Bruno Tardivelli racconta…



Caro Furio, caro Sergio e tutta la compagnia
da dove devo incominciare se non dall'inizio se vi annoio, siate sinceri, vi prego, e la smetto.
se avete in mente qualche suggerimento, non negatemelo, mi farete un favore
un saluto a tutti
Bruno fiuman - Mulo del 1923


***

10 Giugno 1940

Mi facevano male i piedi.
Il giorno prima avevo fatto una gita memorabile con gli amici e miei compagni di scuola del Circolo di Azione Cattolica dei Cappuccini, eravamo in venti e in mezzo a noi c'era pure Padre Gabriele, che non aveva ancora trent'anni.
Io non avevo ancora compiuto 17 anni.
Festeggiavamo la fine anticipata della scuola.

Eravamo stati sulla Vetta del Monte Maggiore.
Partimmo da Mattuglie la sera dell' 8 giugno, era un sabato, giungemmo al Rifugio del Peruz dopo la mezzanotte, dormimmo un paio d'ore nel fienile e prima delle cinque vedemmo spuntare l'alba che sorgeva stupenda da dietro la Catena del Velebit, frustati da una bora impetuosa, mentre salivamo faticosamente verso la vetta.
A tratti dovevamo inginocchiarci per non essere travolti dai refoli.

Fu uno spettacolo straordinario che non ho visto più.
Io non avevo gli scarponi adatti per la gita, come desideravo e indossavo i polacchini di mio padre che portava il numero 41, mentre io stavo bene col 42!
Mio padre portava sempre i polacchini, li riceveva dalla Milizia, alla quale doveva essere iscritto, come tutti i ferrovieri, a metà prezzo. Non vidi mai mio padre portare altre scarpe, costavano troppo per lui. Non so cosa feci la mattina dopo, ricordo solo che mi sentivo stanco.

All'ora di pranzo per il Viale Camicie Nere, sottostante casa, passò lentamente una delle rare automobili in circolazione e dall'altoparlante sistemato sul tetto una voce gracchiante convocava tutta la cittadinanza in Piazza Dante: ci sarebbe stata un'adunata perché il Duce avrebbe parlato a tutto il popolo italiano dal balcone di Palazzo Venezia, sua residenza ufficiale a Roma.
Mio padre, mamma Catina, la Zia Francesca si guardarono in silenzio, avevano già vissuto momenti simili e ne sapevano qualcosa.

Era il 10 Giugno del 1940.

Verso le cinque della sera mi trovavo in Piazza Dante, forse assieme a degli amici. La piazza era piena di gente, molti indossavano la divisa del Fascio o la Camicia Nera.
Vicino al Bar Roma, che certamente con altro nome sta sull'angolo, c'è ancora un portone sovrastato da un poggiolo sorretto da due colonne, io ero proprio li sotto, mi ci vedo ancora.
Il poggiolo era gremito di giovani e ragazze che si godevano allegri la vista della piazza rumorosa e tanto affollata, ammiccavano, salutavano. La Casa del Fascio, un edificio caratteristico con una galleria che conduce nella piazza del vecchio Municipio ed oggi deve essere adibita a centro culturale era poco distante.
Sul suo balcone largo e sorretto da diverse colonne avevano preso posto il Federale Servidori e i maggiori gerarchi della città, tutti in alta uniforme; una banda suonava inni patriottici.
Ad un cenno proveniente dal balcone la banda s' interruppe e una voce proveniente dagli altoparlanti diede un comando:

"Italiani, salutate nel Duce il Fondatore dell'Impero!"
Era il classico ordine del Segretario del Partito che precedeva l'apparizione di Mussolini, al che dagli altoparlanti e dalla folla di tutte le piazze d'Italia partì un solo grido: "A NOI ! "
seguito da una invocazione:
"Duce,Duce,Duce!"
che si prolungava sempre fino alla sua apparizione.

Si fece allora un silenzio impressionante, nessuno fiatava, tutti attendevano la sua parola. Disse con la sua voce stentorea da capopolo pressappoco così:

" Italiani e italiane in Patria e nell'Impero, sparsi nel mondo, al di là dei monti e al di là dei mari, Soldati di terra, di mare e dell'aria, ascoltate!
Un'ora solenne batte nel destino della nostra Storia.
La dichiarazione di guerra è stata già consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra e l'Italia scende in campo a fianco dell'alleata Germania! "

Un boato di applausi: grida di approvazione e di esultanza uscirono dalla folla ammassata in tutte le piazze italiane per questo annuncio tutt'altro che lieto che già allora mi rendeva perplesso e quasi timoroso; ma poi finii per unirmi al giubilo della massa anche se con una certa reticenza interiore che non mi sapevo spiegare .
Avevo quasi paura, mi vennero in mente i racconti angosciosi del mio papà che aveva combattuto nella guerra del 1915 - 18.

Il discorso del Duce proseguiva con parole d'effetto, ispirate, bellicose, auliche rimbombanti, proprie di un dittatore. Esse suscitavano clamori, entusiasmi, applausi scroscianti e agitar di bandiere.

Concluse con l'affermazione:

" La parola d'ordine è una sola: VINCERE E VINCEREMO!"

Questo motto finale ci bombardò, assieme agli aerei Inglesi e poi Americani per più di un paio d'anni, poi dovette passare di moda, smentito dai fatti.
I fascisti convinti o presunti tali si salutarono così fino a quando le cose non cominciarono andare male.

Alla caduta di Mussolini, il 25 Luglio 1943 tale illusione era tramontata da tempo e per i fiumani, gli istriani, i dalmati di origine e cultura italiana ebbe il sopravvento un tragico e atroce dilemma:" se stare nella padella o saltare nella brace".

Al termine del discorso, dopo gli immancabili inneggiamenti rituali, poco a poco la folla di Piazza Dante sciamò. Rimasi solo e tutt'altro che entusiasta. In fondo fare la guerra non voleva dire ammazzarsi a vicenda? Così mi aveva raccontato papà, perciò non c'era per me motivo di dubbio. Sarebbe stata un vantaggio per coloro che rimanevano. incolumi e vincitori. E gli altri ?

Ma che ci potevamo fare noi tutti di fronte a queste "decisioni irrevocabili"come aveva detto il Duce dal balcone?

Me ne tornai a casa da solo, un po' svogliato per il marciapiede più solitario del Viale, quello che è al margine della ferrovia, mentre dall'altra parte gruppi chiassosi passavano sbandierando e cantando inni.
Scendeva la sera, c'era già da tempo l'oscuramento e in Braida, sull'angolo del bar un crocchio vociava nella penombra.
Sentii lo strillo di una ragazza, forse era la cameriera e una gran risata di voci maschili: qualcuno, reso ardito dal buio, l'aveva palpeggiata.


***

Tra il 25 Luglio e l'8 SETTEMBRE 1943 a Fiume

Noi, giovani della provincia, allora ventenni o quasi, allevati nel clima euforico e ampolloso del Regime Fascista, cresciuti nell'ambiente permeato del conformismo imposto con le minacce ai nostri superiori e educatori, vivemmo, con lo sfacelo del Fascismo, il dramma del totale disorientamento.
La pena per il dissenso era il confino in qualche remoto borgo del Meridione. L'esenzione dal servizio era il deterrente che rendeva consenzienti tutti i dipendenti pubblici e privati, dirigenti e sottoposti. Così la gioventù venne plagiata, giocoforza, nelle stesse famiglie,nelle scuole, per amor della vitale pagnotta. Era il tempo del Bastone e della Carota.

A quel conformismo credette anche mio padre, reduce dal Carso e i tantissimi che negli anni '20 e più ancora negli anni '30 facevano nereggiare le piazze e le vie d'Italia, inneggiando tra canti e fanfare all'Uomo della Provvidenza.
A modo suo in quella tragica Estate del '43 cercò invano di salvare il salvabile, ma era un miraggio. Troppi errori avevano accumulato lui e il Re Sciaboletta che aveva avallato ogni sua azione, rendendosene complice.
Noi ragazzi cresciuti nell' Era Fascista ci sentimmo traditi da chi ci aveva educato. Un sentimento di ribellione e di rivalsa, quasi di simpatia per quest'Uomo, pervadeva tanti, anche se le sue azioni non erano condivise, anzi talvolta oggetto d'incredulità e di dileggio.

Perché i "Grandi" ci avevano dunque ingannato in tale modo e insegnato ad applaudire sempre ai discorsi del Duce? Come si poteva diventare da un momento all'altro dei voltagabbana a questo modo e ora che le cose andavano di male in peggio affossarlo dopo averlo tanto applaudito ?
Molti che fino ad allora avevano subìto e forse compiaciuti avevano ascoltato le barzellette contro il Regime, nel vedere i maggiori esponenti non fiumani del fascismo cittadino, sempre sul balcone della Casa del Fascio nelle adunate in Piazza Dante, in divisa di gala con medaglie sul petto e pugnale al fianco, tagliare la corda con famiglia e masserizie al seguito, ebbero una reazione imprevista: provarono simpatia per il Duce tradito dal Re, dai maggiori gerarchi e dai Generali e concludevano che era disonesto addossare ad uno solo tutte le colpe.

Uno o due giorni dopo il 25 Luglio, quando Mussolini fu "licenziato" dal Re Vittorio, fino allora suo socio, stavo andando con Aldo Berdar al Corso, nel tardo pomeriggio, a fare i soliti giri.
Commentando i fatti accaduti pochi giorni prima esprimevamo tutto il nostro disgusto per il comportamento di tanta gente molto più anziana di noi, che inveiva contro il Duce, quando era stato già atterrato, con gran giubilo e sgolandosi per cantare l'Internazionale, mentre si era iscritta al Partito Nazionale Fascista, il PNF, ostentandone il distintivo cioè la "Cimice" o in dialetto la "Butoriza", fino a pochi giorni prima.
Almeno avessero avuto il pudore di starsene zitti, perché erano ore gravi e chissà cosa sarebbe accaduto a Fiume. Era giusto che se ne fosse andato, perché aveva sbagliato, ma tutti lo avevamo sostenuto e in parte bisognava sentire, a nostro parere, un po' di responsabilità e di pentimento per ciò che era accaduto.

Aldo Berdar mi diceva:
"Mi te digo che sti qua non i la ga butada via, i la tien in scarsela, caso mai che el tornasi de novo."
Mi piaceva quell' Amico cinque o sei anni più anziano di me, era impulsivo ma leale e sincero, pronto a chiedere scusa se s'accorgeva di avere sbagliato.
Soggiunse:
"Anzi, ti sa cosa facio? Me sto distintivo lo meto su, anche se prima non me xe stà mai tropo simpatico e lo go portà el meno posibile"
Detto e fatto! Tirò fuori dalla tasca il Distintivo del PNF e se lo mise all'occhiello della giacca. Io per solidarietà feci altrettanto e mi misi quello della GIL.

Da più di un anno, da quando le cose erano incominciate ad andare male, parecchia gente portava il Distintivo in tasca e se lo metteva solo quando doveva presentarsi in certi ambienti dove si doveva salutare "romanamente".
Avevamo fatto una trentina di passi. Eravamo davanti alla cartoleria del Kirkhofer, dopo la chiesa dei Cappuccini, quando ci sbarrarono la strada due omaccioni sbracati con una maglietta a righe usata dagli scaricatori del porto.

Ad alta voce, perché i numerosi passanti di quell'ora sentissero, ci apostrofarono prepotenti con un gesto significativo della mano:
"Voi due, muli, caveve quela roba de doso"
Aldo, con presenza di spirito, memore degli insegnamenti della Signora Berta, sua madre, che:
"due soldi de mona in scarsela bisogna sempre tegnir" cioè che fare il finto tonto talvolta è indispensabile, rispose mostrando grande stupore:
"Perché? Cossa go adoso?"
E uno di quei due, col vocione grosso, indicando il distintivo, aggiunse:
"Cavite quela roba che xe mejo per ti!
E anca per ti!"
Disse più minaccioso che serio, rivolgendosi pure a me.
Aldo, diventando rosso in viso, con fare imbarazzato cercò di scusarsi toccandosi il distintivo:
"Ma la scusi, se i lo porta tuti!"

Quei due, davanti a tanta ignorante dabbenaggine restarono come interdetti, farfugliarono qualcosa e mentre noi fingevamo di armeggiare per toglierci il distintivo, furono distolti da un altro tizio che ignaro avanzava col suo bravo emblema della GIL, (Gioventù Italiana del Littorio)appuntato sul bavero della giacca.
Noi sgattaiolammo via col fuoco alle calcagna e non ci togliemmo il famigerato distintivo. Andammo al Corso dov' era sovrano il dilemma tra chi s'era messo la cimice ma avrebbe voluto togliersela e non lo faceva per la vergogna di mostrarsi pauroso e chi se l'era già tolta e meditava, rigirandosela in tasca tra le dita, di rimettersela al bavero ma aveva vergogna di quelli che l'avevano già visto senza..

