L'improvvisata

di

Neumann Antonio




Da “De BELLO GALLICO”.
“Gallia est omnis divisa in partes tres ………” e poi? Sotto lo sguardo dell’arcigna professoressa Cattalinich continuavo a pensarci su ma non riuscivo a ricordarmi il seguito, accidenti!
Eravamo in un aula dell’Istituto Tecnico Commerciale “Leonardo da Vinci” a Fiume nel giugno del 1939, il “De Bello Gallico” era proprio uno dei dieci brani nella prova orale di latino che avevo tralasciato di studiare (ce ne erano ovviamente degli altri). Guardarmi in giro non risolveva il problema, dalle finestre aperte alla soleggiata giornata estiva giungevano ondate di calore che non giovavano alla mia già cospicua sudorazione. Attendevo con malcelata ansia che mi proponesse un altro brano, magari uno di quelli da me svogliatamente preparati, ma quella continuava a fissarmi in attesa di una qualsiasi risposta. Poi la sua attenzione fu distratta ed i suoi occhi si volsero verso la finestra dalla quale avevano iniziato a filtrare suoni inusuali, era un suono di tante sirene di navi e cui subito seguirono i rintocchi di campane di più chiese e quindi si unirono al frastuono anche le sirene degli stabilimenti, quelle che di solito, al mattino richiamavano gli operai alle numerose fabbriche della città.

Sembrava di essere alle ore 10 del sabato della Resurrezione, il giorno prima di Pasqua, quando, con il vecchio rito ambrosiano, si “scioglievano le campane”, ci si lavava la faccia e poi mia mamma ci distribuiva le “trecce” con l’uovo pitturato di rosso avvolto all’estremità mentre per tutta la città si diffondeva la cacofonia di sirene e campane festose. Una celebrazione, quella della “Resurrezione” profondamente sentita nel passato. Poi relegata anche quella in esso.

La porta di accesso all’aula si spalancò di colpo e comparve Natalino, lo storico bidello della “Leonardo da Vinci” gridando: - E’ arrivato il Duce, è arrivato il Duce a Fiume. Tutti devono recarsi in Piazza Dante. Il Duce parlerà dal balcone della Casa del Fascio !! -. La professoressa Cattalinich ed io uscimmo nel corridoio, io svelto con un respiro di sollievo, lei calma, calma. Insieme ad uno sciame di studenti delle Commerciali e dei scolari della Scuola Cambieri ci affrettammo giù per via Carducci e poi lungo il Corso già confusi tra la folla di gente che giungeva da tutte le parti mentre proseguiva il frastuono di sirene e di campane. – E’ giunto con un gigantesco idrovolante con quattro grandi motori sulle ali. – si udiva dire intorno a noi. - Era già difficile penetrare nella Piazza Dante per la gente che andava radunandosi e che giungeva da tutti i lati tanto che i tram procedevano a rilento tra la folla e la via XXX Ottobre che scendeva dal Palazzo del Governo sembrava un formicaio tanti erano gli abitanti che,provenienti dai rioni del Belvedere, da via Buonarotti si affrettavano verso la piazza.. Accanto ad una delle tre antenne di bandiera sulla piazza trovai mia madre che, al mattino, avevo lasciato a letto indisposta e che ora si appoggiava alla nostra servetta Anna Cnapich di Fianona, prese entrambe nell’eccitazione generale.

Io, quattordicenne, ero preso più dall’idea dell’idrovolante che non da Mussolini per cui, ad un certo momento, proprio mentre quello compariva sul balcone in tenuta di volo, accolto da un urlio e applausi forsennati di –Duce - -Duce -, mi aprii un difficile varco verso .la riva. Dall’estremità del molo S. Marco scorsi, tra lo stabilimento bagni sul Molo Lungo (Diga Cagni) e la prima banchina del grande porto commerciale, quella di solito adibita ad ormeggi per il naviglio militare, l’estremità di una grande ala dell’aereo per cui mi affrettati verso la Sabiza, infilandomi quindi nel largo portone doganale e raggiungendo quasi di corsa l’estremità della banchina. E lo vidi davanti a me, bello enorme, con sulla fiancata esposta una grande scritta: “DO X 2”, il DO stava evidentemente per “Dornier”, lo stabilimento tedesco specializzato nella costruzione di idrovolanti. Su ogni ala erano montati due motori sorretti da robuste incastellature metalliche. Il grosso scafo con i larghi oblò era mantenuto in posizione da due lunghi motoscafi bianchi, quelli del Silurificio che seguivano normalmente i siluri lanciati in prova dalla piattaforma per ricuperarli poi al largo.

