Perplessità

di

Neumann Antonio




La nave era l'"ORFEO" della Società Ligure d'Armamento di Genova; l'anno era il 1975, in quel preciso momento si trovava attraccata al molo "Scovazza" di Fiume in attesa di muoversi, nel pomeriggio, alla banchina di scaricazione del carico di minerale di ferro nella zona commerciale del porto.
Io ero in stato di euforia fin dal pomeriggio precedente, da quando cioè, per cortesia del comandante, si era iniziato a costeggiare il versante orientale dell'Istria ed ai miei occhi, dopo vent'anni di assenza, di esilio, ricomparivano le casette bianche di Bersezio, il piccolo villaggio dove era nata mia madre posto in cima ad un cocuzzolo montuoso a picco sull'azzurro mare del Golfo del Quarnero, e dopo poco scorgevo il campanile della chiesa di Moschiena Alta. Scorgevo quella costa con gli occhi velati di lacrime dalla commozione che provavo, irrefrenabile, dentro di me. E poi la lunga spiaggia di ghiaia, con le casupole dei pescatori e l'abitato arrampicato all'estremità di un verde costone che scendeva dal massiccio del Monte Maggiore, i luoghi, i ricordi più felici della mia infanzia e della mia adolescenza. Mi dovevo stropicciare gli occhi di frequente affinché le lacrime mi consentissero di rivedere quei posti amati. Mi avevano lasciato solo sull'aletta di sinistra del ponte di comando per non turbare le mie emozioni. Poi, all'altezza di Abbazia si mutò la rotta ponendo la prua verso Fiume. Era quasi il vespero quando ci ancorammo in prossimità del pennello dell'entrata al porto.

Ed ora, dalla coperta riguardavo la superficie del molo, per nulla mutata, cosparsa di ammassi di merci le più varie, di cataste di assi e di pali di legno, voluminosi imballaggi proprio come in un tempo lontano. E, davanti agli occhi la sontuosità della facciata in stile vagamente liberty dell'palazzo "Adria" già sede delle società armatoriali cittadine e non, della "Fiumana di Navigazione", della "Costiera", della "Sidarma", dell'"Adria" per citare solo quelle fiumane, ma poi le agenzie del Lloyd Triestino, dell'Adriatico di Navigazione ed altre, tutte con le targhe identificative collocate sui balconi del lato a mare. Appena attraccati erano salite a bordo le autorità portuali, quelle della Capitaneria di porto, ora "Lucka Capitanja",della Dogana, della Polizia, i ricevitori del carico, persone affabili, scambi di cortesie tra un bicchierino e l'altro così come si usa in ogni porto. Tra me ed il comandante ci scambiavamo occhiate perplesse. E' l'Agente quando arriva?. Tutti gli armatori hanno una propria agenzia spedizioni in ogni porto del mondo che deve curare gli interessi dell'armatore verso le autorità od enti portuali, preoccuparsi di tutte le esigenze della nave e del suo equipaggio per quanto riguarda la fornitura di viveri e quant'altro materiale necessario, l'esecuzione di lavorii di riparazioni. Le autorità se ne erano andate un'ora prima e quello non si vedeva ancora, il telefono a bordo ce lo avrebbero installato nel pomeriggio nella banchina di discarica.

Così, intorno alle nove del mattino, comparvero nella mia cabina-ufficio il comandante e il cambusiere, ci interrogammo e poi il comandante mi disse: "Neumann, lei è di Fiume, quì c'è ancora gente vostra, ho visto che alla radice del molo c'è un telefono per chiamare un taxi, lo prende e si fa portare a questo indirizzo.". Non me lo feci dire due volte, poter scendere a terra nella mia Fiume. Mi rimisi quasi a piangere percorrendo con il taxi la riva, rivedendo la casa che aveva ospitato per molti anni la mia famiglia, mi feci forza specie quando ci fermammo in piazza Scarpa, davanti al Palazzo dell'Intendenza di Finanza, ed entrai nella presunta agenzia, un'agenzia ben strana, sembrava organizzata li per li e formata da due stanzoni grigi, il primo proprio all'ingresso, senza suppellettili, il secondo ospitante una vecchia scrivania, di quelle con un telo verde liso a fare da pianale, Un armadio vetrato ma assolutamente vuoto così come era spoglia la scrivania se non per un telefono derelitto. Venni accolto da un ometto sui cinquant'anni mezzo pelato e da un giovanotto scipito, entrambi indossanti abiti dozzinali. Quella un'agenzia? Comunque mi presentai ed esposi le lamentale del comandante per la loro mancata presenza a bordo al nostro arrivo. Ma c'è tempo, mi rispose l'ometto senza alzarsi dalla scrivania, c'è tempo. E, per il momento attendeva una telefonata importante. Gli chiesi se potevo usare il telefono per una chiamata. "Con chi dovevo parlare?" mi chiese sospettoso. "Con la Jugolinea.", si agitò sulla seggiola e proseguì con tono alterato "E con chi volete parlare". "Con Rade Martincich!". "E perché vuole parlare proprio con Rade Martincich, quella è un'autorità!." Siamo cresciuti insieme, gli risposi secco. Diventò pallido in volto, fu un attimo, temetti si sentisse male, guardai il giovanotto ma anche lui aveva lo stesso pallore sul volto. "Senta, mi deve scusare, esclamò, non potevo sapere." e si alzò per la prima volta dalla seggiola facendo scivolare il telefono nella mia direzione mentre il suo aiutante mi porgeva una sedia e mi pregava di mettermi comodo. Ottenni sulla linea,in pochi secondi, il mio vecchio Rade,lascia scorrere stavolta le lacrime, per venti'anni eravamo stati pressoché indivisibili, parlammo a lungo, le nostre famiglie erano state amiche e, anche dopo il nostro esodo, per uno o due anni, avevamo inviato loro a Valsantamarina, pacchi dono con articoli di cui avevano necessità e che, nella scarsità di quei tempi, in Yugoslavia non si potevano ottenere. Ci lasciammo al telefono con l'intesa di un appuntamento al pomeriggio. I nostri, chiamiamoli così agenti, mi riaccolsero con mille gentilezze, pagarono di tasca loro il tassista che era rimasto ad attendermi e mi fecero salire con loro su una vecchia Aprilia con la quale raggiungere la nave..