C'erano pure altri discorsi in giro: chi ipotizzava e sperava che tutto sarebbe presto finito perché ormai il Fascismo era caduto e la guerra per noi era terminata. Prima o poi sarebbero arrivati gli Americani con le Luke Strike cheewingum, ma chi vedeva un po' più lontano del proprio naso era pessimista e paventava che i "gnochi" non sarebbero rimasti solo a guardarci.

Io temevo che difficilmente sarebbe andato tutto liscio, "oltre"il Ponte (di Susak) c'era esultanza e il Bosco era vicino!
Dall'Istria giungevano notizie poco rassicuranti di malintenzionati che attuavano vendette per torti subiti negli anni passati. Tutto ciò ci sembrava irreale perché in Istria ci era sembrato sempre tutto pacifico e normale e la situazione sociale sotto l'Italia era molto migliorata.
Vivevamo in un periodo strano, di grande incertezza, poteva accadere di tutto e il contrario di tutto, da un'ora all'altra.
C'era in tanti una gran voglia di scappare, ma non sapevano dove dirigere i loro passi. Noi certamente meno degli altri.

Nei territori della Yugoslavia il peggio era già iniziato. Le truppe italiane sulla difensiva, si concentravano in vari luoghi preparandosi allo sgombero.
In giro si vociferava che certi personaggi importanti e burbanzosi, che avevano organizzato rappresaglie e spedizioni punitive nei territori oltre confine, erano spariti dalla circolazione con le loro famiglie. Qualcuno ammiccava col sorriso amaro:
"I "grossi cani" si erano messi al sicuro, lasciando soli i cagnolini ."

Bruno Tardivelli


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La Voce di Fiume 30 settembre 2004

Memorie: "Fatti di una volta. come li vissi io" L'Armistizio dell'8 settembre 1943, a Fiume


Passò l'ultimo scorcio dell'estate 1943 ma non so come, avevo 20 anni, da un giorno all'altro mi aspettavo la Cartolina Rosa per andare a fare il militare. Da quel fatale 25 luglio, in cui il Re Vittorio Emanuele III fece lo sgambetto a Mussolini, erano trascorsi 45 giorni e le notizie sulla guerra che continuava, come aveva affermato il Gen. Badoglio, nuovo capo del governo, erano sempre peggiori. Gli Alleati, passato lo Stretto di Messina, dopo una dura battaglia con i carri armati tedeschi nella piana di Catania, già alla metà di luglio risalivano rapidamente l'Italia Meridionale, mentre dalla Germania affluivano le grandi unità della Wermacht e la divisione "SS Adolf Hitler" che si attestavano nel Lazio e in Abruzzo per contrastarne l'avanzata.

Nei territori della Jugoslavia il peggio era iniziato. Le truppe italiane sulla difensiva, si concentravano in vari luoghi preparandosi allo sgombero. Il macello fratricida degli Slavi era già in atto. Le Foibe, inghiottitoi naturali delle acque piovane e delle sorgenti, riesumando antiche usanze crudeli che sembravano sepolte dalla notte dei tempi, furono riscoperte come macabri luoghi in cui far precipitare vivi gli scomodi, gli antipatici, i vicini di casa con i quali si era litigato, i capetti del Sindacato Fascista dei quali si aveva bisogno per un lavoro. Altri davano fastidio perché erano d'ingombro alla completa slavizzazione dell'Istria: gli italiani che avevano indossato la Camicia Nera al Sabato Fascista e sfilato nelle cerimonie ufficiali, allora d'obbligo, che avevano distribuito i pacchi vestiario e viveri ai meno abbienti per la "Befana Fascista", elargito raccomandazioni, esposto la Bandiera Italiana alla Finestra nelle Feste nazionali.

Venne il triste giorno della disfatta: l'8 settembre. Il giorno della vergogna e della morte inutile.

Fu il giorno della tragedia per tutti gli italiani che 40 mesi prima avevano inneggiato all'inizio della guerra sciagurata facendo eco al grido "Vinceremo!" che il Duce aveva urlato dal balcone di Palazzo Venezia e ora che le cose andavano sempre peggio, a ragione, lo rinnegavano e lo maledivano. Fu il giorno dell'ignominia e del disonore per Casa Savoia con tutto il suo codazzo di Generali in fuga che si azzuffavano per mettersi in salvo sul molo di Ortona, abbandonando alla mercé dei tedeschi inferociti i nostri poveri soldati, traditi dal Re codardo e da tutti i maggiori comandanti.

Noi a Fiume vedemmo uno spettacolo che non si può dimenticare: un esercito allo sbando, in fuga nei suoi aspetti più deprimenti, più tragici, con episodi di paura, smarrimento, ma anche di dignitosa fierezza per aver fatto il proprio dovere, anche nella sconfitta, a rischio della vita. Dall'Idroscalo, in quei giorni, partì un aereo in cui si diceva ci fossero i Comandanti dell'Armata che stanzionava in Jugoslavia, i Gen. Robotti e Scuero. Non riuscì a prendere il volo se non dopo un lunghissimo decollo sul mare aperto perché era stracarico, non si sapeva se di bagagli o di persone altolocate in fuga.
Passavano il Ponte Sussak i nostri soldati tra il dileggio degli slavi.
Qualcuno aveva i piedi fasciati in stracci macchiati di sangue. Gli avevano portato via anche le scarpe! C'erano dei feriti che riuscivano a camminare. Gli altri chissà dov'erano, abbandonati a un più triste destino. Moltissimi avevano consegnato le armi in cambio della vita e transitavano come un branco di pecore sbandate per la città che si era mobilitata per accoglierli come poteva.

I fiumani corsero per sfamarli, portavano secchi d'acqua, riuscivano a dare a qualcuno un vestito borghese ma si vedeva a un miglio di distanza che quello era un militare fuggiasco, dalle scarpe chiodate soprattutto e poi dall'aria smarrita e impaurita che aveva. Chi avrebbe potuto in quei tempi di miseria nutrirli, vestirli, accoglierli tutti? I treni in quei giorni non partivano. Rarissimi furono coloro che riuscirono a nascondersi presso qualche famiglia di conoscenti.
Gli altri proseguivano il loro dolente cammino a piedi, verso ponente, verso casa, lentamente, con passi incerti e strascicati, senza sapere dove sostare, incerti se fosse meglio camminare in gruppo per sorreggersi a vicenda o andarsene per conto proprio nella speranza di passare inosservati, ma come, se c'erano soldati fuggiaschi dappertutto?
Corse voce, un paio di giorni dopo, che da Braida fosse partito verso il centro un gruppetto di sconosciuti che inneggiavano alla "Libertà" e che questo si era via via ingrossato fino alle carceri di Via Roma dove i dimostranti chiesero, lanciando sassi, la liberazione dei prigionieri politici.. Erano accorsi i carabinieri, avevano sparato, ci fu qualche ferito, i manifestanti scapparono.
Noi eravamo tristi. Chi erano questi individui che mettevano su una cagnara del genere in momenti così pesanti per la nostra città?

Ogni tanto transitava attraverso il Ponte di Sussak qualche reparto inquadrato. Aveva ceduto ai Partigiani, ormai i ribelli erano chiamati così, metà solo delle armi perché quelli erano troppo deboli per pretenderle tutte. Con gli ufficiali in testa, schierati riprendevano il passo militare cadenzato per le vie della città e la gente li applaudiva gridando: "Bravi, bravi, Viva l'Italia".
Sorridevano tutti, erano arrivati finalmente tra la loro gente! Tra chi li accoglieva col sorriso, nella loro lingua. Erano in Italia, a casa loro!

Giunse a Fiume nel momento più critico il Gen. Gambara, mentre i suoi colleghi scappavano. Prese in mano la situazione, racimolò ciò che rimaneva di ufficiali e truppa e con questi cercò di tamponare momentaneamente lo sfascio totale perché nei dintorni di Fiume, a Zamet, a Pehlijn e oltre il ponte di Sussak si stava preparando l'invasione della città da parte dei partigiani slavi.
Erano armati con quanto avevano tolto alle truppe italiane in fuga. E in città era giunta anche la notizia che i tedeschi si erano accordati col governo collaborazionista croato per la cessione di Fiume e dell'Istria alla Croazia ustascia di Ante Pavelic.

Tutto ciò già allora ci faceva paventare il peggio e qualsiasi iniziativa che potesse testimoniare l'italianità di Fiume era dunque ben accolta, da qualunque parte venisse. In un giorno successivo un monoplano sorvolò la città a bassa quota. Io mi trovavo presso casa, sulla piazza della Stazione. L'aereo non aveva le insegne italiane, gettò dei volantini sopra la Piazza della Stazione Ferroviaria, dov'ero io. Corremmo a raccoglierli e con somma sorpresa scorgemmo che erano scritti in lingua croata e pochi capirono il significato di quelle parole.
Perché avevano lanciato dei volantini scritti in quella lingua?
La cosa ci insospettì e ci sentimmo quasi offesi. Ricordo benissimo che iniziava con queste parole: "Hrvati i Hrvatice izmucene Dalmacije.(Croati e Croate della martoriata Dalmazia.). Io intuii di che si trattava, perché il croato un po' lo conoscevo fin da bambino. Lo avevo imparato quando accompagnavo durante l'estate la Zia o la mamma al mercato e le udivo contrattare il prezzo della verdura con le "mlekarize", le donne che portavano il latte (mleko) nella cesta sulle spalle, o con le altre donne d'oltre confine, nella loro lingua.
Si affermava nel volantino che il giogo italiano era finito e che la Grande Madre Croata, avrebbe abbracciato tutta la Dalmazia, Fiume, il Quarnero e l'Istria per merito di Ante Pavelic´, il "Poglavnik'', il Duce dei Croati e alleato del Grande Reich. Sul momento restammo sbalorditi. Ma se Pavelic´ era stato messo su da Mussolini!

Ora che l'Italia era andata alla malora, si era messo con i tedeschi che gli promettevano mari e monti, pur di averlo dalla loro parte, a spese degli italiani.

Il Generale Gambara, con il Gen. Martorelli imposero con le poche truppe del presidio che conservavano la dignità della Bandiera e dell'Onore un minimo di legalità e organizzarono la difesa della città di Fiume, Abbazia, Mattuglie e Apriano. Bisognava difendere la città dalle bande slave che aspiravano di irrompervi con le conseguenze che è facile immaginare. Invitarono i cittadini ad un comportamento responsabile per il bene comune e non si ebbero in quei giorni tanto agitati episodi criminali né rilevanti disordini per la città.
Ci rifugiammo in casa, affacciati alle finestre del Viale o nell'atrio del portone in attesa degli eventi, portando secchi di acqua all'ingresso per dissetare i poveri soldati smarriti, impauriti, sporchi e disarmati che si raggruppavano davanti a casa nostra. C'era chi dava loro del cibo, poco in verità, perché la carestia si faceva sentire. Una nostra vicina aveva fatto bollire delle patate e, ancora calde, ne distribuiva sulla soglia del nostro portone, una a ciascuno dei soldati che passavano. Se la mangiavano con la buccia e ne fummo stupiti. Erano affamati, per giorni avevano camminato senza cibo.

Tutte le comunicazioni erano interrotte, già si sperava che forse sarebbero sbarcati gli Americani ma io, chissà perché ci ho sempre creduto poco. Si diceva che avrebbero suonato le campane della chiesa di Cosala. Sul suo campanile c'era sempre qualcuno di vedetta per avvistare da quell'altura questi benedetti Alleati, col cioccolato, le Camel e le gomme da masticare, come avevamo visto nei film prima della guerra, con Clark Gable o Robert Taylor.

La situazione confusa a Fiume durò non più di cinque o sei giorni. Dalle alture di Sussak ogni tanto partiva verso Fiume una cannonata. Ma cosa volevano quelli di "oltre"? Ci mancava altro che avessero intenzione di oltrepassare il vecchio confine, il Ponte di Sussak sulla Fiumara. In Fiumara, nei pressi del Ponte, sul vecchio confine, un proiettile ammazzò un paio di muli e ferì qualche persona.
L'ordine e la difesa della città dagli slavi era mantenuto anche dai fascisti locali e da parecchi giovani della GIL agli ordini del Seniore della Milizia Porcu.
Per la maggior parte però, graduati e soldati si vollero allontanare da Fiume con la speranza di tornarsene in qualche modo a casa. Si formarono così gruppi che a piedi si avviavano sulla strada che porta verso Trieste. Erano molto numerosi, disarmati. Uno o due giorni dopo ci si offrì il triste spettacolo di questi stessi soldati, affranti, affamati, disperati, coperti di stracci che come una risacca ritornavano frettolosamente indietro, senza sapere più dove andare.

