Considerazioni

di

Neumann Antonio




Cari tutti, è forse tempo di considerazioni al di là della mera cronaca degli avvenimenti di 62 anni fa. Primi giorni di giugno 1944, nella vasta cava di Martinsgniza, stiamo raccogliendo gli attrezzi di lavoro al termine di un'altra giornata nella nostra veste di lavoratori della organizzazione tedesca della Todt. Compito, non gravoso, quello di trasformare un roccione rimasto all'estremità dello spiazzo, quasi a fare da guardia allo scempio naturale di quella che un tempo fu una verde collina sul mare, in un bunker. Ci si avvia verso la scaletta in ferro che si inarca, letteralmente, verso la sommità della parete rocciosa in regolari volute. E quindi ci si avvia lungo la litoranea e, dopo aver attraversato il ponte che congiunge Sussak a Fiiume raggiungiamo rapidamente la scuola elementare "Manin" dove, di norma, deponiamo il materiale prima di avviarci verso casa. Ma quello è un giorno diverso dagli altri, ad attenderci nella scuola non è soltanto il militare tedesco custode delle attrezzature ma ci sono due sottufficiali, sergenti maggiori per l'esattezza in divisa della fanteria dell'esercito repubblichino italiano. Hanno degli elenchi tra me mani e organizzano una specie di appello citando dei nominativi, c'è anche il mio nome in mezzo. Nella introduzione, affermano che noi terminiamo di prestare la nostra collaborazione alla Todt e che, avendo prescelto, al momento della leva militare, l'esercito della Repubblica Italiana, l'indomani mattina verremo avviati a Gorizia per venire inquadrati nel XIV Battaglione Italiano Costiero da Fortezza. Cos'era accaduto, ci spiegheranno durante la trasferta in treno. A tutta prima, considerato che al momento del richiamo alle armi, ben pochi ragazzi avevano chiesto la soluzione del lavoro alla Todt per il timore di essere impiegati alla rimozione di macerie in Germania, in mezzo ai bombardamenti, le autorità tedesche erano intervenute bloccando coloro che avevano chiesto di aderire alle varie unità dell''esercito italiano, per sopperire alle esigenze della Todt. Però le autorità italiane avevano elevato una protesta sull'accaduto per cui ora potevamo aggregarsi ai reparti militari repubblichini ma solo a quelli stabiliti dai tedeschi stessi. Adesso, conclusero i due sergenti, dovevamo recarci a casa, prendere pochi indumenti intimi, e ritornare alla scuola Manin dove avremmo dormito in modo da prendere un treno al mattino presto seguente.

Mi recai a casa abbastanza euforico, sfuggivo alle tante possibilità negative dei tempi, piuttosto euforici, del resto, mi sembrarono gli altri prescelti. Mi congedai dai miei cari, mio padre mi disse: "Fai il tuo dovere.", Mia madre, al momento del congedo non disse nulla, mi guardò solamente, io ero il suo figlio preferito. Da li a poco, ci ritrovammo tutte le ormai reclute alla scuola e al mattino non fummo avviliti se ci cacciarono, ancora insonnoliti, in un vagone merci. Al mattino, alla stazione ferroviaria di Trieste, si unirono a noi dei ragazzi triestini, anche loro con le valigette o dei sacchetti in mano. In tutto saremmo stati una sessantina, un pò stretti ma sempre allegri. A Gorizia ad attenderci, una caretta militare ed un mulo dove ponemmo i nostri fardelli. I due sergenti ci fecero incolonnare e poi ci avviammo, marciando piuttosto disordinatamente verso Salcano, avendo da attraversare tutta la città. I sergenti ci invitarono a cantare e noi lo facemmo, i motivi non erano più quelli dei balilla ma le canzoni, i motivetti delle nostre gite in montagna. Inserendo, di tanto in tanto il "It is a long way to Tipperary" inglese per uno sfottò. Quì c'è da chiedersi, perché tanto entusiasmo in noi? Io presumo che tale entusiasmo derivasse dal sentirci italiani, dall'indossare tra breve il grigioverde, dalla fine di quel periodo di incertezze nell'atmosfera creata dalla pesante presenza dei tanti militari tedeschi. Bisogna poi pensare che noi si era della leve 1923-1924-1925, quindi ragazzi cresciuti in piena era fascista, nella tranquillità di motivazioni, di atteggiamenti formativi, di indirizzi morali ben definiti, la fine del fascismo ci aveva lasciati in un vuoto di ideali, di speranze concrete. L'indossare il grigioverde ci riponeva in un mondo a noi più vicino, più consono alla nostra formazione. E, a questo punto mi sia consentito rammentare lo sgomento che provai, subito dopo l'otto settembre 1943, nell'entrare in una caserma messa sossopra da centinaia di fogli dattiloscritti sparsi per terra ormai solo da calpestare, da cassetti od ante spalancate se non squarciati; sollevai qualche foglio guardando quelle intestazioni, quelle ordinanze ormai inutili, futili. E mi chiesi, e ora? Si, gente, esuli di seconda o terza generazione, è questo che mi chiesi: "E ora ?".

