esposto ai marosi sollevati dalle periodiche incursioni dei venti settentrionali, in tale occasione i vaporini con i loro passeggeri e carico, sostavano collegandosi, con robusti cavi a una grossa boa di ferro collocata a un centinaio di metri dalla riva. La boa, dipinta di rosso, nella sua parte superiore recava uno spesso anello attraverso il quale erano fatti passare i cavi dalla prua delle navi. Anello e boa erano fissati al fondale da una robusta catena e da voluminose ancore. Passeggeri ed eventuali merci venivano traghettati alla banchina con le bacche dei pescatori. Un’operazione non proprio semplice.

Ovviamente io e il mio amico Rade non è che potessimo mancare all’evento e nell’osteria prospiciente al molo, esercitavamo pressioni su un qualche pescatore intento a una partita di briscola o di “rovescin” per prestarci il suo gozzo, in modo da diventare anche noi traghettatori. Con esso ci si avvicinava, remando di forza contro le onde, al basso ponte del vaporino, in prossimità delle sue porte di uscita. Rade a prua, io a poppa, ci aggrappavamo al tientibene mentre gli esitanti passeggeri, non più di quattro per volta, attendevano il momento buono per saltare a bordo del nostro instabile mezzo. Il ritorno non era tanto agevole, bisognava porsi paralleli al molo spinti dal vento e dalle onde, e, all’imboccatura del porticciolo virare rapidamente per entrarci e non finire sulle rocce d’una vicina piccola scogliera.

Una volta ormeggiati, facevamo scendere gli ospiti e si iniziava a mercanteggiare con loro per un compenso congruo. In fretta per riuscire a fare qualche altro trasbordo. Il ricavato si divideva poi tra noi e il pescatore proprietario dell’imbarcazione. Per qualche anno ci andò sempre bene ma poi, più grandicelli, ne combinammo una grossa.

Erano i primi giorni di un fatale settembre, l’anno il 1943. Nel primo pomeriggio di una fine settimana, si era scatenato un vivace “neverin”, un fortunale insomma, con vento forte di bora e mare scatenato, le onde cozzavano contro la banchina allagandola con gli spruzzi. Erano le 17.00 del pomeriggio, le nubi basse rendevano l’atmosfera grigia, il “Lussino”, il vaporino più vecchio in linea, già posamine della marina austro-ungarica e poi trasformato in trasporto passeggeri, rollava e beccheggiava mentre compiva giri al largo, evidentemente il suo comandante esaminava la situazione. Il fatto era che si trattava del giorno di sabato, quando erano in parecchi a rientrare a Draga (nome croato di Valsantamarina), quindi il numero dei passeggeri a bordo era elevato.

Fu questo fatto che a Rade e a me venne un’idea. E se in luogo del solito gozzo fossimo usciti con una “trattarizza”, una specie di barcone più grosso semicoperto per la pesca da posta, avremmo potuto portare più passeggeri e quindi aumentare il gruzzolo ricavato dal traghettamento? Pensato e fatto. Il suo proprietario, con le carte in mano, un bottiglione di vino nero mezzo vuoto davanti nella fumosa trattoria, ci guardò appena “Ah, siete voi?” Gli si dava a volte una mano sul barcone per andare a controllare le reti. E avemmo il suo assenso, forse pensava al gozzo. Intanto il “Lussino” manovrava per avvicinarsi con la prua alla boa iniziando a passare, in quest’occasione, due cavi nell’anello, era un’impresa anche per un marinaio della nave quella di calarsi dall’alta prua per atterrare, al momento buono, sulla boa e afferrarsi prontamente all’anello.

Noi, disormeggiata la trattarizza, presi in mano i lunghi, pesanti remi collocandoli nelle scasse, uscimmo in mare malgrado qualche altro pescatore, sui gozzi, cercasse di dissuaderci. In mare ci si manovrava senza molta difficoltà, dovemmo attendere che si staccassero i gozzi dalla murata per avvicinarsi noi, come il solito, Rade si abbrancò al tientibene a prora, io feci la stessa cosa a poppa, come tutte le altre volte, solo che quell’affare era ben più pesante e a un’onda che riuscì a infilarsi tra prua e scafo, la prora del nostro barcone si allargò lasciando Rade appeso con le mani al tientibene da cui, due marinai, lo trassero prontamente a bordo del “Lussino” . Io rimasi per un attimo fermo pensando sul da farsi ma poi vedendo che la trattarizza continuava ad allargarsi, lasciai la presa sul tientibene e mi lasciai portare via insieme al barcone.