Stava avanzando da Trieste una colonna celere Tedesca. A noi sembrava il male minore, ci salvava dall'irruzione delle bande slave di partigiani che ambivano ad entrare in città, che per il momento temevano la reazione delle truppe comandate dal Generale Gambara arroccate sulle munite difese del colle di Santa Caterina.
Mi ricordo bene il pomeriggio in cui la colonna tedesca sostò sul Viale, sotto casa nostra, accanto alla Stazione Ferroviaria. Era composta interamente da carri armati Leopard e i militari vestivano la divisa nera delle SS, avevano le mostrine con i teschi sul bavero delle giubbe. Erano giovanissimi, aitanti e spavaldi. Ci guardavano con fare sprezzante e fra loro commentavano, ridendo certamente di noi. Io avevo gli occhi sgranati, non avevo mai visto carri armati così imponenti, al loro confronto quelli italiani sembravano delle carabattole.
La gente tirò un respiro di sollievo, eravamo al sicuro, almeno non avremmo avuto a che fare con quelli di "oltre", assetati di vendetta nei confronti degli italiani. Cosa poteva fare d'altro in quel momento l'autorità italiana locale con la città accerchiata da tutte le parti dagli jugoslavi, se non scegliere il male minore e cedere il potere in mano ai tedeschi?

Gli approvvigionamenti di cibo erano finiti, restava un po' di farina per fornire il pane scuro razionato a 150 grammi a testa per qualche giorno. A Sussak non avevano nemmeno quello. A proposito del pane, un po' era di un color giallino e sembrava che ci fosse dentro polenta, qualche volta era color nocciola oppure era grigio scuro. Chissà con che cosa era fatto! Chi asseriva che la farina fosse di legumi macinatie sarebbe stato passabile, sempre commestibile era!
Il Generale Gambara si allontanò da Fiume dopo aver ceduto i poteri al colonnello comandante la colonna tedesca che ammassò tutti i soldati italiani sbandati nel Campo Sportivo di Cantrida e di lì, dopo una notte all'addiaccio, il giorno dopo li sistemò nella Caserma Diaz. Pochi aderirono alla richiesta di collaborare alla difesa della città e di riprendere le armi, qualcuno scappò, gli altri non vollero più sentir parlare di guerra ma a casa non tornarono.
Non se la passarono bene, furono mandati nei campi di prigionia in Germania..

Bruno Tardivelli Mulo del 1923


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La Voce di Fiume 30 gennaio 2005

Le mie "memorie" da esperienze personali - A Fiume, dopo l'Armistizio del 1943


Dopo l'8 settembre e la fuga del piccolo Re e del suo codazzo di familiari e famiglie, Mussolini fu liberato dai tedeschi e portato in Germania. Il Duce era l'ombra di sé stesso, magro, sciupato, gli zigomi gli foravano la pelle tirata del viso.Solo la caparbietà o la mancanza di scelte più accettabili inducevano i disperati ad aderire con entusiasmo a quel fascismo ormai cadavere. Altri lo fecero per necessità, per fame, per miseria, per non andare in Germania.
Cosa dovevamo sperare noi fiumani?
Fare parte dell'Italia non era più possibile: se vincevano gli Alleati, ed era ormai una certezza, saremmo stati annessi alla Jugoslavia. Se ipoteticamente i Tedeschi fossero riusciti a sovvertire le sorti della guerra con le loro promesse armi segrete, l'Italia ce la potevamo sognare ugualmente. Il nostro destino era segnato e chissà dove ci avrebbero deportati a conflitto finito, per lasciare il Quarnero a loro che tanto ambivano quel mare, quel porto, quelle spiagge. Si viveva senza più una prospettiva a Fiume, campando alla giornata, tra un allarme e l'altro nella totale incertezza.
Chi poteva andarsene, metteva in salvo la famiglia. Troppo eravamo attaccatti a quella città dove eravamo nati, conoscevamo tanta gente. Avevamo i nostri amici e i nostri morti, lassù, nell'ampia dolina del cimitero di Cosala. Noi Fiumani fummo schiacciati così fra l'incudine e il martello, non avevamo scelta,nulle erano le possibilità di gestire i nostri guai da soli per trarci dallo sfacelo in cui ci aveva condannato quella capitolazione. Cos'erano cinquantamila persone, ma anche trecentomila, compresi gl'istriani, di fronte alle più grandi potenze del mondo che avevano già deciso il nostro destino affidandolo alle sottocommissioni dei loro esperti che nulla sapevano dei problemi di quell'esigua parte dell'Italia.
Con ribalderia, estrema leggerezza e incompetenza per la convivenza pacifica e le relazioni con l'etnia slava, era stata condotta tutta la problematica dei nostri confini orientali fino dagli anni '20. I consigli alla moderazione e alla comprensione avanzati dalle personalità locali furono ignorati, le stesse furono emarginate per far posto agli emissari del Regime, inviati da Roma, desiderosi soltanto di trarre vantaggio personale e meriti da successi fittizi che suscitavano il malcontento e l'ostilità crescente nei confronti delle direttive imposte dalla Capitale.
Nella Caserma della Milizia era rimasto il Comandante Col. Porcu con i suoi militi e fu lui a prendere l'iniziativa di coagulare intorno a sé coloro che volevano dimostrare che Fiume era una città abitata da italiani che non intendevano perdere la loro identità e operare di conseguenza. Anche il Col. Porcu, un paio d'anni dopo perderà la vita non lontano da Fiume, mentre la guerra stava per finire.
Sull'altro fronte c'era chi credeva nella pacifica convivenza, in quelle terre di confine. Parecchi fiumani andarono fiduciosi tra i Partigiani per formare il "Battaglione Fiumano'' nei giorni della disfatta ma ben presto dopo il primo entusiasmo ebbero a ricredersi. Ciò accadeva nel tardo autunno del '43 e nel seguente inverno. Si diceva che il MPL di Fiume (Movimento Popolare di Liberazione, fondato dal Partito Comunista Jugoslavo) avesse organizzato una formazione in cui i fiumani potevano arruolarsi mantenendo una loro identità autonoma, rispetto alle unità jugoslave.
Alcuni miei amici andarono "in bosco'', come si diceva allora, attratti da tale prospettiva per sfuggire agli arruolamenti nella Deutsche Polizai, la polizia civile cittadina sottoposta ai tedeschi, o nella Guardia Repubblicana Fascista, o nella Wermaht, convinti che quella fosse la soluzionemigliore perché le sorti della guerra ormai sembravano delinearsi in tutta la loro drammaticità ed era vano per loro sperare che la Venezia Giulia rimanesse all'Italia.
Un'altra scelta per vivacchiare alla giornata era il lavoro obbligatorio nell'O.T., l'Organizzazione Todt. Virgilio, Rino, Rolando scapparono e rimasero alla macchia per alcuni mesi. Io avevo escluso questa soluzione, dopo la morte di mio padre, dovevo pensare a mantenere la mia famiglia. Alla spicciolata, però, com'erano partiti, i miei amici un bel giorno, nella primavera del '44, li vidi ricomparire magrissimi, mal messi, demoralizzati, silenziosi. Erano di poche parole, non avevano voglia di dare spiegazioni e non insistetti. Capii che ritenevano più prudente stare zitti, avevano paura di parlare. Si facevano vedere in giro raramente. Lo spiega molto chiaramente Mario Dassovich nel suo libro "Guerriglia e Guerra sui due versanti del M. Nevoso (1943- 1945)'' riportando le memorie di Antonio Luksich (Jamini) membro del CLN fiumano.
Tito aveva formulato ancora alla fine del 1942 il progetto di formare un governo della Federazione Popolare Jugoslava in cui tutti i popoli che ne facevano parte sarebbero stati rappresentati e ripetutamente fino alla fine del conflitto venne dichiarato tale principio.
Per Fiume, venne previsto, oltre al rispetto di tutti i diritti nazionali degli Italiani, anche un'autonomia municipale da concordare, comunque molto ampia e maggiore di quella che a Fiume era stata concessa all'epoca in cui faceva parte dell'impero Austro-Ungarico.
Questi erano i progetti dichiarati dagli Jugoslavi, però all'atto pratico la situazione era ben diversa. Le formazioni composte da elementi fiumani e italiani furono una mossa propagandistica ad uso degli incerti e per attirare tra le file partigiane il maggior numero di giovani, sottraendoli alla leva dei tedeschi e alle unità della Guardia Repubblicana, per favorire la diserzione in massa. I Battaglioni Partigiani composti da italiani ebbero vita breve e grama, sottoposti a continuo indottrinamento marxista da Commissari Politici Jugoslavi, furono costretti a imparare il Serbo-Croato ed esprimersi solo in quella lingua e se capivano, bene, altrimenti facessero alla svelta a impararlo. Erano sottoposti a rigida disciplina, non era ammesso il dissenso, tutto doveva attuarsi secondo la "Linea'' del Partito Comunista Jugoslavo, senza discutere.
Ben presto i volontari italiani furono sparpagliati nelle unità più disparate dell'Armata Jugoslava, rimasero isolati, ignorati, senza assistenza alcuna. Molti misteriosamente sparirono, persero la vita, liquidati in circostanze ignote. Chi ebbe fibra forte e fortuna scappò in tempo e fece ritorno a casa, rischiando grosso, nascondendosi come animali braccati.
Gli Jugoslavi volevano avere a che fare con elementi italiani del tutto affidabili.
Riferisce Mario Dassovich nel suo pregevole libro, che fu data notizia postuma di un'Assemblea di Delegati del Popolo dell'Istria e di Fiume, tenutasi a Pisino, il 20 settembre 1943, in cui all'unanimità fu deliberata l'annessione alla Croazia di quei territori. Fu emessa una risoluzione nella quale veniva affermato che: "Il Popolo dell'Istria e di Fiume si era liberato del servaggio italiano mediante la lotta con i Popoli Fratelli della Jugoslavia e in base al diritto di autodecisione voleva congiungersi con essi. Alla minoranza italiana abitante nel territorio era garantita l'autonomia linguistica''. A spron battuto lo decisione di quest'Assemblea, di cui a quei tempi nessuno conosceva l'esistenza, fu ratificata dal Consiglio Antifascista Croato lo Zavnoh (Parlamento Croato) e dal Parlamento Federale: AVNOJ. Misteri della "Liberazione Popolare''!
L'argomento Annessione dell'Istria alla Croazia - Jugoslava, era di difficile comprensione per il ceto contadino istriano, che voleva solo liberarsi dai Nazisti, poiché i Fascisti ormai erano fuori gioco. L'elemento croato imbastì la sceneggiato del Congresso di Pisino in cui venne richiesto all'unanimità (ma poi da chi? E a nome di chi?) l'annessione dell'Istria alla "Madre Croata''.
Gli ideali di libertà, giustizia, uguaglianza, rispetto dei diritti delle minoranze, ai quali aspiravamo, dopo l'esperienza fascista, andarono delusi sul nascere tutti delusi.

Bruno Tardivelli

Fotografia:

14 settembre 1943: una colonna corazzata delle SS Waffen entrò a Fiume e si preparò a varcare il vecchio confine. Con l'annessione della Regione al "Grande Reich'' verrà attuata una politica filo-slava in funzione anti-italiana; i Fascisti verranno umiliati, in previsione della loro cacciata. Più italiani se ne andavano, meglio era.
Testo e fotografia visibili nella pagina 12 in http://www.arcipelagoadriatico.it/pdf/stampa_giulianodalmata/Voce_Fiume_2005gen.pdf



***

La protezione antiaerea

Era l'estate del 1940, da poco era scoppiata la guerra; tanto l'avevano banalizzata che a me sembrava quasi un gioco da ragazzi, anche se proprio vogliamo, abbastanza spericolato; avevo 17 anni ! A quelli più "grandi" era arrivata "la cartolina" ed erano partiti, dopo aver fatto per la città "un gran casin"; mi apparivano degli eroi; certe ragazze da loro si lasciavano abbracciare e ci scappava pure qualche bacetto; quasi, quasi mi dispiaceva che non fossi abbastanza "grande" per partire anch'io, tanto il Duce aveva assicurato che tutto sarebbe finito presto, anzi, bisognava fare in fretta perché altrimenti la guerra l'avrebbero vinta solo i tedeschi.
In principio, dopo il famoso discorso del fatidico 10 Giugno, avevo avuto un po' di paura ma attorno a me tutti sembravano così sicuri che "Vinceremo" e mi sembrò di fare brutta figura, così finii allora col crederci anch'io.