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Siamo ospitati, a Salcano, sobborgo di Gorizia, in un edificio, già sede di una scuola elementare. Noi reclute fiumani e triestini abbiamo trascorso la prima notte dormendo su castelli di ferro che reggono una specie di amache di tela spessa. Non sono materassi ma la sveglia antelucana mattutina, la marcia quasi festosa dalla Stazione Centrale di Gorizia a Salcano ci hanno consentito una bella dormita. Al mattino una colazione piuttosto frugale che non attenua i nostri spiriti e poi la vestizione sul prato dietro alla ex scuola. Questo è ricoperto da cumuli di camicie, pantaloni, giacche, bustine grigioverdi, poi le tenute grigie da lavoro, un grande mucchio di scarponi militari,i capaci sacchi militari, il biancore delle cosiddette pezze da piedi. Ci gettiamo nel mucchio tra risa e lazzi nel ritrovarci a volte in spropositati camicioni, a volte in vaste giacche le cui lunghe maniche penzolano fino a terra. Nello stesso tempo ci liberiamo dei nostri abiti borghesi riponendoli in sacchetti numerati. La faccenda va avanti un bel pezzo fino a che ci ritroviamo tutti belli in divisa. Nei capaci sacchi infiliamo i nostri stracci di casa, il vestiario intimo, qualche paio di inutili calze, qualche libro, le posate, altri oggetti nascosti nelle valigie da premurose madri. Quando siamo del tutto pronti ed i nostri sottufficiali hanno terminato di numerare con il nome e cognome di ognuno i contenitori dei panni borghesi, ci fanno allineare in riga ed avviene la presentazione al comandante della nostra compagnia, il tenente Pedrazzini di Milano e quindi l'assegnazione dei moschetti 91 con l'iscrizione del numero di matricola di ciascuno al nome della recluta.. Il pranzo sostanzioso nella sede del comando del battaglione e poi di nuovo in marcia, questa volta con il moschetto sulle spalle ed i sacchi appesi alla schiena. Già il nostro incedere è più marziale, attraversando di nuovo le vie di Gorizia qualche passante si sofferma a guardarci, verso il centro c'è anche chi ci applaude. Si prosegue oltre alla Stazione Centrale fino alla caserma "Del IX Alpini" posta proprio all'ingresso del sobborgo di Sant'Andrea. E li rimanemmo chiusi per quindici giorni, nelle regole militaresche della fanteria, per imparare, per ore ed ore, il corretto saluto ai superiori, l'uso delle armi singole, i nostri piccoli '91, e dei mitragliatori Fiat, le mitragliatrici Ansaldo, un mortaio da 81 pollici ed un cannoncino da accompagnamento 47/32.. Più arduo del previsto lo smontaggio e rimontaggio degli otturatori con reciproco scambio di sfottò tra noi reclute imberbi.

