Sulla vetta del Monte Nevoso

di

Neumann Antonio




A Fiume erano previste delle elezioni popolari per cui ne trassi profitto per assentarmi dalla città e trascorrere una ventina di giorni al rifugio alpino nella conca di Chabransca gestita dalla famiglia Seberich. Bruno e Anita con il figlio Sergio erano scesi a Fiume per un doveroso atto di presenza, a tenermi compagnia erano rimasti la figlia sedicenne Pinuccia e i due cani lupo Tom e Fida. Pinuccia badava a tutti noi per quel che riguardava i pasti e a rigovernare i due ambienti che dividevano l'interno della costruzione, in uno la cucina con la madia e uno scaffale per le provviste e la parte notte con dodici letti a castello, l'altro ben più vasto con i lunghi panconi.
Pinuccia, seni già prepotenti, in confusione sulla sua funzione femminile basata sulle chiacchiere e prime esperienze delle compagne di scuola. A sera io mi corico sulla cuccetta inferiore del castello, lei su quello superiore, Fin dalla prima sera mi interroga, china sull'orlo superiore e a faccia in giù, sui misteri del sesso. Tronco subito il discorso, godo della fiducia dei suoi genitori, ho ventun'anni e, a chiacchierare su quegli argomenti non si sa mai dove si va poi a finire. E' bravina, è già una buona cuoca e si da daffare a tenere tutto pulito nel rifugio.
I cani, Fida la femmina, avrà un due anni, la solita storia, genitori che acquistano una cucciola di lupa per il figlioletto poi quando questa cresce s'accorgono che la casa è troppo piccola, la lupacchiotta diventa ingombrante, fa danni provando i suoi denti sui divani, rosicchiando quanto è rosicchiabile, stentando ad imparare le regole del vivere civile. Sporca insomma. Ne parlo con Bruno se me la prende su al rifugio, dice il padre. E Fida arriva al rifugio dove cerca subito di accattivarsi Tom quello non ci sta, ha un caratteraccio e un bel giorno l'allontana con un bel mordo che le squarcia la bocca. Bruno, paziente, le medica la ferita e poi, con ago e filo, gliela ricuce. Con lei che sopporta senza fiatare l'intervento. La rivedrò, anni più tardi a Roccaraso, nel nuovo rifugio di Bruno. Una splendida, sontuosa lupa.
Tom, di proprietà di un ingegnere del Silurificio di Fiume. Lupo con caratteristiche ancora selvagge, forse di terza generazione, non ama farsi toccare, a tentare di accarezzargli la testa c'è da rimettersi la mano, cosa più inquietante, a primavera s'accalora e, di notte, lancia i suoi richiami, si sa, questi sono lugubri e i vicini di casa non gradiscono. Infine l'ingegnere lo consegna a Bruno, sul massiccio del Monte Nevoso i lupi abbondano e Tom si troverà a suo agio. E poi il rifugio si trova in una posizione isolata è può sempre fare il cane da guardia. Ora anche i guardiacaccia, quando si avvicinano al rifugio per un bicchiere di vino, lanciano da lontano il grido "Tom è dentro?". Tra me e Tom si è stabilita una strana relazione, gli vado a genio, forse perché agli inizi dei lavori all'allora vecchia casamatta, noi lavoranti si dormiva per terra su sacchi di iuta ripieni di aghi di pino e Tom aveva preso l'abitudine di cacciarsi ridosso a me sotto alla coperta militare. Da quell'intimità mi prese a ben volere, d'inverno giocava a rincorrermi quando sciavo nella conca; d'estate, dopo il desinare, mi stendevo sul prato per sonnecchiare al bel, caldo sole, lui, Tom, di sua iniziativa infilava il testone sotto al mio corpo fino a concedermi il suo pancione come guanciale. E Bruno scuoteva la testa e si arrabbiava addirittura quando andando in giro per la boscaglia Tom saltellava accanto a me e non accanto a lui. Questo era Tom. Fece una brutta fine. Lasciando il rifugio e poi Fiume, in esilio come i tanti, poteva portarsi dietro un solo animale e Tom gli fu richiesto da un ufficiale dei partigiani, al momento del passaggio di proprietà, Tom aveva la museruola e Bruno lo teneva con il guinzaglio, quando passò questo all'ufficiale e fece per allontanarsi, Tom si gettò con tutto il suo corpaccio sull'Ufficiale che, per fermarlo, afferrò la museruola ma nella lotta che ne seguì la museruola ebbe a sfilarsi per cui al partigiano non rimase altra scelta che estrarre la pistola ed abbattere Tom.
In un soleggiato mattino estivo mi ritrovavo sulla stradone sterrato che si inoltra tra le pinete del massiccio di Monte Nevoso. Avevo appena lasciato l'inizio della conca di Chabranska ed il tascapane con dentro i panini imbottiti preparatimi dalla solerte Pinuccia mi ballonzolavano al fianco seguendo il ritmo dei miei passi. In pratica mi ero preso un giorno di vacanza tutto per me e mi stavo dirigendo verso la vetta del Monte Nevoso. Più volte ospite dei suoi versantii, delle sue foreste, dei suoi mille rumori, dei suoi improvvisi temporali così come delle sue inattese tormente di neve, mi recavo sulla sua sommità per rendergli un più che dovuto omaggio.