Con le tessere annonarie la nostra dieta era piuttosto magra, i miei genitori si lamentavano, non riuscivano a soddisfare il nostro appetito e arrivare alla fine del mese; non si poteva nemmeno pensare di comprare la roba alla borsa nera, tanto era cara, e poi era severamente vietato, ma intanto chi aveva i soldi vi si riforniva lo stesso e si saziava.
Fu istituita l'UNPA, l'Unione Protezione Antiaerea; non riuscivano a trovare il personale e cercavano dei volontari, anche tra gli studenti. Ai suoi membri era riservato il trattamento dei militari : vestiario, cibo e soldo assicurato.
Io e i miei amici che non nuotavano nell'abbondanza, per quelle vacanze estive ci arruolammo nell'UNPA, almeno avremmo rimediato qualcosa di più che stando a casa, tanto il mare di Cantrida, con la fame che avevamo, non ci passava nemmeno per la testa.
Lo dissi ai miei genitori e a loro non sembrò vero che mi mettessi a fare qualcosa di utile e redditizio per dar loro una mano, in fondo ero il figlio maggiore ed era ora che mi dessi una mossa.

Mi presentai in gruppo con altri giovani nell'ufficio apposito che era sistemato nella scuola d'avviamento, di fronte all'Hotel Bonavia e firmammo l'impegno di assumere servizio volontario nell'UNPA per il periodo estivo, fino all'inizio dell'anno scolastico.
Il comandante dell'UNPA era un Seniore ( Colonnello) della Milizia che conoscevo, una persona affabile e autorevole che organizzava da tempo l'attività ginnica, i campeggi e le varie esercitazioni di carattere premilitare della GIL, cioè di tutta la gioventù .
Quanto fosse competente per le emergenze di un bombardamento aereo, forse non lo sapeva nemmeno lui, ma per quel tempo era più importante che fosse un fascista convinto.
Il giorno dopo, di buon mattino, in quella sede ci fornirono la divisa: una tuta di grossa tela grigia, un bracciale di riconoscimento, una bustina come copricapo, un cinturone da pompieri con appesa una mannaia, un elmetto simile a quello che era stato in uso dell'Esercito nella Guerra del ' 15 - 18, una maschera antigas e una coperta arrotolata.

Indossammo subito la nostra tuta, scegliendocela tra varie taglie e ci bardammo di tutto punto con ciò che ci era stato dato in dotazione.
Un sott'ufficiale della Milizia ci ordinò di schierarci in riga, allineati e coperti, e sull'attenti, il Seniore ci passò in rassegna con aria soddisfatta.
Bontà sua ci ordinò il "Riposo" e ci tenne un breve discorso sui nostri compiti, finì pronunciando le solite frasi mussoliniane con la certezza vittoriosa delle nostre valorose armate, sul nemico "demoplutocratico e sionista, corrotto e rammollito" che per combattere aveva bisogno di cinque pasti al giorno. In cuor nostro più d'uno di noi pensava che nonostante tutto, cinque pasti al giorno, almeno ogni tanto, non sarebbero stati male.

Al termine esclamò:
Militi dell'UNPA : Saluto al Duce !
Rispondemmo col grido: A Noi !
E ancora, egli, col braccio teso nel canonico saluto : Vincere !
Noi tutti all'unisono lo imitammo, facendogli eco: Vinceremo !

Con questo armamentario fui assegnato con altri in una delle sedi dell'UNPA sparse in tutta la Città, precisamente in Mlaca nell'edificio che fino a poco prima aveva ospitato l'Asilo Infantile di via dei Gelsi, adiacente al vasto Giardino Pubblico.
Strada facendo, passai per il Viale, davanti alla casa dei ferrovieri dove abitavo e volli lasciarvi i miei panni da borghese, ma soprattutto mi venne la voglia di farmi vedere dai miei familiari e pavoneggiarmi coi vicini.
Avevo la coperta arrotolata a tracolla da una parte, dall'altra la cinghia che reggeva la maschera antigas, che ad ogni passo mi batteva sulla coscia, dal cinturone rosso oscillava la mannaia che mi percuoteva incessantemente il gluteo.
Entrando nel portone, per fare colpo, mi misi in testa l'elmetto, al posto della bustina; salendo le scale incrociai due mule vicine di casa che quasi non mi riconobbero e mi guardarono con interesse. Conciato a qual modo mi presentai pimpante sulla porta della cucina.

Appena la Zia Francesca, che dimorava con noi mi scorse, si spaventò e portandosi le mani sulla faccia esclamò:
"Majko Mila (Madre Santa), Bruno, dove i te manda con quel capel de fero in testa! "
La rassicurai con noncuranza:
"Sta bona Zia, i me manda qua vizin, all'Asilo de Mlaca dove i ga messo la casermetta dell'UNPA"
"Ah, non ti me piasi, non ti me piasi cussì, povero el mio Bruno, come i te ga vestì, maledeta sta guera e chi la ga fata ! "
Era per me una doccia fredda.

Mio padre stava dall'altra parte del tavolo, sorbiva tranquillo in piedi un caffé, che poi era una cicoria Frank.
All'udire le parole imprudenti della Zia, il caffé gli andò di traverso, guai a noi se qualche spione l'avesse sentita, e in giro ce n'erano tanti !
Ringhiò a denti stretti per non urlare:
"Francesca, per causa de la sua linguaza noi finiremo tutti " soto el taco!
Ma mi prima che ne tochi ingrumar le straze non so cosa che ghe facio !"
"Soto el taco" era un eufemismo per dire che mio padre e con lui tutti noi saremmo stati trasferiti per punizione, con tutte le nostre carabattole, come sospetti antifascisti, in qualche sperduta stazioncina calabrese dove solo occasionalmente si fermava qualche treno merci, tutti gli altri vi transitavano senza nemmeno rallentare.
Era già successo ad un Capostazione, collega di mio padre che tanti anni prima aveva sposato una slovena di Bisterza, dalla lingua troppo sciolta; era andata in giro dicendo che quando suo marito per l'Adunata del Sabato Fascista indossava la divisa, tutta nera, gli sembrava uno spazzacamino, come tutti i suoi amici.

Fuori di sé mio padre aggiunse : "La stia zita, per l'amor de Dio, mi la farò serar in manicomio coi mati, cussì me liberarò de lei !
Anzi, la sa cosa, la cambi aria, la se ne vadi in Istria, tra i sui grebani fin che non ghe vegnirà un poco de giudizio. "
Alla Zia vennero le lacrime agli occhi.
"Brizna ja!" (povera me) mi go paura de ste robe, go deto cussi per dir, mi non go deto gnente de mal !" No, povera e cara Zia, sincera e mite, non avevi detto nulla di male, ma allora ciò che era bene, per noi lo decideva "il Partito".
Si rifugiò in camera per sedersi sul letto, col Rosario in mano, come faceva sempre, quando in casa le cose non andavano per il verso giusto.

Allora Papà se la prese con me :
"E ti ti potevi andar drito dove i te ga mandà e camina subito, altrimenti ti perderà anche el tuo rancio, che xe squasi mezogiorno!"
Con la coda tra le gambe, me ne andai alla mia Sezione UNPA come un cane bastonato; mi era passato pure l'appetito.
Si concluse così la mia prima esibizione da Milite dell'UNPA.

Compito dell'UNPA era pure quello di sorvegliare che nottetempo la città fosse completamente al buio, per non essere avvistata dagli aerei nemici. Era una precauzione inutile, gl'Inglesi sapevano benissimo individuare i loro obbiettivi, grazie al Radar, di cui italiani e tedeschi erano sprovvisti.
Di sera dovevamo a turno andare di ronda per accertarci che tutti osservassero le norme dell'oscuramento.
Uscivano all'imbrunire dalla casermetta di Mlaca tre pattuglioni di sei od otto militi, generalmente eravamo due giovani, due uomini e due militasse, più il capopattuglia.
Il caposquadra, il signor Attilio mi preavvisava di pomeriggio e mi prendeva sempre con sé. Ci bardavamo di tutto punto, con tutti i nostri arnesi: cinturone da pompiere, mannaia, maschera antigas, elmetto, due rotoli di corda a tracolla, che tutti si rifiutavano di portare per primi, e con passo cadenzato in fila per due, avanti i maschi e dietro le femmine, seguivamo il signor Attilio che decideva la strada da seguire.
Era Estate, tutti avevano le finestre spalancate ma allo scorgerne una dalla quale trapelava un chiarore anche fioco, il signor Attilio, col suo vocione cavernoso gridava:" Luce!"
Noi allora gli facevamo eco gridando:" Via la luce!"
Tutti in coro, più e più volte fino a quando la luce non si spegneva; altrimenti, schiamazzando un po', dovevamo salire le scale e bussare alla porta dell'indisciplinato, obbligandolo ad ubbidire, pena la denuncia, la multa e che so io altro ancora.

Nella nostra pattuglia veniva ogni tanto un tipo burlone, si chiamava Oscar, aveva fatto lo "scaldabroche"al Cantiere, si diceva che aveva poca voglia di lavorare, per questo era venuto nell'UNPA, così pensava di non fare nulla e pigliare qualche Lira di più. Era un tipo ameno, non si sapeva mai se parlasse sul serio o scherzasse e per questo tutti gli badavano poco. Quando noi in coro vociavamo:" Via la luce!" lui gridava, confondendo la sua voce con quella degli altri: " Via el Duce!"
Noi lo sentivamo e ci sbellicavamo dalle risa ma il signor Attilio no! Gli dava uno spintone, lo prendeva per il braccio e scuotendolo gli diceva severo:
"Ma ti xe mato, mi non voio rogne, qua i ne fica tutti in canon!" Oscar ammutoliva e faceva la faccia dello scemo, ma non lo era.
Nel' 44 andò con i partigiani piuttosto che andare alla leva dei tedeschi ma voleva stare nei pressi della sua città per liberarla. Qualcuno raccontò che i "Drusi"lo avevano mandato in Bosnia perché era fiumano e perciò laggiù protestava sempre per quella destinazione.
Nella sua Fiume non ritornò mai più, come altri fiumani che per tale motivo scomparvero quando andarono "in bosco".

Trascorsero così i mesi dell'estate 1940, la guerra era lontana, si combatteva nel deserto libico, verso l'Egitto. Alcuni giovani fascisti quasi ventenni avevano fatto domanda di andare volontari nell'oasi di Giarabub, sperduta del deserto. L'oasi era un importante caposaldo che proteggeva il fianco sud del fronte costiero dove si combatteva aspramente con alterne vicende.
Era stata composta pure una canzone che celebrava l'epica resistenza di quei giovani, diceva:

Colonnello non voglio pane
Voglio piombo per il mio moschetto
e la terra del mio sacchetto
anche oggi mi basterà!

concludeva questo canto che oggi fa tanta compassione:

Ma la fine dell'Inghilterra, incomincia da Giarabub!

Purtroppo doveva passare ancora tanto tempo perché la fine la vedessimo invece noi!
A Fiume non successe nulla di evidente eppure l'atmosfera era cambiata, gli animi inquieti, arrivavano le cartoline rosa, portate dai Carabinieri ai giovani di leva e ai richiamati alle armi.
Alcuni, quelli che erano nati dal 1913 in poi non ebbero requie fino alla sciagurata fine e furono quelle le classi che pagarono più di altre lo scotto della guerra.
Venne Settembre, lasciammo il posto dell'UNPA ad altra gente che era stata racimolata in giro e noi ritornammo a scuola.
Per quell'estate avevamo mangiato qualcosa di più e racimolato qualche lira che utilizzai su consiglio di mio padre per comprarmi qualcosa di utile.

Bruno Tardivelli


***

Stava ar caffè…..ma…
…è stato al fronte,….
si,…. ma còr pensiero…
Còr su sistema de combattimento,
spiana li monti, sfonna, spara, ammazza…
Per me, borbotta, c'è una strada sola……
e intanto intigne li biscotti nella tazza !
Trilussa.


UNA GUERRA LAMPO!

Frequentavo la Seconda Magistrale e già dall'anno precedente io ero stato selezionato per la Centuria Corale, un coro di giovani ai quali s'insegnava il canto corale sotto la direzione del Maestro Trevisiol. Entrai nel gruppo dei baritoni; era un coro molto numeroso ad otto voci, quattro maschili e quattro femminili.
Imparavamo ad eseguire cori operistici: Cavalleria Rusticana, Elisir d'Amore, Aida, Lombardi. Non mancava il coro della Norma: "Guerra, Guerra!", e poi La Montanara.
Un canto coniato su una frase di un discorso del Duce,diceva :

"A primavera (del 1941-cioè dell'anno prossimo)
comincia la partita!.
Per vincere ci vogliono i leoni
di Mussolini
armati di valor !"

Non mancava l'inno guerresco di moda:
"Vincere, Vincere, Vincere!
E Vinceremo in cielo, in terra e in mare!
E' la parola d'ordine!
Una Romana volontà!"

Parola d'ordine che Lui aveva dato in quel fatidico 10 Giugno.
Come chicca finale avevamo dovuto imparare un canto che inneggiava in tedesco ai micidiali bombardamenti su Londra scatenati in preparazione della battaglia d'Inghilterra (che non avverrà mai),ricordo un paio di parole:

"Andelfain, Bomben, Bomben, Bomben auf Engeland! "

Ci preparavamo per andare al Concorso Nazionale di Roma dove l'anno prima ci eravamo piazzati ad un posto d'onore, mi pare il terzo di tutta Italia, ma non ci andammo mai perché i tempi si sarebbero volti sempre di più al peggio.

