Dove si parla di Giacomo Scotti

di

Neumann Antonio




Cari tutti,
La prima redazione della "Voce del Popolo" era ubicata al primo piano in via Ciotta, vicino al Teatro "Fenice" e alla Sala Bianca. Al pianterreno vi era la rotativa e l'ampio vano che conteneva le linotypes, i banconi per la composizione delle pagine, gli armadi con i piombi e ed i grembiuli neri dei linotipisti.Il secondo piano dell'edificio era occupato dalla tipografia commerciale. Tutti gli spazi erano intercomunicanti. A dirigere il giornale, nell'immediato dopoguerra, vi era Erio Franchi, nella stessa stanza direzionale, di fronte alla scrivania del Franchi vi era quella di Lucifero Martini, genovese. Dall'altro lato del corridoio la stanza della redazione vera e propria con il capo redattore Turk e i casuali collaboratori, Tich allora anche impaginatore, Mazzieri, Barbalich ragazzi tutto fare. Tich e Mazzieri, come me, precedenti, saltuari collaboratori della "Vedetta d'Italia". Io ci capitai per caso,scrissi un articolo di colore, piacque subito a Franchi che lo pubblicò, Tich, con il quale ero in contatto per la ripresa delle attività sportive a Fiume, lo lesse e mi chiese di entrare nel giornale come correttore di bozze, con l'approvazione di Erio e la diffidenza di Lucifero per un ex repubblichino.quale ero. Dopo quella della redazione, veniva la stanza riservata ai traduttori dal croati vi si trovavano Sirola capo traduttore e due ragazze traduttrici, Nives, una morettina con la quale si creò un certo feeling, e una bionda occhialuta asessuale.
Di seguito a quest'ultima stanza vi era l'uscio che portava giù alle linotypes e ai maestri impaginatori. Accanto all'uscio uno stanzino per i correttori il cui compito consisteva nel rabberciare i risultati delle traduzioni dal croato e degli articoli di cronaca o sportivi. Vi lavoravano, a quel tempo, Piccoli e un anziano capitano dell'esercito in ruolo amministrativo, sposato ad una fiumana. Io fui il terzo a penetrare nell'esiguo spazio ove fu aggiunta una seggiola al lungo bancone carico di bozze di articoli sparpagliate Si lavorava di notte. A sera percorrevo il corso affollato, Piazza Elena e poi infilavo via Biotta. Poi ad affrontare le lunghe "pappardelle" di Tito, di Kardely e di altri pezzi grossi, lunghe tirate noiose che, dalla prima pagina, spesso trasbordavano nella seconda locale che quindi s'era costretti a limitare. Ad un certo punto della nottata, une delle ragazze del reparto commerciale ci portava su un vassoio con le squisite colazioni, pane bianchissimo, mortadella, salumi e prosciutti di ottima qualità, introvabili altrove a Fiume. Il nostro era considerato un lavoro stressante e malsano per i fumi di piombo che impregnavano l'ambiente. Si terminava il lavoro alle 06.00 del mattino, ripercorrendo un corso invaso da centinaia di blatte ("Bacoli") nerastri, tanto che abbisognava guardare dove mettere i piedi per non schiacciarli. Erano frutto dei bombardamenti che avevano provocato crolli o lesioni ai caseggiati. Giunto a casa, che pullulava anch'essa degli sgraditi ospiti, dovevo svuotare i bicchieri entro i quali poggiavano gli immondi animaletti annegati, per riempirli nuovamente d'acqua garantendomi sonni tranquilli. L'ambiente di lavoro. Era tranquillo e sereno. Giovanile, Si scherzava tra noi, si celiava sugli sproloqui dei dirigenti titini senza toccare la serietà dei loro intenti politici, Martini non l'avrebbe permesso anche se lui era sempre pronto a rovesciarci sulla testa un cestino di cartacce nella battaglia tra una stanza e l'altra. Ambiente di lavoro da un canto serissimo, professionale, dall'altro allegro, gioioso. Ad un certo punto divenni membro della redazione passando da traduttore a redattore, poi Tich ebbe ad affrontare una malattia per cui dovette allontanarsi dalla sala delle linotypes e dai fumi e il direttore Erio Franchi mi pregò di passare io ad impaginatore. Per una settimana, a sera, scese con me nella sala piombi per seguirmi nel mio nuovo lavoro. Tecnicamente erano i maestri tipografi bravissimi ad introdurmi nell'arte e nelle regole dell'impaginazione. Al termine della settimana mi dichiarò solennemente che da quel momento, le otto di sera, fino all'uscita dell'ultima copia del giornale dalla rotativa, era mia responsabilità seguire il giornale tanto nella sua correttezza politica che in quella più propriamente tecnica. Erio ripose, con quel gesto, una grande fiducia in me ed io mai ebbi a venire meno a tale sua fiducia, sua di lui, di Lucifero Martini e degli altri lavoratori e collaboratori del giornale. Fu un periodo felice, armonioso, coeso. Durò un due anni, poi giunsero i nuovi.
