Bruno Tardivelli racconta…2ª parte



La Voce di Fiume 30.09.2006

FRAMMENTI DI VITA ARTISTICA NELLA FIUME DEL 1943

La vita é tutta un teatrino

di Bruno Tardivelli

Era l'estate del 1943, con la nostra Compagnia Filodrammatica DIMM, mettemmo in scena, tanto per farci le ossa e prendere maggiore confidenza col pubblico, una commedia scelta da Paolo Venanzi. S'intitolava: "L'Allegro Principe", di Eugenio Caglieri. Di questa recita, in seguito, ci vergognammo un po' tutti.

Lo spettacolo era giá stato allestito qualche tempo prima con la partecipazione di Nereo Scaglia e qualche altro, partiti poi per il fronte. Non mi ricordo la trama ma so che Tullio aveva la parte del protagonista, quella dell'allegro principe, disinvolto e godereccio; Paolo era un commissario di polizia miope, con l'accento francese e l'erre moscia che parlando ci sputava in faccia; io ero un Conte decaduto e rimbambito vestito con un frac preso a nolo che si scuciva sulla schiena appena mi muovevo; Domizio era il mio servitore saltellante come un capretto, con il gilet a righe dei servitori; la Jole, che si dava sempre delle arie, aveva il ruolo di schizzinosa fidanzata del Principe; la Sonia era una cameriera tutta inchini e motteggi che faceva dannare Paolo perché insisteva con le sue inflessioni dialettali istriane.

Tullio s'affannava a darci ragguagli sulla dizione, visto che la pronuncia italiana lasciava a desiderare, abituati come eravamo al dialetto fiumano senza doppie e con le vocali strascicate. Paolo e Nino mi ossessionavano: dovevo interpretare la parte del Conte Skartz come faceva Nereo Scaglia. Io allora non lo conoscevo ancora, sapevo soltanto di non essere alla sua altezza, il che un po' mi faceva rabbia ed un po' mi sentivo umiliato, perché ne ero considerato la brutta copia.

Facemmo tanta pubblicitá mettendo degli avvisi multicolori ideati da Willi Stipanov nelle vetrine di alcuni negozi del Corso e del Viale, come si usava per gli spettacoli teatrali ed il cinema. Ebbe effetto: il salone del DIMM era gremito. Durante la recita notammo in fondo alla sala qualcuno della Filodrammatica del GUF, quella degli universitari, tutti spocchiosi "figli di papá", che erano venuti a curiosare. Ricevemmo applausi e complimenti da amici, parenti e conoscenti ai quali avevamo fatto pagare un'inezia di biglietto, tanto per non rimetterci le spese.

Era tempo di scegliere un testo per il prossimo spettacolo, la guerra andava facendosi sempre piú dura e presente. Quelli della mia classe erano partiti tutti, eravamo rimasti a casa solo io e Virgilio perché eravamo della Leva Aeronáutica; scherzando, ma non troppo, ci dicevamo che non ci avrebbero chiamato perché non c'erano piú aeroplani, e forse era la veritá.

Venne il 25 Luglio, il ribaltone e poi anche l'8 Setiembre 1943.

A Fiume si temeva il peggio: se fossero entrati i partigiani jugoslavi si sarebbero vendicatí su di noi piccolini, mentre i "cani grossi" erano scappati. Accogliemmo con un senso di sollievo i tedeschi, almeno portavano per il momento "l'ordine", facendo scappare i partigiani, con loro giunse anche qualcosa da mangiare.

In Jugoslavia, intanto, era successo il finimondo, non si sapeva piú a chi dare retta: c'erano i partigiani comunisti, i partigiani monarchici detti cetnici, i fascisti croatí detti ustascia, i domobranzi, le panzer divisionen tedesche, i militari italiani che volevano tornare a casa e cadevano in mano nemica; a Fiume si diceva:

"Non si sa chi beve e chi paga!"