Da lontano arrivava il brusio delle acclamazioni in piazza Dante. Ad un certo punto, sarà trascorsa forse uin’ora, dal molo San Marco si staccò un lucido motoscafo in mogano, presumibilmente un “Riva”, forse quello di Riboli noto imprenditore in vini di Fiume, che puntò direttamente verso l’idroplano accostandosi ad un portellone sotto all’ala sinistra. Vidi distintamente il Duce che entrava nell’aereo e un attimo dopo appariva dietro ai vetri del tettuccio della cabina di guida sventolando la mano alla piccola folla che nel frattempo si era raccolta alle mie spalle e che scandiva ancora quel –Duce- -Duce -. I motoscafi del Siluruficio si disposero uno di prua e l’ altro di poppa dell’ idroplano assumendone il traino e facendolo ruotare ponendo la prua verso l’uscita del porto. Rimasero per qualche momento in questa posizione fino a quando, uno alla volta iniziarono a ruggire i motori e vorticare le eliche. A questo punto i due motoscafi bianchi al traino si staccarono e l’idroplano del Duce avanzò a lento moto tra la diga foranea e le estremità delle banchine fino a uscire dai penelli aperti al Quarnaro. Qui il rumore dei motori aumentò di tono fino a diventare possente e fino a quando, al di là della diga foranea, lo vedemmo ricomparire in aria mentre prendeva sempre più quota, fino a quando il rombo dei suoi motori si spense gradualmente nell’orizzonte.

Così ebbe fine la visita improvvisata del Duce a Fiume, l’estrema vedetta d’Italia verso l’est.

Vi sono alcune considerazioni da fare su questa improvvisa visita del Duce nella nostra città. La prima è che a circa due mesi da quel giorno la Germania attaccò la Polonia dando inizio alla seconda guerra mondiale, i miei coetanei ricorderanno la foto che apparve sui giornali d’epoca dei soldati tedeschi che abbattevano le barre di confine tra i due paesi a Lodz.

La seconda è quella che, a quattro anni da quel giorno di giugno del 1939, iniziarono le defezioni dei fiumani dalla loro città. Furono dapprima quelli acquisiti e quindi, a ruota, i nativi; defezioni che tra fiumani, polesani, zaratini, istriani e dalmati si prolungarono fino ad oltre il 1950. Fu esattamente il 28 luglio del 1943 che accompagnai, da Valsantamarina alla stazione ferroviari di Fiume, la famiglia di villeggianti comaschi della mia prima fidanzata.

C’è da chiedersi quindi il perché di quello spontaneo, irresistibile impulso che spinse migliaia di fiumani ad accorrere in piazza Dante per accogliere con entusiasmo un uomo che da lì a poco avrebbe trascinato anche loro in una alleanza, in una guerra non richiesta, non invocata, li avrebbe trascinata in una avventura densa di avvenimenti distruttivi delle loro case, delle loro abitudini, degli stessi legami famigliari e nativi, li avrebbe costretti a campare miseramente in campi di raccolta profughi per anni o ad imprendere lunghi viaggi verso paesi e civiltà sconosciute, senza accennare alle innumerevoli morti , anche inumane, di loro cari. Eppure essi fiumani, noi fiumani accorremmo in massa a quell’ improvvisa adunata.

Sembrò, quella improvvisa visita, come una beffa, sembrò? Lo fu, una tragica, assurda amara beffa nei riguardi di quelle migliaia di persone che accorsero a manifestare la loro appartenenza all’Italia, all’italianità. Il loro essere italiani anche se uniti all’Italia solo attraverso un mare, l’Adriatico come accadde per la martoriata Zara, solo da una striscia di terra come accadde per Fiume, o da una penisola come accade per Pola e l’Istria tutta.

Io, alla quinta media inferiore dell’Istituto Tecnico Commerciale “Leonardo da Vinci” fui bocciato ovviamente agli esami. Ricuperai l’anno perso tre anni dopo al “Nautico”. Mio padre perse tutti i suoi beni e il suo lavoro e con mia madre venne più tardi sepolto nel cimitero di Savignone, un paesino nell’entroterra genovese. Mio fratello visse negli U.S.A. e morì qualche anno fa a Santa Fè, nel New Mexico. Mia sorella vive a Riverside, oggi un sobborgo di Los Angeles in California. Tutti i parenti di mio padre scomparvero nel campo di concentramento di Auschwitz.