Ci limitammo ad esibizioni locali, al Teatro Fenice, ad Abbazia nella sala dell'Albergo Quarnero per i soldati feriti che vi alloggiavano, in convalescenza e in seguito pure per i soldati tedeschi. La differenza era questa: quando cantavamo per i nostri soldati ci offrivano uno spuntino cioè un quarto di pagnotta scura e un formaggino e quando lo facemmo in seguito per i nostri alleati, non ci diedero mai nulla. Molti protestarono col Maestro Trevisiol e con l'amico Domizio Schiattino, allievo ufficiale e referente della Centuria per la mancata merenda. Loro ci davano ragione, ma ci consigliarono di abbassare la voce perché "i gnochi" non capissero che avevamo un appetito trascurato.
Era indelicato far notare ai nostri alleati feriti che ci attendevamo da loro qualcosa di concreto, ci bastavano i loro applausi!
Da Abbazia tornavamo a casa sull'autobus e scendevamo davanti alla chiesa dei Cappuccini, in Zabiza. Rincasando in gruppo dopo tanti canti classici e guerreschi, c'era sempre chi proponeva :

"Muli, cantemo finalmente una dele nostre:" e intonava

La mula de Parenzo, ga meso su botega
de tuto la vendeva, fori che bacalà.
Se il mare fosse tocio e i monti de polenta,
oi mama che tociade, oi mama che tociade:
polenta e bacalà!

Oppure, storpiando un canzone dei nostri padri

A Mezanote va chi che ga ciolto l'oio
Va con la carta in man, su e zo pel coridoio!

Il tutto, stiracchiando il più a lungo le vocali, facendo a gara per tenere la nota fino a quando si aveva fiato nei polmoni.
Poi ridevamo come matti, mentre qualche anziano passante, guardandoci, scuoteva la testa. A casa ci attendeva la cena: "radicio e patate" se c'era anche la "fritaia de qualche ovo con tanta zivola e pangratà" da dividere tra tutti, tanto meglio !

Bruno Tardivelli


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La Voce di Fiume 30 luglio 2006

IL RACCONTO DI UNA VITA... A PILLOLE


di Bruno Tardivelli

Bruno Tardivelli ci ha inviato lunghissimi racconti che parlano di Fiume, dei suoi ricordi, della sua gente, della sua esperienza di vita che rappresentano una preziosa testimonianza del tempo per la sua capacita di cogliere particolari significativi che spesso sfuggono alie persone meno attente. Sarebbe bello pubblicare tutto il materiale pervenuto ma ci vorrebbe un libro, anzi, forse più d'uno. Vi proponiamo per tanto, solo alcune pillole - nel caso si tratta del periodo che lo vide attore del Dramma Italiano - di questi suoi scritti, in attesa che qualche editare senta il giusto prurito e si faccia avanti.-

OPZIONI E COMINFORM

Vorrei accennare al nostro stato d'animo in quel lontano 1948, quando in conseguenza del Trattato di Pace, a Fiume ebbero luogo le "Opzioni per la Cittadinanza Italiana" e la Jugoslavia entró nella crisi nota col nome di Cominform. Avevamo paura...
Chi tra i fiumani riteneva di non aver commesso alcun crimine, anche se non dormiva tranquillo, era rimasto supponendo che il Vincitore non si sarebbe abbandonato, una volta finita la guerra, alla bieca ed efférata vendetta..

Purtroppo la Vendetta, l'"0sveta" Balcánica fu messa in atto, com'é oramai a tutti noto, nella Cittá in modo più mascherato mentre per le campagne fu più brutale e palese. Demmo allora crédito alle voci che ci erano giunte dall'Istria, sin dal Setiembre del 1943, nonostante fossero state ripetutamente smentite.. A completare il quadro giá di per sé fosco, ci mancavano puré i "Monfalconesi". I poveri Fiumani erano sistemati!

A tutti é noto ció che accadde con la scissione del Cominform e le traversie a cui furono sottoposti i Compagni Monfalconesi che pretendevano di dare lezioni di Comunismo agli Jugoslavi. Noi sapevamo della burrasca che era in atto, degli scioperi indetti dai "Monfalconesi", della famigerata riunione del teatro Fenice in cui scoppió clamorosa la protesta che venne domata col pugno di ferro.

Mai prima d'allora nella Nuova Jugoslavia nessuno si era permesso di sindacare il Compagno Tito, un Ídolo per gli Jugoslavi e sommo fu il biasimo di tutta la popolazione lócale, ossequiente e prona alie direttive del Partito.
I pochi dissenzienti Jugoslavi ed i "Monfalconesi" assieme a loro furono letteraímente spazzati via e se la passarono assai male. Noi ne avemmo sentore e, sebbene sia riprovevole affermarlo, ce la godemmo un mondo, anche se avevamo per contó nostro altri grattacapi.

Il personale del Teatro del Popolo era convocato in riunioni che si succedevano in continuazione, tutti si dovevano chiaramente esprimere da che parte stavano e votare per alzata di mano gli ordini del giorno che sostenevano indiscutibilmente la Lega dei Comunisti Jugoslavi. Noi conoscevamo da tempo queste rególe, ne eravamo stati edotti fin dalla nostra più tenera infanzia negli anni del Fascismo. Avevamo sofferto per una guerra infame perché i nostri padri non avevano saputo apprezzare la "Liberta". I vincitori ce l'avevano promessa e noi l'aspettavamo, ansiosi di conoscere quale aspetto avesse. Infatti, appena arrivati si ritennero "Liberi" di agiré verso di noi come a loro meglio conveniva, dimenticando le promesse.

Nel frattempo ci furono le "Opzioni", ormai in parecchi, nel "Dramma Italiano" avevamo deciso che ce ne saremmo andati dalla nostra Cittá per sempre, perché diventava ogni giorno più estranea ed ostile. Cosa c'importava delle case, del panorama, del nostro bel Golfo, del profumo di timo e della salvia che ci portava la brezza del Carso, se la nostra gente, i nostri parenti, gli amici, le persone che stimavamo ed alie quali ricorrevamo per un bisogno, se ne andavano tutti? Un motivo serio ci doveva ben essere, non erano fisime individuali.

Se ne andavano uno per volta pure i Frati Cappuccini: Padre Gabriele che giocava con noi a pallone, col quale cantavamo nel coro ed avevamo fatto le indimenticabili gite sul Monte Maggiore, Padre Antonino, il nostro Assistente spirituale che facevamo tanto arrabbiare per le nostre intemperanze giovanili e poi durante la Confessione, dopo la solenne paternale ci assolveva dicendoci di stare attenti e di procurare di non farlo più. Ci posava la mano sulla testa per assolverci e ne approfittava per darci in aggiunta alla penitenza una grattatina sui capelli pettinati con cura per farci un innocente dispetto. Ci dispiaceva lasciare i nostri colleghi che intendevano rimanere o erano ancora dubbiosi sul da farsi, ormai con loro i rapporti si erano raffreddati, non sapevamo più scherzare tra noi, come un tempo.

Poco per volta io. Romeo e la sua ragazza, la Gianna Intravaia, la Lilli e Umberto, la Alda, decidemmo di "optare per la Cittadinanza Italiana". Per questo motivo nelle riunioni del Collettivo Teatrale a cui fummo convocati dichiarammo che tutto ció che l'assemblea dei lavoratori dello spettacolo decideva, per noi andava bene, tanto, avendo "Opiato" ce ne saremmo andati.
Infatti come Cittadini Italiani, "Optanti", per legge saremmo stati licenziati, privati delle carte annonarie, espuisi entro un anno dalla Repubblica Jugoslava, ma questo non lo dicemmo, tanto lo sapevano meglio di noi.
Ci fu offerto un contratto a termine di due anni, in qualitá di cittadini stranieri, con la riserva da parte della Direzione del Teatro di interromperlo nel caso di inadempienze da parte nostra; nessuno accettó.

Allora costatarono che lasciavamo il posto di lavoro di nostra spontanea volontá; era una beffa ma non ce ne importava ormai nulla, tanto ne avevamo sentite di peggiori. Era iniziata l'estate del 1948 e scattammo un'ultima fotografía tutti assieme, sorridenti, durante le prove della "Commedia dell'Amore" sul grande palcoscenico spoglio del Teatro Partizan (ex Fenice) che aveva visto le nostre prime serie prodezze da dilettanti nella Filodrammatica del DIMM, e gli ultimi spettacoli con "I Gatti Selvatici" in tempo di guerra.
Fu un addio amaro, ognuno se ne ando per la sua strada, verso il proprio destino.

Io avevo un groppo in gola e mi appoggiavo. affettuosamente alia spalla del mió amico Romeo che stavo per lasciare. Berto Salvioli e la Lilly, la Alda col suo ragazzo, lo scenografo milanese Colombo, i nostri grandi amici.
Romeo e la Gianna partirono quasi subito; li accompagnammo alia stazione, ci abbracciammo forte, era finito per sempre un periodo meraviglioso, struggente e trágico che segnerá tutto il resto della nostra vita.

Vedemmo partire ad uno ad uno tutti i nostri amici e conoscenti e tutti ad uno ad uno io e la Dani li accompagnammo alia stazione come se andassimo ogni volta ad un funerale. Partí anche la Zia Francesca, che mi aveva fatto da mamma, con la mia sorellina Maria, assieme a mió fratello Aldo con Graziella e Lucia ancora in fasce.
Ogni volta che vedevo scomparire il treno era come se mi fosse stata amputata una parte del corpo, come se mi fosse stata infería un'altra pugnalata al cuore. Avevo in me una tristezza infinita che solo la vicinanza dell'unico bene che mi restava al mondo, la mia Dani, la mia giovane sposa, riusciva a mala pena a lenire.
Non potevo, non dovevo perderé anche lei, sarebbe stata per me la fine perché solo in quell'angolo di mondo in cui ero nato e che incominciavo ad odiare non avrei potuto resistere e altrove "solo" e ramingo non sarei andato.

lo e la Dani non partimmo perché a lei, alia mia giovane sposa non era permesso partiré; io le rimasi accanto per non separarmi da lei, per non perderla e la nostra ansia si protrasse ancora per un anno e mezzo, fino al 20 Novembre del 1949 quando lasciammo Fiume.

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In calce alla fotografia di cui sopra, ha scritto Bruno Tardivelli :

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Da sin. Nereo Scaglia, Cario Montini, Massari, *Romeo Fiorespino, *Bruno Tardivelli, *Umberto Salvioli, Ramera Brumini, Vincemo Dall'0lio, *l'elettricista del Fenice, e seduti; María Piro, Gianna Salvioli Depoli, *Lilly Pontoni, Adelaide Gobbi, *Gianna Intravaia, *Alda Gattoni, Sandro Bianchi.

Sette di questi giovani attori, segnati con *, sanno che saranno licenziati perché non hanno rinunciato alia Cittadinanza Italiana. Con questa commedia noi non andremo in scena. Siamo alie soglie dell'estate. Tutti sette se ne andranno tra poco profughi in Italia. Quando da turisti ritorneremo a Fiume e andremo a cercare queste comscenze di gioventú, i nostri antichi colleghi di palcoscenico, diventati consuman e affermati attori, ci accoglieranno con cordialitá, ritorneremo alle vecchie confidenze. Nonostante le differenti opinioni politiche di quel tempo, simpatizzeremo sempre, memori della comune passione giovanile.

Giannina, Nereo, Raniero, María, grazie per averci conservato la vostra affabilitá, io vi ho avuto sempre nel cuore, fate parte della mía gioventù.


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La Voce di Fiume 30 dicembre 2004

Gironzolando per la mia cittá: i Giardini Pubblici di Mlaca Povero "Mustacion" con i baffi imbrattati !


Per vedere e rivedere la mia Cittá, Fiume, non mi basta andare per il Corso; e poi, cosa ci vado a fare? Non incontro nessuno dei miei coetanei, andati e rimasti, hanno cambiato... stato... quasi tutti. E' cosí, per uno della classe 1923!
Vado a prendermi il gelato in Piazza Dante, al Bar Roma (io li chiamo sempre cosí) dopo aver dato un'occhiata al mercato del pesce e alla Riva, e fatto un saltino a San Vito, ma ancora della Fiume che m'interessa, ho visto ben poco.
A Cosala c'ero giá stato e allora sono salito sull'Autobus e per una buona mattinata me ne sono andato a passeggio per il Giardino Pubblico di Miaca..

