Arrestato nel Congo

di

Neumann Antonio




Pointe-Noire. Il porto, se così si può chiamare, nel Congo già belga. Un conglomerato di basse costruzioni con i tetti spesso di sola paglia, circondato dalla foresta. Qualche approdo banchinato quà e là in mezzo ad aquitrini che, a sera, divengono il regno delle zanzare in un rumoroso concerto di rane. Io sono adibito a direttore di macchina con tre negri ai miei ordini, in coperta c'è un comandante il cui equipaggio è costituito da altri tre negri che s'avvicendano al timone in navugazione. Nero è anche il cuoco, rubato ad un albergo, il "Cote d'Avoir" di Abdijan, nella Costa d'Avorio. La nave è un vecchio mezzo da sbarco francese risalente alla seconda guerra mondiale con due motori diesel "Badowin". L'avventura inizia cinque mesi prima ad Abiidjan. Mi aveva chiesto, la "Carboflotta" di Genova, dopo due anni di imbarco sulla M/n "Giovanni Agnelli", di andare nella Costa d'Avorio per conto di una grossa impresa italiana con il fine di seguire i necesssari lavori di ripristino ai motori propulsori e poi portare la nave a Mogadiscio, in Somalia, dove sarebbe stata adibita al trasporto di materiali per la costruzione di un aereoporto in prossimità della città.

Ad Abidjan ebbi ad alloggiare in un moderno albergo gestito da francesi mentre al cantiere navale con il direttore anch'esso francese, un ometto gentilissimo con i capelli bianchi, che al mattino si poneva in mezzo all'ingresso dell'edificio direzionale, per salutare uno per uno i suoi dipendenti nativi con un: "Bon jour, messier, come s'avà?" "Ce va bien, ce va bien, messier." con stretta di mano reciproca. Nativi tutti arabi, in lunghi camicioni bianchi e piedi scalzi, rabbrividdivo nel vedere i tizzoni nelle saldature cadere rossi fuoco sulle gambe e piedi scoperti. Alla sera, insieme agli impiegati italiani dell'impresa, ci si riuniva nel più elegante albergo della città, in riva al mare, per qualche ballo con le francesine locali. Talvolta il direttore del cantiere mi inivitava a cena in casa sua dove mi raccontava delle sue vicende come pioniere in quel selvaggio paese. A noi si univa più tardi, il suo capo officina e si tracciavano i lavori per l'indomani. Quando ebbi ad elogiare l'abilità professionale dei loro operai arabi, mi informarono che i negri di origine ghanese, non avrebbero mai preso in mano un attrezzo di lavoro, per essi la massima aspirazione era l'abito europeo, scarpe incluse, l'impiego in un ufficio statale e, chimera ultima, la macchina, l'auto cioè. Abidjan, città pulitissima, con viali alberati, la strada principale con eleganti caffé e ristoranti da un lato e un vasto giardino dall'altro, in fondo l'azzurro del mare. Nel frattempo cambiarono due comandanti. Mal si adattavano alle ristrette comodità di un mezzo da sbarco e al equipaggio indigeno. Infine arrivò un giovane primo ufficiale di Genova che per prima cosa, durante le prove in mare andò a sbattere contro una grossa boa in mezzo al porto e lasciando Abidjan con le istruzioni di navigare sempre ini vista della costa, se ne allontanò subito tagliando al largo nel Golfo di Guinea verso Port Gentil, nel Gabon, dove manovrando lungo una specie di malandata banchina portò il vecchio battello a sbattere con la poppa su uno scoglio deformando le pale di una delle eliche. Zoppicando, arrancammo verso Point-Noire dove esisteva un'officina navale di riparazioni.

Pointe-Noire, già. Oltre all'officina c'è anche un piccolo bacino per le barche da pesca, numerose in zona. Il Taki", è questo il nominativo del nostro mezzo da sbarco, entra quindi in bacino dove l''elica deformata viene tolta dal suo asse che, per fortuna, risulta bene allineato allo scafo, e le pale di bronzo saranno radrizzate prendendo a modello quelle dell'elica di sinistra rimasta intatta. C'è anche da rimediare ai danni allo scafo per la collisione alla boa ad Abidjan. Così io e il comandante ci isistemammo in un discreto albergo dotato di una piscina nella quale, a sera si mantengono in forma due americani di una società petrolifera. Il cibo è decente. Dopo una cena niente male andiano a giocare iin una vicina sala di "bowling" con bar annesso. Una località isolata, nel mezzo di una foresta. Unici ospiti dell'albergo noi ed i due americani. Il fattaccio si verifica il giorno dopo. In tanto in mattinata arriva da Genova l'ispettore della "Carboflotta" insieme al nuovo direttore di macchina, un livornese, il cantiere vuole sapere chi pagherà i lavori, discussione con i belgi che gestiscono bacino e cantiere, si va per le lunghe, quando giungiamo all'albergo è tardi e ci accontentiamo di un pasto ormai freddo. Al pomeriggio di nuovo in cantiere per controllare l'esecuzione dei lavori. Io rientrerò in Italia insieme all'ingegnere della "Carboflotta". Non mi fidavo di girare intorno a Capo Horn con quel comandante che poi risultò essere alla sua prima esperienza anche come primo ufficiale.