Giacomo Scotti, un Pasolini da non so dove che si professò figlio del Pasolini scrittore di fama e un ingegnere di Falconara. Mentre il presunto Pasolini e l'ingegnere presero posto attoniti ed indecisi sul da farsi, lo Scotti entro in quel fino ad allora pacifico ambiente, come un invasato, con articoli violenti sulle malefatte di questo o di quello fascista in Italia, con una fanatica venerazione per Tito, con una sproposita venerazione per le azioni partigiane in guerra. Io, benché fossi un impaginatore, nel corso della giornata mi ritrovavo spesso in redazione dove portavo un qualche mio articolo sportivo, coprivo la pallacanestro, l'atletica leggera e lo sci, Andavo da Franchi per commentare le impaginazioni della giornata e per scambiare qualche battuta con Martini. Per tale motivo, venni in un certo qual senso favorito dalla mia posizione per rendermi progressivamente conto, del venir meno della precedente spontaneità nei rapporti di lavoro tra noi tutti. Scomparì di scena il presunto Pasolini dopo che saltò fuori che questi non ebbe mai figli. L'ingegnere non legava con nessuno, provò a scrivere qualcosa sui Cantieri Navali, sul Silurificio, articoli bui e tenebrosi come lui. E lo Scotti che prese ad infiltrarsi dappertutto, che ebbe a ridire sulla mancanza di motivi sociali nei nostri resoconti sportivi. Vedeva risvolti sociali dappertutto e li rifilava tanto nei suoi articoli che nel suo discorrere. Non gli riusci di inserire il suo comunismo spinto negli elenchi degli orari ferroviari e nei necrologi. Insomma, se prima i nostri discorsi erano liberi, sciolti, iniziarono ad essere cauti. Non cercò alcun approccio con me che esibivo la mia italianità e, perché no, la mia condizione di ex repubblichino della R.S.I. Però si accostava agli altri con lunghe discussioni. Nives ebbe a mettermi in guardia, poverina. Fatto stà che quel fanatico finì con il rovinare il sereno convivere precedente.
Cosicché quando al direttore Erio Franchi palesai della mia intenzione di optare per la cittadinanza italiana, egli mi chiese di incontrarlo un pomeriggio nel parco cittadino per una conversazione tra amici, tra persone che si stimavano reciprocamente, che avevano anche imparato a volersi bene nel lavorare insieme per il suo giornale. Si sforzò, Erio, per convincermi a rimanere, mi confessò anche lui di essere turbato dai mutamente verificatisi dopo l'arrivo dello Scotti, accennò a pressioni, mi disse di trovarsi anch'egli in condizioni di disagio e perciò mi pregò caldamente di non abbandonare. Per me, mentre ci si trovava seduti ad una banchina, sotto i verdi alberi del parco, fu molto duro persistere nei miei intendimenti. Sentivo un vivo affetto verso di lui e la sua squisita gentilezza, verso gli altri che lavoravano al giornale, verso i proti ed i linotipisti che tanto mi avevano aiutato con la loro esperienza ma, nello Scotti intravedevo quale sarebbe stata la nuova essenza del quotidiano, il rigore, il peso del partito comunista che già avvertivo nell'ambito sportivo. C'era anche il problema mio famigliare. A mio padre e alla sua attività commerciale, già interrotta durante l'occupazione tedesca, era sopravvenuta la chiusura totale, i suoi beni, le terre possedute negli immediati dintorni della città confiscati perché appartenenti al popolo, mio fratello maggiore e mia sorella già in Italia, Come sopravvivere noi, con 3.000 lire al mese del mio salario mentre in Italia, il mio titolo di studio professionale mi assicurava il lavoro in breve tempo? Feci presente anche questo lato ad Erio ed egli infine comprese che non avevo, che non avevamo altre scelte. E continuai così per un due mesi ancora, a curare l'impaginazione della "Voce del Popolo", a subire le intrusioni dello Scotti. Poi ricevetti dal Consolato Italiano di Zagabria l'atto di opzione per l'Italia. E contemporaneamente lasciai i miei proti, i miei linotipisti, la mia rotativa. Con il cuore che mi doleva, per loro, per Erio, per Lucifero, per Nives.