Da bambino ci giocavo con i miei fratelli, sorvegliato da mia madre. Si correva dietro al cerchio, si giocava a zop-zop, a tí ti la ga, a fare le esplorazioni come Sandokan, nella Giungla Nera, impugnando la spada di legno, solo che invece delle tigri c'erano i gatti, ma per noi erano sempre tigri, ferocissime, mangiatrici di uomini! Aldo era per me l'intrepido amico Janez e Camillo il fido Hammamuri. Più tardi, da giovincello ci andavo con Raoul, Piero e Virgilio per le partite di tressette e scopa, a cavalcioni di una panchina che non aveva lo schienale. II Giardino di Mlaca era il luogo delle vacanze estive, condiviso col mare di Cantrida.

All'ingresso, il Giardino Pubblico, mi é apparso molto ben tenuto, con la grande aiola fiorita e il busto di Vitomir Sirola, fiumano, eroe partigiano. Nel 1947, c'era anche una chiesa del Redentore e Salvatore, doveva essere un tempio votivo dei fiumani, lí mi sposai con la mia Dani, ma venne demolita nel 1949... con la dinamite.
Non lontano dal luogo della chiesa ho rivisto il ruscelletto, lo ricordavo con le sponde ubertose, verdissime, affiancate da un paio di salici piangenti. Noi ci sporgevamo, coricandoci ginocchioni tra i ciuffi delle paritarie per mettere sull'acqua le fragili barchette fatte con la carta di giomale o in mancanza di questo, con le foglie della grande magnolia, dagli ampi fiori bianchi e profumatissimi che era nei pressi. Facevamo il tifo, ciascuno per la propria barchetta, seguendone dalle sponde, fin che potevamo, il percorso, che finiva tumultuosamente nel torrente accanto alia Salita del Pino. Che delusione, il ruscello é stato trasformato in uno striminzito rigagnolo verdastro, imprigionato fra due spogli muri di cemento. Probabilmente la fonte, col passare degli anni, é andata prosciugandosi. Il resto é stato mantenuto, ordinato, ho visto i giardinieri all'opera tra le piante d'alloro, di cui i giardini di Fiume sono sempre stati ricchi.

É ancora bella la mia Cittá, ma era stupenda, romantica, quando era meno popolata e le automobili non ammorbavano l'aria.
Ad un certo punto decisi di salire, perché il Giardino é posto su un declivio che porta al piazzale. Lo ricordavo molto più grande... o forse ero io che ero piccolo allora!
Non c'erano bimbi né donne a sorvegliarli lavorando a maglia o ad uncinetto, né uomini intenti a leggere il giomale, come in tempi lontani: solo un paio di persone che conducevano a spasso il proprio cane. In fondo c'era una grande vasca, con una graziosa fontana zampillante e nell'acqua cristallina, tra ninfee delicate guizzavano agili, tanti bei pesciolini rossi. La vasca c'é sempre ma é quasi asciutta, una pozzanghera verdastra piena di moscerini.... Mi sedetti e stetti all'ombra del grande alloro a godermi la frescura. Il silenzio era inteirotto solo dal tubare di una tortora. Lasciavo fluire i ricordi: il Giardino aveva un vecchio guardiano che indossava sempre una giubba cinerina, un copricapo a tubo, con la visiera lucida e lo stemma del Comune. Aveva dei baffoni bianchi e portava appeso al braccio un bastone. Sorvegliava tutto e tutti, facendo rispeftare il regolamento, esposto in bella vista accanto al cancello d'ingresso sul quale si leggeva:

"Non rompete le piante, non cogliete i fiori, non lasciate spazzatura, non lordate le vasche dei pesci, non molestate gli uccelli, non giocate al pallone, non tirate le pietre, non salite con le scarpe sulle panchine, tenete un comportamento educato, rispettate la quiete, abbiate buona cura del bene pubblico!".

All'imbrunire il Signor Guardiano impugnava un lucido e sonoro campanaccio e lo faceva suonare. Poi, con voce stentorea, partendo dall'entrata superiore, percorreva i viali principali invitando i presentí ad uscire. Eh giá, alia sera i cancelli del Giardino Pubblico venivano chiusi a chiave! Nessuno poteva trattenersi nottetempo: vagabondi, ubriaconi, malintenzionatí, viziosi, traviati, erano banditi da quel luogo riservato ai sani e morigerati passatempi diumi dell'onesta cittadinanza. Allora il Signor Guardiano annunciava ai quattro venti, al suono del suo campanaccio: "Si chiude! Si chiude! Si chiude!" Noi "muleti" ridacchiando dicevamo che assomigliasse al "Mustacion".

E, ad un tratto me ne ricordai: dov'era "el Mustacion"? Quella grande faccia scolpita in pietra bianca, sistémala in una specie di pozzo. Aveva la. grande bocca rotonda aperta dalla quale sgorgava l'acqua che si raccoglieva dopo un salto, nella vasca sottostante. Era suggestivo vedere quei lineamenti strani, impressionavano i suoi grandi occhi spalancati, gli imponenti favoriti arricciati e la gran bocca tonda che continuava ad emettere l'acqua, come fosse presa da un incessante rigurgito. Frugai nei miei ricordi e riuscii a trovarlo, in un angolo un po' recondito, ombroso: ne individuai la strada quasi d'istinto. Ma che sorpresa, quale delusione!
Come ti hanno conciato male, povero "Mustacion", mentre noi ti avevamo guardato con timorosa soggezione! T'hanno sfregiato, lordandoti con lo spray blu e rosso!
Ma perché?Quale gusto hanno provato? Tu, peró, tranquillo, impertérrito, continui nel compito assegnato, a far sgorgare dalla tua bocca l'acqua, come se nulla ti fosse accaduto. Sei ligio al tuo dovere, come il Signor Guardiano che ora non c'é più!
L'acqua continua a scendere nella pozza, anche tra lattine di birra, bottiglie di plastica vuote e cartacce; mi é sembrato quasi, che t'abbiano stuprato.

Vidi giungere un signore, con il suo cane che scodinzolando se ne ando a fare il bagno nella pozza. L'uomo mi sorrise ed io prendendomi un po' di confidenza gli dissi nella sua lingua:
"Peccato che sia cosí trascurato!"
"Mah, é la gioventù... ma l'acqua é pulita, sa, altrimenti non porterei il cane!"
Giá, lui non ci porterebbe il cane; non ha saputo dirmi altro... forse gli importava poco di tutto il resto!

Ho provato un certo struggimento, mi era venuta voglia di andare a pulire la faccia del "Mustacion", ma non sapevo come fare...
Me ne sono andato un po' deluso con questo desiderio insoddisfatto.

Bruno Tardivelli


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Ricordi de Mlaca

Io ero un assiduo frequentatore della chiesetta di Malca quando c'era don Gabre Gelussi (che sarà sato in origine Jelusic) ma allora come in seguito è sempre invalsa l'usanza da queste parti, tormentate dal nazionalismo, di storpiare i cognomi tanto che mio padre quando convolò a nozze con mia madre nel 1923 dovette litigare col parroco del Duomo che voleva registrarlo come Trdivelic, invece che il Tardivelli, dalle origini toscane come Montanelli e Zeffirelli....
A parte tali amenità che colui che non ha il senso del ridicolo si rifiuta di abbandonare, dirò che nel ruscello che correva accanto alla defunta chiesetta, ed ora è un triste riganolo verdastro, io ed i miei fratelli facevamo navigare le barchette di carta che mio padre ci costruiva con la carta del giornale che s'era portato vanamente dietro nella speranza di leggerselo in santa pace.
La mamma e la zia intanto erano andate al Rosario e alla sacra funzione serale e giungeva nel Giardino, fino a noi l'eco del coro dei fedeli; su tutte sovrastava la bella voce baritonale di don Gabre, molto ammirato per faconda oratoria le sue non comuni doti canore.
Quando egli fu promosso Canonico Capitolino, dovette abbandonare la sua parrochia del Redentore, di Mlaca tra il rammarico e le proteste vane di tutta la popolazione e del numeroso stuolo di pie donne dette anche "mlakarice" ,perchè dimoranti a Mlaka, che per l'affabile e robusto prete dovevano avere un sia pur casto "debole".
Andò mons.Gabre ad assumere il suo incarico nell'importante chiesa di San Girolamo, in centro, nella Piazza del Municipio. dietro la Casa del Fascio, oggi Radio Rijeka e Citaonica , se non mi sbaglio. Per lungo tempo le "mlakarice" non poterono fare a meno del loro amato prevosto e per dimostrargli il loro attaccamento, quotidianamente in tram, si sobbarcavano il tragitto fino al Centro Città pur di non perdere la funzione e la fiorita omelia del loro amato sacerdote.
Venne la guerra ed io 17enne, durante le vacanze estive, per avere una razione di cibo più abbondante andai a fare il milite dell'UNPA, (della Protezione Antiaerea) nel distaccamento che venne alloggiato nell'Asilo Infantile di Via dei Gelsi, proprio dietro la chiesetta sulla quale cadde una bomba che la fece scomparire, durante uno dei primo bombardamenti su Fiume.
Finisco qui, ripromettendomi, se non vi annoio, di raccontarvi ancora qualcosa.

Bruno fiuman


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La Voce di Fiume 25 novembre 2003

Me ricordo...el "Bimbo" in fotografía

Andavimo a far casin per far rabiar la Mariza


Dopo, bel pulito (per bene) razá (sbarbato) el andava dala Mariza ai "Cessi Pubblici" a pranzar perché ela con i pochi soldi che la ciapava la riusiva a sbrodigar qualcosa sora un forneleto a carbon dolce che la tigniva in un spaiss (ripostiglio) dove la stava a far la guardia in quel logo poco appetitoso.

Me ricordo che con i mii amici, Raoul, Virgilio, Rolli, Alfredo, Piero, Domizio, Livio, andavimo tuti in clapa (gruppo) dentro sti Cessi, dala parte dei omini, dove non se pagava e fazevimo casin, ridevimo, cantavimo e, con rispeto parlando, pisavimo anca fora del pisador. La Mariza alora la verzeva la porta de mezo con la scova in man e a scovade.la ne scaziava (cacciava) via urlando: "male- detta mularia, Milizia, Vigili, aiuto! Porteli via, meteli tuti in canon (in prigione) una bona volta!"

Scampavimo, ridendo come mati e mi me scondevo drio i alberi del Vialer perché qualche colega del mio papá, che l'era Capostazion, no ghe andasi dir che anche suo fio Bruno che studiava per maestro era fra quei manigoldi che era andado a far casin nei "Cessi Pubblici" e pisar par tera per far rabiar la povera Mariza che la la se guadagnava de viver per sé e per quel povero disgraziá de so fradel. El mió papá me gaveria dà sicuro un par de papine, (ceffoni) perché quele robe ala povera gente non se deve far, e ghe gaverio fato vergogna con i suoi colleghi. El mio papá era bon ma tremendo, le rare volte che lo go fato rabiar, bastava che me guardasi e averio avú de lui paura come del fogo!

Non so quanto tempo sia duradi el Bimbo e la Mariza, forsi fino al principio dela guera. Quando son diventá mezo giovanoto i xe sparidi e non se gavemo acorto de lori.
Coi bombardamenti, una bomba ga centrà proprio i "Cessi Pubblici" che i ungaresi aveva fato e nisun ga piú pensá che i ocoreva ancora.

Solo adeso andando a scavar ricordi lontani ormai 70 ani, me sovien ste robe, che chi gameno ani de mi, anche pochi, non ga mai visto.
Semo proprio i ultimi dei Moicani. Come quei indiani, anche noi stemo sparendo uno per volta.

Go visto sula rivista "LA TORE" n° 11 a pag. 74, dei nipoti dei fiumani rimasti, una fotografía fata dal Mondo Tich.
Si, quel cola cica in boca xe el Franzelin dela Música che el se rosigava el dorso dela man quando sentiva sonar e zigava: "Ancora, Ancora!
Quel con la gamela in man e quela foto picola a sinistra in alto, quel con la bareta e i oci strenti mi son sicuro che invece la xe del Bimbo de Braida.
El Franzelin déla Música era magrisimo, raramente el aveva la bareta, el iera sempre spetiná.
El Bimbo invece era tracagnotto col viso largo, el naso a patata i oci sempre strenti, quel xe proprio lui!

Grazie, Mondo, tí me ga fato un regalo e scusime per sta pedantería'.
Bruno Tardivelli, quel dei Ferrovieri


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La Voce di Fiume 28 febbraio 2005

Un monumento bronzeo eretto in Cittavecchia mi ha fatto rammentare la "mlecariza" - ...e mi me meteró el " kaplin ! "


Nascere poveri é una gran jattura, ma nascere poveri, in Italia e dintomi quand'io ero bambino, lo era molto piú di adesso.