Arrivò il giorno della prima libera uscita, giorno atteso e temuto per l'ispezione da affrontare al portone di uscita della caserma. Il problema più incombente era costituito dall'uso delle pezze da piedi in luogo delle comode calze. Per me ed altri un dilemma se cacciare la sommità delle pezze, come da regolamento, e cioè dentro alle fasce da gambale avvolte sul collo dello scarpone o fasce e pezza infilate entrambe dentro a quest'ultimo. Tutto questo perché spesso il collo dello scarpone era più largo della gamba per cui il tutto regolamentare si disfaceva dopo pochi passi. Riuscimmo peraltro a mantenere la cosa a posto camminando rigidi al passaggio davanti all' ispettore di turno per ricacciare poi fascia e pezza dentro allo scarpone appena girato l'angolo del portone della caserma. Soluzione poco elegante ma efficace. E dopo quel giorno le esercitazioni si svolsero al di fuori del recinto militare, su un largo spiazzo erboso con isolati cespi di cespuglio, tra la caserma e la riva sinistra dell'Isonzo. Nella caserma del "IX Alpini" si aggiunsero a noi quattro sottufficiali della Milizia Confinaria in camicia nera, un sottotenente di fanteria, un maresciallo (feldwebel) e due sottufficiali della Wermacht tedeschi. Uno di questi, Ulrigh, ci dava al mattino la sveglia con sonori "aufwachen" ed era il nostro istruttore più esigente e severo, con lui le punizioni erano frequenti e consistevano in giri di corsa intorno al perimetro della caserma per un numero di giri collegato alla gravità dell'infrazione. In genere noi si andava più d'accordo con i camerati tedeschi che non con i sottufficiali italiani. Nell'ufficio della caserma erano impiegati due ragazzi lombardi. Lo strano è che tanto in caserma che più tardi, in zona di operazione, noi fiumani e triestini legammo di più con gli osservatori tedeschi che non con i sottufficiali in camicia nera. Questi facevano un gruppo a se, fraternizzavano raramente con la truppa mentre i tedeschi erano sempre allegri compagnoni, tranne il già citato Ulrigh il quale però, al momento che noi si finiva il periodo di addestramento, ci volle accanto a lui dicendoci di scusarlo per la sua severità ma essa serviva per fare di noi dei veri soldati e per salvarci la vita nei combattimenti. Si, finì anche il periodo della nostra istruzione bellica. Io fui destinato alla stazione ferroviaria di Cormons. Ho descritto altrove la nostra partenza dalla caserma per raggiungere le nostre zone di impiego con le madri dei triestini venute a Gorizia per salutare i loro figlioli, tra esse alcune penetrarono nelle nostre file per sorreggere il pesante sacco del loro ragazzo, oberato dal peso di quest'ultimo, del moschetto, della maschera antigas. Noi si era tutti in attesa delle nuove future avventure in grigioverde. Fino a quel momento nulla aveva scalfito la nostra determinazione di difendere il confine orientale della Patria.

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A Cormons nel 1944. Di stazione alla stazione ferroviaria di Cormons. Alle estremità della pensilina due postazioni difensive formate da traversine per binari accatastate le une sulle altre disposte ad angolo retto. Non so quale valore possono avere nel caso di un attacco. Morale probabilmente, unicamente morale. Come forza d'urto siamo a livello di plotone, a comandarci un anziano capitano di fanteria che compare di rado. Si dorme su brandine singole in due locali. Unico particolare piacevole la presenza di una cuoca tutta per noi. Io, al mattino, esco in città a fare le spese. Noi si sta ancora giocando alla guerra.I turni di guardia sula pensilina, in pattuglia al mattino lungo la linea ferroviaria nella tratta tra Cormons e Ponte Iudrio, un fiumiciattolo senza pretese ma già antico confine tra l'Italia e l'Austria. La linea ferroviaria è quella tra Gorizia e Udine. Obbiettivo militare la presenza della base operativa del treno armato tedesco che si muove, con due possenti cannoni, nella prossimità delle coste friulane e venete per respingere eventuali attacchi navali nel caso di tentativi di sbarco alleati. La base dista dalla stazione ferroviaria un duecento metri, consiste in quattro o cinque vagoni dei quali uno attrezzato ad officina e magazzino ricambi, uno a sala mensa, e gli altri a dormitori per l'esigua guarnigione. A Ponte Iudrio c'è un'altra nostra postazione, la comanda un sergente maggiore, allievo ufficiale sardo, assistito da un ingombrante maresciallo della Wermacht (ho cercato questa parola tedesca per controllarne l'esattezza in un vocabolarietto tedesco in mio possesso senza trovarla, l'ho fatto per evitare che Furio, sempre alla ricerca di miei lapsus, ne abbia a ridire). In piena estate un fragoroso attacco aereo alleato alla base, ci fa ricredere sul giocare alle guerra. Si tratta di un unico aereo, caccia bombardiere penso, che ci toglie dalla tranquilla siesta pomeridiana e apporta un bel pò di confusione. Durante le strette virate del caccia sulle nostre teste mi caccio sotto alla brandina, ben fragile difesa, scorgo un commilitone addossato nel vano della porta interna d''accesso al locale. Allorché il can-can si calma, mi rimetto gli scarponi ed esco a vedere cosa è accaduto al di fuori, la stazione ferroviaria è assolutamente intatta e assolutamente vuota di personale. Però scorgo, in direzione della base del carro armato, un groviglio di cavi elettrici e relativi pali di sostegno abbattuti, in mezzo a piccoli crateri da cui si levano al cielo azzurro rotaie troncate. Un Po distante dalla base, vedo un vagone in fiamme. Mi giunge dai vagoni d'appoggio tedeschi un lamento, mi guardo d'attorno ma non vedo nessuno, mi avvicino, aiutato dai lamenti raggiungo l'uomo, un aviere tedesco, seduto al suolo con il ventre aperto e le interiora che gli fuoriescono dalla larga ferita. Lui cerca di raccoglierle con le mani e ricacciarle dentro al corpo continuando il suo lamento "Mutter! Mutter!", Come poterlo aiutare? Accanto a me vedo avvicinarsi un altro aviere, rimaniamo entrambi, per qualche momento a guardarlo, cosa possiamo noi fare? Mi allontano disgustato nella mia impotenza, torno a guardare il vagone che continua a bruciare, li forse posso intervenire, e ritorno verso la pensilina, verso la cassetta che contiene la manichetta antincendio. Estraggo la lancia e prendo a trascinare la manichetta fino al vagone, torno nuovamente al contenitore, apro la valvola sperando ci sia presente una pressione d'acqua e c'è perché la manichetta si allarga e si contorce, raggiungo di corsa il vagone ed indirizzo la lancia ed il flusso dell'acqua sulla parte dove le fiamme stanno intaccando le pareti in legno. Continuando la mia opera, mi guardo in giro, ora intorno alla base c'è più gente ma rimangono tutti fermi, qualcuno è accanto al morente per confortarlo nei suoi ultimi momenti, su di un lato della stazione facce affacciate dietro all'angolo, intente a guardare, guardare che? Mi assicuro che le fiamme sia del tutto spente ed il fumo dissolto per riprendere la spola tra vagone e cassetta antincendio della stazione camminando sempre con attenzione tra i cavi elettrici della ferrovia. Ora compare più gente mentre arrotolo calmo la manichetta nella sua ruota d'appoggio. Poi mi vedo attorniato da avieri ed ufficiali tedeschi e debbo assorbire le loro manate sulle spalle ascoltando senza comprendere i loro "Sehr gut, sehr gut"..