All'imbrunire si cena al ristorante dell'Albergo e poi si ritorna al "Bowling", In città non è consigliabille. Da poco, nel Congo, si è stabilito un governo comunista di impronta cinese, vi avvengoono ancora scontri politici, la polizia è formata da figuri in borghese che sfoggiano mitragliatori sottratti ai regolari in fuga dal paese. Il "Bowling" è caratteristico nel senso che le sfere ritornano nella corsia di impugnamento scagliate da un negro posto dietro allo sfondo filale della pista di lancio, ogni tanto accade che le sfere non ritornano ai lanciatori, allora il gestore del bar urla "Booool" e quello si risveglia da un pisolino e rilancia indietro le "Bouws". Intorno alle 22.00 lasciamo il "Bowling" per rientrare all'albergo, sono quasi a dirimpetto sulla strada, le due costruzioni. Si e no una decina di metri. Noi si è in quattro, il comandante, l'ingegnere e noi due direttori. Ci troviano esattamente alla metà dello stradone quando, alle nostre spalle si eleva sonoro un "Fermè vous". Ci voltiamo e dal buio tra gl alberi spuntano quattro neri straccioni con i mitragliatori puntati verso di noi. Ci intimano di presentare i nostri documenti. Io ho in tasca il Libretto di Navigazione, l'ingegnere il suo passaporto, il comandante e il nuovo direttore hanno i documenti in albergo e chiedono di rientrarvi per presenntarli a quei ceffi, che poi siamo a un cinque metri dall'ingresso, quelli continuano a tenerci sotto mira dei mitragliatori, sostengo vivacemente, mezzo in francese e mezzo iin inglese, l'assurdità della cosa. Insistono, mi posano la canna del mitragliatore sulla pancia. Tu è quello con il passaporto dentro all'albergo, gli altri due senza passaporto li portiano alla polizia. Io sposto con forza la canna puntata dal mio ventre e calmo e fermamente ci rispondo che io non lascio quei due miei amici soli nelle loro mani perchè non parlano ne in francese ne in inglese. Si consultano tra di loro. Mentre essi parlottano , dico all'ingegnere di tornare all'albergo e tentare di telefonare ai due belgi del cantiereinformandoli dela nostra situazioni, nell'albergo avevo visto un telefono e un elenco telefonico. "Allons!" intimano quelli a me e ai due privi di docimenti. Ci incamminiamo lungo il viale, io penso che si dirigano versa il centro cittadino, invece, ad un certo punto prendono per una strada alla nostra sinistra, un altro interminabile viale, immergendoci sempre di più nella foresta, la cosa si mette male e prendo a discutere sempre vivacemente con i presunti poliziotti, quelli mirano ai nostri quattrini e ai nostri orologi, Continuano a ripetere "Noi partisans, noi partisans." "Anch'io stato partigiano in mio paese" ci rispondo. "Moi aussi partisan!" con il mio scarso francese, in fondo è vero, per due giorni, a Valsantamarina sono stato effettivamente partigiano doc. I toni si attenuano, ora diiscorriamo. Arriviamo alla fine del vialone che sfoccia in una piazzetta con due o tre casette basse e due taxi fermi. I nostri poliziotti sempre dietro a noi ma ora con i mitragliatori incrociati sul petto, ci indicano di imboccare un altro vialone, sempre sulla sinistra. Io mi blocco in mezzo alla piazzetta. Per istrada mi avevano chiesto perchè zoppiccavo e avevo detto loro che, da partigiano, ero stato ferito dai tedeschi, mentre era stato uno spezzone di bomba inglese a ridurmi in quello stato. Affermo che io sono stanco di camminare per via della gamba, li ci sono due taxi, li prendiamo e ci facciamo portare alla loro stazione di polizia. Nuovo consulto, nicchiano ancora. "No, mi spiace, dico io, noi non ci muoviamo più di un passo da quì se non in taxi. E rifletto, con i tassinari non vorranno certo esporsi. Ancora un consulto e ci avviciniamo tutti ai taxi. Siamo in città e percorriamo strade affollate. Ci si ferma davanti ad una largo edificio a due piani. Ci fanno entrare in un vasto stanzone, Un'alta cattedra dietro alla quale siede un ufficiale già in divisa con galloni e medaglie dopo due giorni di rivoluzione, rubati da qualche poveraccio di militare dell'esercito in fuga. banchi di scuola in parte occupati da negri scalcinati, prostitute e un rumoroso gruppo di marinai norvegesi mezzi ubbriachi. Ci sediamo anche noi su due banchi vicini. e assistiamo allo svolgersi delle interrogazioni. Accanto a noi, in piedi, impettiti, i nostri accompagnatori. Dopo una mezzora, vediamo arrivare i due belgi, ci individuano nella folla e si avvicinano subito all'ufficiale. Parlottano con esso indicandoci tra la folla di imputanti di una qualche mancanza. Uno dei belgi si avvicina a noi, il giudice vuole vedere in mio documento, lo porgo al belga con riluttanza, è il mio libretto di navigazione caspita, mi riassicura, Sulla cattedra l'ufficiale lo guarda, lo rigira tra le mani, sfoglia le pagine, rimarrà poi impressionato nelle ultime pagine dal numero di visti sovietici (per quasi due anni avevo fatto la spola tra Venezia e Odessa con una carboniera). Difatti si congeda con una stretta di mano dal nostro salvatore che si avvicina a noi riportandomi il prezioso libretto. Nell'uscire si avvicinano a noi i cosidetti poliziotti, vogliono anche loro stringerci le mani a significare la loro soddisfazione per la felice soluzione del caso. Accidenti a loro e ai congolosi, ci hanno fatto passare brutti momenti.