I tedeschi, che ci avevano dato momentanea speranza, appiccarono il fuoco alla Sinagoga di Via Pomerio e deportarono gli ultimi ebrei rimasti a Fiume. Si proponevano di mobilitare tutta la popolazione valida per tenerla sotto costante controllo. In quel marasma, in quel "si saivi chi puó", Paolo trovó modo di salvare se stesso e la "sua" Filodrammatica per quasi tutto il 1944.

Si offri di allestire degli spettacoli teatrali per dilettare, in mezzo alla tempesta, la popolazione e le truppe. L'ordine era di dare alla Cittá una parvenza di normalitá. Intanto, erano stati affissi i bandi per la leva militare e, in alternativa, l'adesione all'Organizzazione TODT, cioé il servizio di Lavoro Obbligatorio per la costruzione di fortificazioni nei dintorni della Cittá.

Ci salvó la preparazione degli spettacoli che dovevano offrire alia cittadinanza fiumana un divertimento mentre il clima stava diventando in realtá di giorno in giorno sempre piú trágico. Ci sentivamo dei saltimbanchi, pronti a far ridere civili e militari mentre la morte e la miseria aleggiavano dappertutto.

Ci cimentammo in quest'ardua impresa con grande impegno, tanto piú che tale occasione ci esimeva dal lavorare di mazza, pala e piccone, oppure di imbracciare il fucile. Ci concessero un "ausweis", cioé un esonero, un salvacondotto, con cui poter circolare liberamente nelle ore consentite, nel caso le ronde militari ci avessero fermato in uno dei frequenti controlli che avvenivano per le strade.

Mettemmo in scena una commedia brillante scritta per il comico siciliano Angelo Musco: "Lo Smemorato", era il Febbraio 1944. Fu un successo. Si andava in scena e si preparava "I fallimenti del Curatore", e poi ancora "Il Medico e la Pazza".

Ma i tedeschi volevano qualcosa che fosse capito pure dai loro soldati. Cosí Paolo si diede da fare ed andó a cercare a Cosala il gruppo dilettantistico dei "I Gatti Selvatici" che in quel Dopolavoro aveva presentato in altri tempi meno burrascosi degli spettacoli che allora erano definiti "Arte Varia".

Furono momenti esaltanti che in queste pagine abbiamo giá raccontato.

Io, Paolo Venanzi e Nino Bortolotti una notte del Febbraio del 1945 fummo buttati giú dal letto dalle SS e finimmo in prigione. Ci andó di lusso perché mentre eravamo detenuti, le SS vennero a prelevare una notte 15 prigionieri politici come noi e per rappresaglia li fucilarono sulle scalette dell'ALGA, sotto la Piramide, a Sussak, sul luogo in cui era stato ucciso un poliziotto croato ed uno era stato ferito.

Paolo era in contatto con elementi della Lotta di Liberazione Jugoslava, e finimmo in prigione perché qualcuno aveva fatto la spia. Noi peró c'entravamo ben poco, eravamo all'oscuro dei maneggi di Paolo e delle sue conoscenze ma avevamo a che fare con lui e ci misero a fargli compagnia "in canon".

Per fortuna non ci riempirono di botte perché non avremmo saputo in veritá cosa raccontare di interessante. Della nostra carcerazione mi sono fatto un'idea, condivisa anche da Nino. Giá allora, per gli Jugoslavi, Paolo era un elemento italiano troppo intraprendente e poco malleabile, era meglio per tutti , che prima della loro venuta in Cittá fosse messo "al fresco" dai tedeschi, per tappargii un po' la bocea e cosí renderlo innocuo. Ma la storia non finisce qui...