Vissi tutta quella strana pantomina senza porci caso. Ero, lo ripeto, in stato euforico, forse un pò frastornato. Ero a Fiume. L'agente venne, ricevette le nostre richieste, s'aveva bisogno dio un provveditore e di un officina navale. Non vidi arrivare il provveditore ma, ad un certo punto, nella mia cabina rientrarono il comandante, il cambusiere ed il provveditore, un altro giovanotto male in arnese. C'era un problema, mi spiegarono, il provveditore affermava che non poteva fornirci nulla perché nulla delle nostre richieste avevano nei magazzini. Io saltai letteralmente su. Come, ebbi a chiedergli, quì a Fiume non avete il pesce, mi vuole raccontare che la pescheria è vuota? Non avete carne, non avete spaghetti, non avete riso, non avete nemmeno stracci per le pulizie, non avete niente. E le vostre navi, quelle della Jugolinea, come fanno. Mi rispose, a muso duro che non avevano proprio niente. E se ne andò. Ci guardammo in faccia io, comandante e cambusiere. "E adesso?" "Adesso torno a telefonare!. In agenzia mi ero fatto dare il numero di Rade e così mi misi di nuovo in contatto con lui e lo informai di quanto ci stava succedendo. Rade mi chiese soltanto il nome del provveditore e mi disse che adesso ci pensava lui. Io stavo risalendo a bordo e mi trovavo sullo scalandrone quando una macchina si fermò con grande stridio di freni e ne usci il provveditore urlando: Lei non doveva farmi questo, non doveva farmi questo. E adesso, cosa succederà adesso, e inseguendomi per lo scalandrone, e la mia famiglia, cosa ne sarà della mia famiglia. Singhiozzava, e come compariva gente di bordo udendo le urla, continuava: "Vi darò tutto quello di cui avete bisogno, tutto, oh Dio!, oh Dio!. Una scena, non ne comprendevo, la causa, non potevo comprenderlo. La cosa essenziale, mi dissi, che il materiale necessario arrivasse in un modo o nell'altro. E se lo disse il nostro cambusiere, il viaggio in mare era stato lungo, Eravamo partiti dalla punta del triangolo dell'India, percorso l'Oceano Indiano, il Mar Rosso e poi l'Egeo e su lungo l'Adriatico, s'era effettivamente svuotata la cambusa. Rimaneva l'officina per le riparazioni, l'agente aveva assicurato al comandante che l'avrebbe contattata. Ne chiesi il numero di telefono all'ancora tremante provveditore ma mi fu risposto, dall'officina, che per il momento non avevano operai liberi. Rifeci il numero di Rade che questa volta si incazzò di brutto, ma come, hanno gli operai in giro per lo stabilimento che non hanno nulla da fare e vanno pagati lo stesso, Tonci, mi disse, ci penso io, non so cosa succede a quelli. Quelli erano i fiumani rimasti che avevano deciso di boicottare la nave con la bandiera italiana. Difatti poco dopo arrivò sottobordo un motoscafo dal Porto Baros, con un capo officina che scese con me nel locale macchina per vedere i lavori da eseguire e mi assicurò che, già al pomeriggio avrei avuto gli operai a bordo, gli dissi del movimento da una banchina all'altra tra poche ore per cui rimandammo all'indomani l'inizio dei lavori.

Allora non ci pensai perché il fatto di essere a casa mi manteneva in uno stato di "trance" ma oggi che sono trascorsi tanti anni, mi chiedo chi era in effetti Rade Martincich il mio compagnone in tante macherelle di gioventù. Avevo udito che lui era divenuto uno dei caporioni collegati all'OZNA, la polizia segreta di Tito, ma erano stati cenni quasi sussurrati dal mio interlocutore, persino compagni miei di scuola rimasti in Croazia, perfino Mario Anicich di Abbazia,, accanto a me sullo stesso bancone di scuola nei miei tre anni al Nautico di Fiume, quando ebbi ad incontrarlo una volta in qualche porto del mondo, fu reticente nel dirmi di Rade. Concludendo, fummo ancora insieme in quei giorni di sosta a Fiume, fui a casa sua, rividi sua moglie, già staffetta dei partigiani quando 'era ancora solo la sua "mula", conobbi i suoi figli. Un mattino venne a visitarmi a bordo dell'"ORFEO" insieme a loro, si trattennero a lungo, infilandosi persino nel tunnel dell'asse dell'elica. Risalendo e di fronte ai figli, mi disse "Bravo Tonci, Tenessero così le nostre navi i comandanti e i direttori delle nostre navi.".