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di

Norma Doljak




31 maggio
1 giugno 2003
a Pirano
Casa Tartini

Ciao, sono Norma e lego i miei primi ricordi agli angoli e alle rive della mia bella e "unica" Pirano, ma in particolare alla "aponta" e al suo regno: la Pusterla.
Io amo Pirano, non ho mai smesso di adorare la mia città, anche se negli ultimi anni ha subito alcuni cambiamenti. Prima di tutto non c'è più la mia gente, c'è troppo traffico, c'è inquinamento e un numero eccessivo di presenze.
C'è una contrada nella quale sono vissuta e che mi sta particolarmente a cuore, la Pusterla. Sebbene sia ormai invasa dalle automobili e affollata dai turisti, questo scorcio antico mi riporta a ricordi incancellabili della mia prima infanzia.
Ricordo con sincero affetto e tenera malinconia tutti i suoi abitanti, gente speciale, ingegnosa e pittoresca. Tanti veri e bravi attori sul palcoscenico della vita quotidiana! Ci conoscevamo tutti con le nostre miserie e con i nostri pregi.
Io abitavo in Androna Andrea Dandolo, un famoso doge veneziano, al primo piano di fronte alla casa dove abitava siora Giovanna "rovignesa" con la figlia Rina Segalla e due maschi, nella stessa casa c'erano anche le famiglie dei Scrici e di sior Toni Cesotto, tutti pescatori, brava gente laboriosa e silenziosa. In casa mia, al secondo piano, c'era la famiglia del gua, sior Toni gua, alla sera, dopo una giornata di lavoro nella bottega in via santo Stefano, di fronte alla bottega di falegname di Contestabile, quello delle casse "de morto", su una piastra di metallo tagliava finemente le foglie di tabacco per fare "i spagnoleti" con le carte veline che si compravano in Portadomo in appalto di Edvige e siora Gina "pelosa".
Sior Toni gua aveva il mignolo della mano rigido e dritto. Noi "fioi" ogni volta gli chiedevamo: " Ma sior Toni, perchè el ga el dito duro?" Lui rispondeva sempre: "Perchè quando che iero picio come voi, ghe lo go messo nel cul alla galina!" Era sempre la stessa domanda e la stessa risposta!
E intanto crescevamo, i vestiti sempre passati "dalle sorelle maggiori" diventavano più corti e le dita delle "papusse" venivano sempre fuori a guardare il cielo e a prendere aria.
Al terzo piano abitava la famiglia di Gigi Bertoc. Dopo una faticosa giornata in giro a raccogliere assi e strazzi, portava a casa alla sera grandi fagotti di "smartella" che poi col vapore alla mattina presto portava a vendere a Trieste.
Quando alla sera tornava stanco e sempre ubriaco, c'era il finimondo. Per le scale camminava, cioè si arrampicava anche con le mani e gridava: "Mi go per ogni scalin una carta de mille".
Noi naturalmente tutti zitti. Arrivato su a casa sua, gridava come un matto e tutto volava dalla finestra, pentola con la cena compresa, accompagnata da tante bestemmie colorite. In questo era molto colorito e fantasioso, non si faceva mancar niente e lo spettacolo era assicurato.
Ricordo che quando riuscivo a racimolare qualche centesimo, guadagnato con tanti piccoli servizi alle mie vicine, andavo a spenderlo - da sola - in panetteria de siora Maria Benedetti in Portadomo. Il suo negozio era per me il dolce regno di tante bontà: caramelle al miele e al rosolio, tutte le forme e le grandezze dei cioccolatini, frutta candita, rotoli e bastoncini colorati, vasi grandi di vetro trasparenti pieni di ogni ben di Dio, biscotti, bussolai lucidi profumati con lo zucchero sopra. Il pane semplice, ma fatto in tanti modi sempre fresco, croccante e profumato. Quante bontà per il nostro giovane stomaco sempre affamato e voglioso di macinare qualsiasi cosa.
Per san Nicolò c'era in vetrina un "suo" mezzobusto, che un magico meccanismo muoveva la testa e faceva sempre "sì".
Noi ore ed ore con il naso sulla vetrina co esposto ogni ben di Dio, chiedevamo mi porterai questo mi porterai quello. San Nicolò diceva sempre sì naturalmente.
Se davanti alla vetrina c'erano più fioi, c'erano delle legnate, degli spintoni, dei pianti, fin quando finalmente c'era il tuo turno, potevi chiedere quello che volevi, quello che aspettavi, quello che sognavi. San Nicolò sapeva che eri sincero e tu sentivi che ti avrebbe accontentata.
Anche le carte delle caramelle e dei cioccolatini ci facevano felici, ce le scambiavamo e inventavamo tanti giochi.
Ricordo che in contrada, nella terra tra le fessure delle pietre, scavavamo e ci mettevamo dentro le carte colorate, qualche petalo dei gerani della mamma, dei petali di garofano, delle foglie di basilico e coprivamo tutto con pezzi di vetro trasparente. Poi coprivamo tutto con la terra.
Queste erano le nostre "magie", i nostri tesori.
Poi quando la mamma ci chiamava a casa, qualcuno "vigliacco" invidioso distruggeva le nostre opere segrete.
Per questo litigavamo sempre e si formavano nuove amicizie " eterne" e se ne distruggevano altre, anche tra fratelli e sorelle si diventava "nemici" e si godeva se qualcuno prendeva qualche sgridata e qualche sculaccione al posto nostro.
Tutte le amicizie "per sempre" e tutte le dichiarazioni di vendetta e ostilità si scioglievano come neve al neve al sole nello spazio di poche ore.

Viaggiare a ritroso nel tempo, per più di mezzo secolo o giù di lì, è far rivivere quei tempi ormai lontani, non è una cosa facile.
Sono sempre i volti, gli oggetti, gli odori, i suoni a portarmi nel passato.
Quando scrivo e quando parlo vedo tutto per immagini, la mia storia sta nel tempo e il tempo richiede narrazione.
I ricordi mi vengono su impetuosi, come gli gnocchi nella pentola di acqua bollente alla domenica fatti dalle mani della mamma per il pranzo, mentre noi col pastone che la mamma ci dava facevamo i "chifeletti" che al pomeriggio, coperti di zucchero, portavamo in Asilo e con gli altri bambini dividevamo tra un gioco, una recita e tanti girotondi: di stelle in mezzo, di re che avevano perduto la figlia, madama Dorè, lupi nel bosco e chi aveva perso una cavallina e chi la ritrovava...

Grazie, ho fatto solo uno dei miei tanti "comming out", grazie ancora!
Norma