Sin da lontano mi pervenne l'abbaiare dei cani che sorvegliavano dappresso il gregge di pecore dell'unico pastore in zona. Pecore che ora ostruivano tutta la strada si da sembrare un vasto batuffolo di cotone in lento movimento. Scambiai poche parole con il taciturno pastore, nelle notti più fredde mi recavo all'estremità settentrionale della larga conca erbosa dove soleva ancorare la sua tenda per assaporare l'unico pasto della giornata recatogli dal paese da una svelta nipotina chiacchierona che poi si accompagnava a me lungo tutta la lunghezza della conca fino al caldo ambiente del rifugio dove trascorreva la notte. Il nostro era come un cammino sulle nuvole perché, a sera, l'arrivo di brezze notturne più fredde condensava il terreno ancora caldo della giornata, creando al suolo un basso strato di nebbia che ci giungeva fino alle ginocchia e ci faceva inciampare di frequente nei rilievi e nelle gobbe della conca. Se c'era la luna sembrava di camminare sulle nuvole.
Proseguii lungo lo stradone, sempre dentro alle pinete da un lato e l'altro della strada. Sopra di me l'azzurro del cielo, ai lati il verde intenso degli alberi. Passai, ad un certo punto, accanto al prato circolare dove, a dire dei guardacaccia, nella notte giungevano i lupi con i loro lunghi lamenti amorosi di richiamo. Più avanti iniziò a giungermi il ronzio delle seghe circolari degli operai del Silurificio trasformatisi in boscaioli dopo le distruzioni dei loro stabilimenti per effetto dei bombardamenti alleati. , Mentre i loro colleghi, dentro alle officine, continuavano il lavoro di raccolta dei mille detriti al caldo dell'estate e al freddo dell'inverno, loro preparavano la legna per i freddi invernali. Ed ecco che lo stradone si allarga e diviene un vasto spiazzo. Vi sostano due camion Lancia, di quelli con il muso piatto, una tettoia zincata al di sotto della quale un rozzo tavolo di legno e due panconi per lato. Seduti all'ombra della tettoia i due autisti. Mi siedo accanto a loro che mi offrono un bicchiere di vino fresco versato da un thermos. Ci conosciamo, a volte, a sera specie d'inverno, al rientro con il carico si fermano al rifugio per riscaldarsi un po'. Ora mi parlano di loro,, al Silurificio erano congeniatori, hanno fatto le"Industriali" Sono operai specializzati, costruivano le bussole di direzione dei siluri. Non ci va quello che stando facendo adesso. Anche gli altri si lamentano per i lavori che sono costretti a fare giù allo stabilimento, nella polvere delle mura diroccate, nello spazzare i vetri rotti delle lunghe vetrate che davano luce alle officine. Poi, giunti a casa ci sono le mogli che si lamentano, il denaro è poco e non si trova niente al mercato. Ma ora in molti stanno preparando le carte per lasciare Fiume, sono in contatto con la Svezia, troveranno lì lavoro e delle casette pronte. Me lo scrisse poi uno di loro come andò. C'erano perfino le pantofole davanti alla porta di casa il giorno che ci consegnarono le chiavi. Li saluto e riprendo il cammino, ora non è più lo stradone di breccino ma un sentiero di nuda terra tra gli alti fusti dei pini, c'è la loro ombra ed anche se inizia la salita è un bel andare, mano a mano che mi elevo in quota aumenta il fruscio di una brezza lieve sulle alte cime degli alberi. Aumento il passo sull' elastico sentiero pur badando a non scivolare sui tanti aghi di pino al suolo. Nei polmoni mi penetra aria fresca e, attraverso le nari mi giunge forte il sentore del pino silvestre. E bello è bello, mi sento rinvigorire. Proseguo a lungo in questo paradiso. Poi ad un certo punto la vegetazione inizia a diradarsi mentre si accentua l'inclinazione del terreno, esco dalla selva e sono sul cucuzzolo, mi arrampico tra piccoli alberelli stenti, il suolo ora è erboso, d'un erba piccola e dura. Ora è sufficiente salire, il sentiero è scomparso. Il fatto accade quando già scorgo la vetta. Tra gli alberelli odo come degli sbuffi e poi un rombo e improvvisamente mi passa davanti, ad un due, tre metri, una massa scura in rapida corsa, è un grosso cervo che scompare rapidamente, quasi una visione. Dietro a se lascia un forte odore muschiato, selvatico. Avrà voluto offrirmi un benvenuto? Difatti, dopo pochi passi sono sulla brulla vetta. Da essa si estende un verde panorama di costoni e di foreste, nessuna traccia di abitazioni o di esseri umani. Sola, in lontananza, una macchia bianca, quella del rifugio "Gabriele D'Annunzio". Mi siedo su quei duri fili d'erba e traggo fuori dal tascapane i panini della Pinuccia. Con essi ritorno al mondo. Speravo di trovare ancora, al mio ritorno, i camion degli improvvisati boscaioli del Silurificio Whitehead, ma lo spazio è vuoto, vi troneggia solitaria la tettoia mentre inizia ad imbrunire. A sera è Pinuccia ad aggredirmi per la tarda ora ed i cani a farmi le feste.
Fiume era sì il Quarnero, era sì il limpido mare, le verdi isole, era sì le bianche spiagge ghiaiose di Valsantamarina, le ciliegie di Laurana, i turisti di Abbazia ma vi era pure la sua meravigliosa corona di monti, e sullo sfondo, i primi contrafforti del Velebit..