Noi non eravamo poveri, Grazie a Dio, cosí diceva il mio Papá: conducevamo una vita modesta, di ristrettezze di ogni genere ma tutto sommato passabile, anche se c'era la guerra e il futuro era tinto di note scure.
La vita della gente slava che popolava i dintomi di Fiume, per quanto io ricordo, anche negli anni '20 e '30, era ben più grama di quella dei piú poveri fiumani.
Le donne delle campagne poi, rappresentavano, come sempre, in tutte le societá arretrate, il sostegno della famiglia, se non altro per la gran mole di lavoro a cui le usanze, la mentalitá, il loro stato le sottoponevano.
Non per nulla un nostro detto, asserisce che: "la donna regge da sola tre angoli della casa". Al che molti aggiungono celiando, ma non troppo, che in veritá essa é capace, da sola, di demolirli tutti e quattro! Le "miecarize" (da "mleko" che in slavo significa latte) erano le portatrici di latte che provenivano dall'entroterra di Fiume. La maggior parte del loro canco era sistemato in un grande cesto (el kosh) che ogni mattina, a piedi, prima dell'alba, con qualsiasi tempo, per tutto l'arco dell'anno, tranne le feste di precetto, recavano sulle loro spalle. Se il latte abbondava, non disdegnavano metterlo in altri due bidoncini, tenendoli uno per ogni mano, per bilanciare il peso.
II latte, munto la sera prima, rappresentava la loro maggiore fonte di reddito; preferivano venderlo a Fiume, "preko" (oltre), perché i "taljani" lo pagavano meglio.
Non esisteva la "pastorizzazione", il latte appena munto era fatto bollire la sera in grandi recipienti di rame stagnato, perché non inacidisse.
Vi toglievano la panna cotta che si rapprendeva sulla sua superficie (el scoropich o scrupich) appena raffreddata, lo versavano in bidoncini di lamierino zincato dalla capacita di 5 o 10 litri, completando il loro riempimento con la più innocua delle segrete adulterazioni: l'acqua.
II carico era venduto in cittá, pórtalo preferibilmente di casa in casa dopo un paio d'ore di cammino, ed anche più. Per sistemare il "kosh" sulla schiena adoperavano delle larghe e lunghe cinghie di lana e canapa che dovevano essere morbide e resistenti allo stesso tempo, le chiamavano "prascenize", avevano talvolta colon vivaci.
Camminavano curve, lungo la strada polverosa o fangosa, secondo il tempo, quand'era ancora notte, facendosi lume con un fanale a petrolio, se non gli era di grande ingombro e se potevano permetterselo.
Si proteggevano in caso di pioggia con degli enormi ombrelli neri, o dai colori sgargianti, le cui stecche erano di canna d'India. II corpo e le gambe erano coperti da un largo grembiule o da tela cerata, secondo le necessitá. Calzavano grosse calze di lana grezza e le "papuze", certe babbucce di robusta pezza, confezionate abilmente da loro stesse.
II capo era coperto con un "fazol", un grande fazzoletto di cotone che tenevano annodato sotto il mento o dietro la nuca, con i suoi lembi si detergevano il sudore, sotto il sole cocente.
L'andatura era pesante ed elastica alio stesso tempo, portavano una specie di cintura di tela, gonfia dietro, sulla schiena; serviva da appoggio per il carico. Erano robuste, con una corporatura massiccia,per poter reggere alia grande fatica quotidiana.
Bussavano di porta in porta, sopportavano la condiscendenza spesso pelosa, delle "scignure", il trattamento acido riservato da sempre ai bisognosi, Maledivano la loro sorte, i Taljani (gli Italiani) se non avevano voluto la loro povera merce, che con il passare delle ore andava deteriorandosi.
Le più fortúnate ed oneste "mlecarize" avevano clienti fissi che saldavano il dovuto al sabato, e venivano premiati con un omaggio settimanale di "scoropich" (panna) che noi ragazzi apprezzavamo moltissimo; ne mettevamo un cucchiaino, quello che ci toccava in razione, su una gran fetta di pane, lo spalmavamo per bene e lo cospargevamo con un cucchiaino di zucchero, che non doveva essere troppo colmo, altrimenti cadeva per térra ed era un peccato! .
Lungo la strada le donne non perdevano inútilmente il loro tempo per giungere in Cittá; durante il cammino facevano la calza; tenevano il gomitolo di grossa lana grezza, filata la sera in casa all'incerta luce del lume a petrolio, in una capace tasca del loro grembiule e passavano un filo attomo al collo, prima di lavorarlo con quattro aghi.
Un giomo, a guerra appena conclusa, indugiavo alia finestra che guarda sul Viale, in compagnia di una Zia istriana: commentavamo la situazione a Fiume che era mutata radicalmente.
Lungo la strada si vedevano sfilare bandiere jugoslave e cartelli inneggianti a Fiume croata.

Ad un tratto esclamai: "Ma non ti vedi che Fiume se ga impini de ste miecarize che inveze de portar el late le ne porta adeso le bandiere con la Stella Rossa? Ti vederá Zia, che queste se cala tute qua, a Fiume!".
La Zia aveva il mento appoggiato alia mano e come parlando tra sé sussurrava: "Chissá dove sará finida la Mariza".
Ci aveva portato per anni, tutte le mattine, il latte, e da tempo non la vedevamo più.
Avevamo saputo che la sua casa era stata bruciata perché vi avevano trovato delle armi, gli uomini validi e le ragazze erano fuggiti con i Partigiani e qualcuno era caduto in combattimento, altri erano stati deportati o uccisi dagli Italiani prima, poi dai Tedeschi e dagli Ustascia croati.

"Ti sa Bruno, una dele ultime volte che la Mariza xe vegnuda a portarne el late, la era strana, non la avevo mai vista cusí, la me se ga anche sentá, in cusina, sula sedia!
Forsi la iera molto stanca, ma po' la me ga deto: Draga gospa, finirá anca per noi sta bruta vita. Qua deve cambiar tuto! Non serviremo piú le signore fiumane. Mi vegniró qua e me meteró anca mi, "el kaplin" in testa!".
Alludeva al cappellino che certe fiumane, per distinguersi, usavano metiere, anche andando al mercato. Anche le mié compagne di scuola lo indossavano, civettuole, specie la domenica, il cappellino: d'estate, per il Corso, esso era di "paglia florentina" col nastro di seta colorato, rosso, verde, azzurro, la falda larga, che il venticello e la loro andatura provocante faceva ondeggiare maliziosamente.
II cappellino distingueva la cittadina evoluta e colta dalle popolane e dalle contadine.
La zia non si sognava di portarlo, avrebbe avuto vergogna, "cosa avrebbe detto la gente?" mormorava quasi tra sé.
Si considerava "una donna de sesto", istriana, si copriva il capo con un grande fazzoletto di seta nera, di lana d'invemo, quando tirava la Bora, ed ogni volta che entrava in chiesa.
Più tardi sapemmo che la Mariza era morta negli ultimi giomi della guerra, di polmonite, si raccontava in "Braida" (il nostro mercato), ma forse anche di fame, di stenti, di disperazione, di dolore.
Povera, la nostra Mariza, il sogno di mettersi il "kaplin", come le "gospe" (le signore fiumane), non si era avverato.
Gironzolando da turista nella Cittavecchia di Fiume, quasi cancellata da un'insensata frenesia di modemitá, mi sono imbattuto, in uno slargo di Calle della Marsecchia, alla quale, manco a dirlo, hanno cambiato nome, in un monumento bronzeo dedicato alla mlecariza.

Ne sono rimasto colpito, e mi sonp levato il cappello, come in vita non era mai capitato alla nostra Mariza, che aveva sognato di mettersi "el kaplin", come le "gospode fiumanke".
Ho provato tenerezza.

Bruno Tardivelli


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La Voce di Fiume 30 luglio 2005

I Gatti Selvatici a Fiume nell'anno 1942-44 - Follie di Hollywood a Cosala


Durante la guerra funzionava al Dopolavoro Rionale di Cosala una bella orchestra che si esibiva, con la partecipazione di diversi cantanti, in spettacoli di canzoni alla moda. Vi si era aggregata anche una coppia di comici che presentavano scenette, raccontavano barzellette e intrattenevano il pubblico tra un numero e l'altro per permettere di cambiare le scene o far tirare il fiato all'orchestra. Erano Ettore Viti, impiegato della Raffineria e Mario Dal Pin che faceva l'aiuto parrucchiere da uomo in Citavecia, in un bugigattolo di Calle Marsecia. Erano formidabili, Viti s'ispirava un po' a Carlo Dapporto, aveva i baffi grossi, folti ma non arricciati, e Dal Pin all'esordiente Macario, celebre partner della Wanda Osiris. La Compagnia di Cosala era molto valida e diventò notissima in tutta Fiume. Era sostenuta dall'orchestra di fiati diretta dal bravo Maestro Plazzotta, virtuoso suonatore di cornetta che si esibiva in preziosi assoli ad imitazione dei celebri jazzisti americani.
Si erano dati un nome originale: "I Gatti Selvatici" come quelli che giravano nei pressi del Dopolavoro di Cosala spesso abbandonati dai proprietari.
Allora facevo parte della "Filodrammatica del DIMM", il Dopolavoro della Marina Mercantile e dedicandoci a spettacoli di prosa ci ritenevamo artisticamente superiori agli interpreti di canzonette, ai barzellettieri, ai comici, ai ballerini di tango e di tiptap, così li snobbavamo un po'. Se poi loro si reputavano dei Gatti, noi non volevamo che qualche maligno ci ritenesse dei Cani; la gente di teatro, per chi non lo sapesse è sempre un po' permalosa e sospettosa. Quando infatti qualche attore filodrammatico non s'impegnava troppo nella parte, il nostro regista Paolo Venanzi per stimolarlo lo apostrofava dicendogli: "Ma va un poco dai "Gatti Selvatici"! Gruppo che conosceva molto bene perché s'erano rivolti a lui per consigli e giudizi. In un primo momento Paolo segnalò ai "Gatti" il nostro attor giovane, Tullio Fonda, che debuttò con loro, senza sentirsi troppo a suo agio. Tullio che era un grande ammiratore degl'inglesi e cercava di darsi arie da Gentleman, andava matto per Robert Taylor, riteneva "I Gatti" disdicevoli. Un giorno Paolo mi disse: "Tullio ga molà i Gatti, se ti vol ciapar qualche flica (soldino) i te prenderia a ti come presentator. Svèite, che non i paga miga mal". La prospettiva mi allettò, mi creai un mio personaggio un po' sbarazzino, col sorriso sempre stampato in faccia e tentai la sorte. Per darmi coraggio, facevo coraggio agli altri che dovevano cantare o ballare e avevano la tremarella al pari di me. Affrontare un pubblico eterogeneo sempre pronto a fare le pernacchie e fischiare, non era facile. Ma andò bene. Se dal pubblico usciva qualche apprezzamento poco benevolo o volgare gli davo ragione e ridevo io per primo alle battute salaci degli "elementi" della Cittavecchia, invitandoli a presentarsi loro pure per un provino con i "Gatti".
I due comici imbastivano "sketch" su fatti di cronaca locale, erano apprezzati dal nostro pubblico ma bisognava stare molto attenti a non tirare in ballo la politica e le situazioni di disagio della città perché agli spettacoli erano sempre presenti informatori dei tedeschi. Segnalavano ogni discorso sospetto, allusioni sgradite ai nostri governanti, mentre emissari dei partigiani facevano pressioni perché dicessimo qualcosa che discreditasse tedeschi e fascisti.
Ricordo i titoli di due Riviste: "Al Villaggio si trasmette" e "Quando suona l'orchestra dei Gatti". Quest'ultimo era un pezzo con parole e musica del Maestro Pontoni, un fiumano, papà della Lilly, attrice nella nostra Compagnia. Si dovevano sottoporre i testi dello spettacolo e addirittura i titoli delle canzoni al vaglio della censura per ottenerne l'approvazione. Guai a mutare qualcosa durante la rappresentazione. Talvolta però i Comici, improvvisando, andavano "fuori dalle righe" allora dietro le quinte appariva infuriato il Delegato della Polizia Italiana protestando e minacciando i responsabili della rappresentazione, me compreso, perché sul palcoscenico erano state fatte allusioni alla situazione scabrosa o apprezzamenti sulla qualità e quantità dei generi alimentari tesserati o sugli allarmi aerei. Viti e Dal Pin avevano improvvisato una filastrocca, accompagnati dall'orchestra cantavano la storia di un certo personaggio piuttosto ambiguo che appariva sul giornale locale: el Broskvar de Cosala, che qua zo più non se cala...Era arrivato immediatamente il poliziotto, seguito dai suoi agenti, gesticolando e gridando con accento inequivocabile:
"Chi è, chi è, che sputa nel vulcano! Mannaggia, mannaggia, vi metto dentro tutti, maschi e femmene! Vi mando tutti al fresco e poi vela vedrete voi con quei signori (cioè i tedeschi). Lo sapete che sono responsabile io, davanti a quelli! Ma mi volete rovinare. Io qui tengo moglie fiumana e figli! Ma prima io vi ammazzooooo". E poi con tono meno irato: "Guaglioni, perché mi volete mettere nelle rogne". Ci faceva in fondo pena quel poveraccio, anche lui tirava una carretta sgradita. Cercavamo di rabbonirlo, giurando che non l'avremmo fatto mai più, che tutta la colpa ce la saremmo presa noi. In fondo aveva ragione, ma a noi incoscienti, interessava l'applauso della "Mularia dela Citavecia", di cui era piena la platea. Molti li avevamo lasciati entrare gratis in Teatro quando ormai erano entrati tutti gli spettatori, a spettacolo quasi iniziato. Stavano seduti per terra, davanti le poltroncine, proprio sotto la ribalta e in mezzo al corridoio. Erano simpatici, ci chiamavano per nome per incitarci. Ci andò sempre bene, gli spioni tacquero, i delatori avevano altro da fare, i tedeschi non erano tra gli spettatori e il nostro gergo non lo capivano, così tutto andò liscio.
Del complesso dei Gatti ricordo alcuni nomi: la cantante Graziella Galasso, Fabietti che cantava "Polvere di Stelle" cercando di imitare Bing Crosby o l'esordiente Frank Sinistra, Uccio Pamich ballerino di Tip-tap che spopolava tra le ragazze, mentre i muli studiavano, mettendo sotto le scarpe delle piastre d'alluminio, d'imitare il clakclak che Uccio faceva con la suola e il tacco. Erano di moda le canzoni sincopate e mentre la Graziella cantava: " Com'è delizioso andar, sulla carrozzella, sulla carrozzella, sottobraccio alla mia bella…" Uccio l'accompagnava in sordina col suo Tip-Tap, per scatenarsi poi, quando veniva il suo turno nelle esibizioni d'assolo, vere acrobazie che mandavano in visibilio tutto il teatro. Era un ammiratore e un imitatore di Fred Astaire.
El Bruno Balarin con la sua partner invece erano esperti in danze sudamericane: la rumba "Con te una notte a Madera", il tango "La Palma" e poi il Valzer lento che Fabietti gorgheggiava con voce tenorile: "Firenze, stanotte sei bella in un manto di stelle, Che brillano in cielo come fiammelle…dorme Firenze al lume della luna, mentre là, sul balcone, veglia una Madonna brunaaa! " Per gli applausi veniva giù il teatro.
Luigi Rajola, napoletano, cantava avendo per modello il popolarissimo Alberto Rabagliati, molto americaneggiante. Suo cavallo di battaglia era lo swing: "Ba-ba baciami piccina, sulla bo-bobocca piccolina, dammi tantan-tanti baci, in quantità, la ralla lalla lalla làaaaa! " Si dimenava, segnava il tempo con le braccia, le mani, piegandosi sulle ginocchia, pestando i piedi, facendo schioccare le dita - una vera sceneggiata partenopea.
Sergio Jancovich el fio de Victor e della Mimica, l'amica della nostra famiglia, flemmatico, con la sua voce di basso profondo, che sembrava uscire dall'oltretomba, precursore dei più fortunati Bobbi Solo e Little Tony, sospirava con: "La barca dei sogni, che oscilla leggera…" quindi continuava con altro ritmo un po' sincopato: " io mi sento innamorar, fanciulle belle, quando passate come farfalle per la città." Gli spettacoli del "Varietà", nell'anteguerra in Italia, erano ispirati da una serie di film-rivista americani di gran successo intitolati tutti: "Follie di Holywood", nelle edizioni degli anni 1936, 1937, 1938, 1939 con l'Orchestra di Benny Goodmann, la celebre coppia Fred Astaire e Ginger Rogers e una sfilza di ballerine che erano "la fine del Mondo", anche se facevano vedere solo le loro stupende gambe. Altre puntate di "Follie di Hollywood" degli anni seguenti non le vedemmo più, incominciarono le Follie di Berlino e di Roma a ritmo di Marcia Funebre, con l'accompagnamento delle bombe Alleate. Attori, cantanti, suonatori e ballerini, evitarono fino alla fine del 1944 di essere precettati dai tedeschi appunto perché erano impegnati con i Gatti Selvatici e cercavamo di sfornare in continuazione qualche rappresentazione per evitare di dover andare ad imbracciare il fucile nella Milizia o nella Polizei, oppure di andare a lavorare con piccone e mazza nell'Org. Todt.