La mia fu un’azione istintiva, rimisi sulla scassa il remo e manovrai per allontanarmi dallo scafo della nave, e ora? Rientrare da solo con un unico remo nello stretto varco di entrata al porticciolo?. Poi mi venne in testa la soluzione, i gavitelli, quella specie di piccole boette collocate al largo della spiaggia per l’ormeggio delle piccole imbarcazioni da diporto dei turisti che non trovano posto nel porticciolo. Ce ne erano diverse, Cercai quella che avesse il cavo dell’ancora più grosso, manovrai sempre spinto dalle onde e dal vento, in modo da presentarmi con la prua a monte della boa. Corsi a prua, afferrai un cavo d’ormeggio abbisciato, ne fissai un capo alla grossa bitta e, appena giunto all’altezza del gavitello, mi gettai in mare con l’altro capo che avvolsi rapidamente intorno al cavo dell’ancora annodandolo saldamente. Dopodiché, a mollo, mi liberai dai sandali che passai attorno al collo e presi a nuotare contro le onde fino a portarmi all’altezza della banchina, nuotai ancora per un tratto lungo questa e sempre in allontanamento dagli scogli per poi girami e, ponendomi in parallelo al molo, avviarmi verso l’entrata al piccolo porto, appena giunto alla sua estremità, con una rapida virata del corpo, m’infilai nel suo ridosso in salvo da marosi e vento.

Avevo diciannove anni. Il barcone rimase a dondolare sul suo nuovo ormeggio e l’indomani fu rimesso dentro il porto. Naturalmente tutti i pescatori di Valsantamarina uscirono dalla trattoria abbandonando sui tavoloni di legno carte e bottiglioni di vino per assistere e commentare la scena. E a mio padre che per caso passava da quei paraggi provenendo dalla piazzetta del paese dissero: “Non vede in quali pasticci si caccia suo figlio?”. Senza fermarsi mio padre rispose: “Chi, Tonci? Quello se la cava sempre dai guai!”. E proseguì verso casa. Non rammento in quale anno ma la boa fu assoggettata ad una pulizia completa. Al mattino giunse un rimorchiatore che trainava una chiatta con una grande gru che gettò le ancore accanto alla nostra boa. Come prima operazione venne sollevata la boa che si trasse dietro l’anello e la parte iniziale della grossa catena con le maglie tutte ricoperte di cozze a centinaia. Ovviamente Rade ed io eravamo usciti con la nostra lancetta per seguire le vicende della boa che la gru stava ora posando sulla larga coperta della chiatta insieme al anello e alle catene. Abbisciata la prima lunghezza di catena, il gancio della gru proseguì ad afferrare le altre lunghezze e trarle sulla chiatta fintantoché non emersero le tre ancore che sorgendo dal mare formarono un groviglio informe di catene e le loro maglie. Il personale sulle chiatte iniziò con delle specie di pichette e raspini a ripulire la boa e l’anello dalle incrostazioni e le catene dalle colonie di cozze. Cosicché al rumore del motore della gru si sostituì quello più tenue ma incessante delle picchette.

Noi si guardava le cozze e senza chiedere permessi a nessuno dei lavoranti, iniziammo a raccoglierle gettandolo dentro alla nostra imbarcazione quelle più grandi. Ci si avvicinò un marinaio della chiatta chiedendoci: “Cosa intendete farne?”, “Venderle.” “Ma le cozze sul ferro sono velenose.” Rade ed io scrollammo le spalle, come per dire: ma tu cosa ne sai delle cozze” e proseguimmo nella nostra bisogna. Facemmo un due viaggi da chiatta a casa fin al momento le nostre donne iniziarono a protestare per il nostro andirivieni, per l’accumularsi delle cozze in cucina e per l’odoraccio di salso che emanavano. Ma noi, imperterriti, ci ponemmo a lavare le cozze con l’acqua dolce immergendoli più volte nel largo vascone nel retro della cucina quello che gli abitanti del posto chiamavano “konoba”. Riuscimmo a trovare due sacchi di iuta riempiendoli con le cozze. Insomma un lavoraccio che ci prese tutta la giornata. Ogni tanto, dalla terrazza sul mare, seguivamo il procedere della pulizia della boa che prima di sera era già tutta pitturata di rosso minio.

L’indomani mattina, fu una levataccia ma Rade ed io ci caricammo un sacco per uno sulle spalle e ci avviammo alla pescheria dove si stavano già disponendo le cassette del pesce sui banchi. Uno dei venditori adocchiò i nostri sacchi, ci diede una cifra di tanti gelati, noi, onestamente gli raccontammo da dove provenivano e quello che ci aveva detto il marinaio ma anche lui scosse le spalle con fare noncurante e si prese i nostri sacchi. Rimanemmo un po’ interdetti ma, a sera, le nostre donne ci avevano ammannito per cena le stesse cozze e si stava bene. E poi quei soldi e quei gelati per tutta la stagione, per noi e per le nostre belle.