Poi arriva il nostro capitano tutto affannato che mi porge e mi scuote la mano, ed allora gli chiedo il perché di tutto quel casino. Quel vagone è la Santa Barbara del treno armato, contiene i grossi calibri per i cannoni. Mi gira la testa, l''avessi saputo! Questo episodio pone in qualche esitazione la nostra giocosa interpretazione della vita militare. Che si estingue del tutto un due, tre settimane dopo, con la morte in una esplosione di una mina sulla linea ferroviaria,, a Ponte Iudrio, di Mario Faldich e del ferimento grave di Cuttini e Castagna. Due fiumani ed un triestino, tutti della nidiata di Sant'Andrea. E è sancita dal successivo trasferimento dei due reparti a Canale d'Isonzo, sulla tratta ferroviaria Gorizia- Klagenfuth. Tra le cupe montagne della zona scompare per sempre la nostra giocosità, la nostra giovinezza, con la dolorosa recente perdita di un nostro compagno d'arme. Siamo ormai in guerra, ci sentiamo in guerra.

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Fine settembre 1944. A Canale d'Isonzo. Alloggio alla Stazione Ferroviaria. Al comando della postazione c'è un Sergente Maggiore dei Confinari in camicia nera, sardo ovviamente, con lui altri due o tre confinari.. Una truppa a se, fanno gruppo chiuso, pensano a salvarsi la ghirba e riportarla a casa, in Sardegna. Altro ospite della stazione è un capitano delle SS in funzione di osservatore, dei ragazzi di Cormons e di Ponte Iudrio non c'è nessuno, gli altri soldati sono tutti veterani della 2a Compagnia, in genere lombardi, anche loro fanno gruppo compatto. Nostri doveri quelli consueti, al mattino in pattuglia lungo la tratta ferroviaria Canale d'Isonzo - Salona. un 12 chilometri più a sud con il grande cementificio la cui alta ciminiera sovrasta tutta la vallata. Poi, per il resto turni di guardia all'edificio della stazione. Verso nord il ponte ferroviario e la masiccia sagoma della diga idroelettrica protette da quattro postazioni. In centro al paese una casona che ospita i miei amici, fiumani e triestini della caserma di Sant'Andrea. Un po fuori la cinta abitata la villa comando della compagnia con gli scritturali, i cuochi e garzoni delle mense, i dispensieri, tutti grassi ad attempati marescialli, sottufficiali che allignano intorno al tenente Pedrazzini e all'unico sottotenente che dovrebbe sovraintendere le quattro posizioni intorno alla diga.