Bruno Tardivelli


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Lettere in Redazione: voglio dire la mia: Fiumani di buon senso

Dopo che sono trascorsi 60 anni dalla tragedia che i "fiumani" hanno vissuto, ben pochi di coloro che consapevolmente sono stati spettatori di quei momenti drammatici della Primavera del 1945, sono ancora in vita. Io sono uno di questi, stavo allora per compiere 22 anni e di quei giorni ricordo tutto, ogni particolare: smarrimento, tenue speranza, paura, tanta paura, gioia per la fine dell'incubo delle bombe e della fame, attesa dell'ignoto, l'augurio segreto di non dover affrontare qualche nuova e inaspettata sventura. Tutto ciò l'ho descritto affidando la mia testimonianza a istituzioni preposte a conservare la nostra Memoria.
Ho letto su La Voce le osservazioni che il nostro concittadino Giulio Chinchella espone al Sindaco Guido Brazzoduro e ad alcuni membri della sua Giunta e la loro risposta. Vi chiedo ospitalità per esprimere anche un mio parere. E' ben singolare questo nostro "Libero Comune di Fiume" dagli indefiniti confini che non sussistono perché abbracciano ogni parte del mondo dove sia presente un Fiumano che ha la volontà di sentirsi tale.
Il Nostro è un Comune Ideale, una tenue Comunità Spirituale che sopravvive, nonostante il passare del tempo perché nutrita di ricordi edaffetti irrinunciabili.
Noi, caro Signor Giulio, caro Signor Guido, cari Signori suoi collaboratori, se vogliamo che il nostro sodalizio sopravviva, dobbiamo ingegnarci a coltivare ed escogitare ciò che può unire i nostri animi nel bene, nella nostra reciproca simpatia, nella concordia degli ideali, negli affetti, nell'attesa del palpito che ci giunge dal cuore quando passando per le strade del mondo sentiamo parlare il nostro dolce dialetto dallo sconosciuto che ci passa casualmente accanto; allora istintivamente sobbalziamo ed esclamiamo:
"Ma la me scusi, Lei la xe fiuman?''
Si, perché??'
"Anche mi son fiuman!"
E, caro mio, te vien la voja de butarghe i brazi al colo prima de scomiziar a ciacolar de tante cose che le par monade ma che per noi le xe tanto importanti perché le vien dal cuor e le te fa viver.
Carissimi concittadini, coltiviamo ciò che c'è di buono, lasciamo morire le diatribe che particolarmente per noi sono deleterie, dirompenti e non hanno alcun costrutto. La nostra è un'unione ideale, una specie di religione, che può sussistere solamente in presenza di fattori positivi.
Non fomentiamo discordie, risentimenti, ripicche perché i primi a rimetterci saremo noi. Non tacciatemi di "buonismo" perché per noi è unicamente questione di buonsenso che può decretare la vita o la morte del nostro Comune. Pensiamo a quello che è stato il nostro destino e quello dei nostri padri, e non facciamo la figura dei "polli di Renzo".
Bruno Tardivelli
Pagina 9 dell'edizione cartacea :
http://www.arcipelagoadriatico.it/pdf/stampa_giulianodalmata/Voce_Fiume_2005set.pdf


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Una Storia Fiumana
La Preistoria del " DRAMMA ITALIANO "

" IL GRUPPO FILODRAMMATICO FIUMANO "


Cap 1

Quest'anno si ricordano a Fiume i 60 anni del "Dramma Italiano" e sulle sue origini si scrivono diverse cose apprese "per sentito dire" spesso con una certa approssimazione.
Chi ha vissuto quegli avvenimenti e ne è stato protagonista, testimone oculare deve avere passato gli 80 anni.
Io sono uno di quei sopravissuti e posso narrarvi ciò che ho visto.

Ho trovato un bel volume edito per l Centro Ricerche Storiche di Rovigno dalla Comunità degli Italiani di Fiume presso la Libreria della EDIT, in Corso, a Fiume. Ha un titolo per me interessante: "Il Dramma Italiano - Storia della Compagnia Teatrale della Comunità Nazionale Italiana dal 1946 al 2003". E' una tesi di laurea di Nensi Giachin Marsetic con una bella prefazione di Sandro Damiani.
Le prime 50 pagine rifanno succintamente la precedente storia del teatro a Fiume ed accennano alla grande passione che ha sempre animato i fiumani per il Teatro. Sono un po' pochine 50 pagine per un periodo di 350 anni, ma bisogna tenere conto che lo studio riguarda gli anni del secondo dopoguerra e le vicende travagliate della Compagnia Italiana in seguito all'esodo degli italiani da quelle Terre. Vorrei aggiungere un tassello a questo pregevole volume, scrivere di certe sue inesattezze nelle pagine iniziali che nulla tolgono al pregio di tale testo e narrare alcuni particolari inediti su quella "ganga" di amici, della quale facevo parte anch'io, che nel 1943, erano uniti tutti da un'unica passione: quella per il Teatro.

E' risaputo che Fiume ha vantato sempre una buona passione per gli spettacoli teatrali.
Quando io ero giovinetto, diversi erano i gruppi filodrammatici promossi dalle Sezioni Rionali del Partito Fascista e delle grandi aziende.
Anche il mio papà faceva parte della Filodrammatica del Dopolavoro Ferroviario ed in seguito della più quotata Filodrammatica Fiumana del Circolo Impiegati, nella quale confluivano i migliori elementi della città ed io usavo accompagnarlo alla sera alle prove.
Me ne stavo buono, buono in fondo alla sala, mi divertivo ad osservare le loro scene e come il regista riprendeva gli attori per correggere la loro recitazione.
All'inizio della guerra, quand'ero sedicenne, otteneva successi anche la Filodrammatica del GUF, il gruppo universitario fascista, composta dai figli di persone importanti della nostra città : gerarchi del regime, ufficiali dell'esercito. I "gufini" interpretavano commedie di sicuro successo di Dario Niccodemi, Giovanni Giacosa, forse già un pò sorpassate in quegli anni, ma che piacevano ad grande pubblico. Mi ricordo alcuni titoli: La Nemica, Due Dozzine di Rose Scarlatte, Come le Foglie e da ultima: Addio Giovinezza e fu veramente un "Addio"per loro, perché avvenne la capitolazione dell'8 Settembre 1943 e i loro padri, vista la mala parata che si stava preparando a Fiume, pensarono bene andarsene prima della resa dei conti.

Al Dopolavoro della Romsa, la raffineria oli minerali, c'era un gruppo che si dilettava in spettacoli d'arte varia. Si esibivano dilettanti canzonettisti, comici, ballerini, un prestigiatore, un'orchestrina.
L'ambiente era in certi momenti un po' strano per la presenza di alcuni elementi effeminati che, nonostante i tempi difficili cercavano di vestirsi in maniera fin troppo ricercata con zazzere impomatate che arrivavano a coprire, cosa inusuale per allora, il colletto della camicia. Quando camminavano per il Corso, ancheggiavano come fanciulle in cerca di morosi e scimmiottavano Nunzio Filogamo l'annunciatore dei programmi della Radio che con la voce un po' chioccia e l'erre moscia si presentava agli ascoltatori salutando:
"Cari amici vicini e lontani, Buonasera !"
I personaggi erano oggetto d'attenzione e di ironia, per il loro comportamento, correva voce che fossero omosessuali, finocchi, "orecioni", come si diceva a Fiume.
Comunque fosse negli spettacoli di Varietà ci sapevano fare e coglievano messi d'applausi unitamente ai lazzi di certi "maleducati"per le loro tendenze che allora apparivano anomale.
Anche la compagnia della ROMSA dopo l'8 settembre si sciolse, vi erano immischiate certe persone del Regime che sembravano dei maschioni. Ben presto scomparvero dalla circolazione assieme a quei tipi strani.

Proprio in quei tempi ebbe inizio la mia avventura teatrale.
Quando si hanno vent'anni, le risorse non mancano mai !
Vi è una voglia di vivere per superare grandi difficoltà che scoraggerebbero qualsiasi uomo maturo e responsabile. C'è una specie d'incoscienza che non tiene conto delle circostanze in cui l'individuo vive e così egli sogna tempi migliori che per il momento esistono solo nella sua fantasia.
Attorno a noi c'era lo sfacelo di tutti i valori e degli ideali in cui gli adulti ci avevano insegnato a credere, incombeva l'ombra crudele della disfatta italiana e a noi, per uscire dalla dura realtà in cui vivevamo venne l'ispirazione d'inventarci un mondo di fantasia che potevamo modellare secondo il nostro gradimento.
Un bel sogno nel quale vivere una parte delle nostre buie giornate.

Bruno Tardivelli - 8 ottobre 2006