Quello che mi colpisce subito è l'atteggiamento mutato dei fiumani e dei triestini. Non più scherzosi, vivaci, non più lazzi o scherzi la notte, hanno subito assorbito la cupa atmosfera dei luoghi e degli anziani commilitoni della 2a compagnia. Due mesi prima tutti i componenti di una pattuglia è caduta in una imboscata tra Canale e Salona, unico superstite un confinario gettatosi rotoloni sulla china verso l'Isonzo. Più giù, verso Gorizia, a Plava, si è verificato adirittura un tradimento da parte di un tenente sardo al comando, che ha fatto penetrare entro all'abitato un gruppo di partigiani i quali hanno sopraffatto, di sorpresa la guarnigione. Un unica postazione, composta da ragazzi fiumani si è opposta alla resa, minacciando di rispondere con il fuoco delle loro armi al tentativo partigiano. Ucciso un graduato tedesco di collegamento, fatti prigionieri gli altri soldati, gran parte di questi ultimi è in seguito riuscita a fuggire ripresentandosi alla 2a Compagnia. Questo episodio è valso a far mutare gli umori di tutti per il fatto che ora c'era da guardarsi non solo dai partigiani ma anche dagli stessi commilitoni. Si stabilì quindi tra la truppa un'atmosfera di reciproci sospetti, tanto più che quel episodio non rimase l'unico lungo la linea tenuta dai reparti del XIV Battaglione. Come ricordato in un altro mio "episodio", ebbi ben presto un vivace scambio di vedute con il sottufficiale confinario per cui il tenente Pedrazzini mi trasferì presso il suo Comando. Non vi rimasi molto, non mi garbavano quegli untuosi e ed esigenti marescialli e sottufficiali di fureria e non mi andava mi prendessero per ragazzo di servizio e ben presto trovai una definitiva sistemazione più a nord, nella postazione accanto alla diga idroelettrica, sottoposta è vero ad occasionali attacchi notturni di partigiani dall'alto del costone di una montagna sovrastante il sito, in genere subito zittiti dalla grossa mitragliatrici da 20 mm. posizionata sul tetto della stazione, quelle traccianti verdi sopra la nostra testa erano confortanti. Ero, se non altro, di nuovo in mezzo a gente nostra, cuoco friulano che, faceva Ciol di nome, il cui fratello era nella postazione all'inizio del ponte della ferrovia, subito al termine di una breve galleria.

Nostra casermetta era una bassa costruzione, ospitava noi, un ennesimo confinario semplice, sardo ovviamente. Comandante del gruppo era il sergente maggiore Loi, allievo ufficiale, perito minerario, con il quale strinsi presto amicizia e con il quale facevamo, al pomeriggio, passeggiate distensive tra una postazione e l'altra sulla riva sinistra dell'Isonzo. Ed è con lui che nascevano le nostre considerazioni sulla nostra situazione locale e quelle generali. Considerazioni non certo liete. Quei due ripidi costoni di montagna incombenti sull'alveo dell'Isonzo, sulla diga e sul ponte ferroviario, appetibili obiettivi sia per i partigiani che per i bombardieri alleati. Loi doveva lasciare il luogo ben presto per l'Italia onde seguire il corso ufficiali e si augurava che ciò gli accadesse al più presto. Si parlava di noi destinati a rimanere li, isolati, in mezzo alle orde comuniste. Considerazioni, solo considerazioni. Che a di fine dicembre furono interrotte dal sibilo delle bombe di una formazione aerea alleata mirante alla distruzione del ponte e quindi all'interruzione delle comunicazioni ferroviarie tra Gorizia e Klagenfurth, tagliando quella via di transito per i rifornimenti militari tedeschi al sud e, al tempo stesso, la prevista via di fuga alle truppe germaniche verso la loro patria. Considerato anche il fatto che i tentativi partigiani per lo stesso scopo erano finora falliti per la resistenza loro opposta dalla presenza dei fanti del XIV Battaglione Italiano Costiero da Fortezza, dei bersaglieri del Battaglione "Mussolini" e dagli alpini della "Tagliamento". Costoro, per sapendo della futilità della loro presenza in quel fronte, non desistettero ma conservarono le loro posizioni fino alla fine, ritardando l'invasione delle truppe slave. Una gran parte di essi furono catturati come prigionieri e la maggioranza soppressa dai partigiani.