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La Voce del popolo 04.11.06

Esuli e Rimasti a cura di Roberto Palisca

MEMORIE
La preistoria del Dramma Italiano: il Gruppo Filodrammatico Fiumano


Bruno Tardivelli, nato e vissuto a Fiume fino all'età di 26 anni, è esule dal 1949. Il papà Tullio era ferroviere. La mamma, Giustina, era istriana. L'autore del testo che pubblichiamo su queste pagine ha fatto l'insegnante dapprima in Piemonte, poi in un paesino della Bergamasca e poi ancora nella periferia di Genova. Una volta in pensione si è trasferito con la famiglia a Monfalcone. Da giovane, a Fiume, tra il 1940 e il 1948, fece anche l'attore. Da allora ha sempre coltivato una grande passione per il teatro e per la scrittura.

Di sé in un suo testo Bruno Tardivelli ebbe a dire: "Io e mia moglie Dani, 'mula de Oltreponte' ne abbiamo viste per il mondo di cotte e di crude; ma avevamo nostalgia della bora e una volta in pensione ci trasferimmo a Monfalcone. Non abbiamo figli, ma mi sembra talvolta di averne tanti, quando i miei scolari, uomini e donne fatti, si ricordano di me, di quel maestro un po' strano, venuto da lontano, che parlava spesso di Patria, di Italia, quando pochissimi osavano nominarla, e affermava che tutti gli uomini devono vivere in Pace e perdonarsi tra di loro, se sbagliano, perché sono tutti fratelli, figli di uno stesso Padre, il Signore Dio, e si commoveva quando parlava del suo luogo natio, di una Città dal nome così strano: Fiume, che non è più Italia e che non si chiama più così".

Quest'anno si ricordano a Fiume i 60 anni del "Dramma Italiano" e sulle sue origini si scrivono diverse cose apprese "per sentito dire" spesso con una certa approssimazione. Chi ha vissuto quegli avvenimenti e ne è stato protagonista, testimone oculare deve avere passato gli 80 anni. Io sono uno di quei sopravissuti e posso narrarvi ciò che ho visto.
Nel 1943 eravamo quasi tutti ventenni; fu quella manica di mattacchioni che costituì la primissima compagine che doveva diventare il "Dramma Italiano" di Fiume, al principio del 1946. Vi vorrei raccontare la storia di questi "pionieri" per averla vissuta in prima persona; fu nonostante tutta la bufera dalla quale eravamo flagellati, il periodo più suggestivo e indimenticabile della mia vita. Eravamo, a modo nostro, dei "bohemien", capaci in ogni momento di sacrificare il nostro tempo, i pochi soldi che avevamo in tasca, a costo d' imporci fatiche inusuali pur di soddisfare l'esigenza intima di comunicare alla gente la nostra gioia di vivere, nonostante i tempi, in libertà, nella finzione scenica e condividere con gli spettatori momenti spensierati in tempi drammatici, distogliendoci per un paio d'ore dall'atmosfera lugubre nella quale gli eventi ci costringevano a vegetare.

Se non i xe mati, non li volemo

Negli anni del tempo di guerra, per merito della combriccola di quegli amici che "se non i xe mati, non li volemo", tutti dunque poco più che sbarbatelli, conobbi un personaggio, maggiore di noi che ci scegliemmo per regista e finì coll'essere il nostro tiranno; una vecchia volpe del teatro che ne aveva aspirato tutta la "sacra polvere": era l'indimenticabile Paolo Venanzi.
In verità Paolo avrà avuto sei o sette anni più di noi ma nell'età giovanile quegli anni ai nostri occhi costituivano un abisso di esperienza incolmabile.
Egli, assieme a Nino Bortolotti, suo coetaneo, grande intenditore anche di opere liriche, già da tempo attore dilettante esperto, conosceva tutti i misteri ed i segreti del palcoscenico e ce ne rendeva edotti, centellinandoceli goccia a goccia, per stupirci, divertendosi assai nel vederci restare meravigliati, a bocca aperta nell'ascoltarlo.
Sapeva, il birbone, che così facendo aumentava ai nostri occhi il suo ascendente e il suo prestigio, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno e ci affascinava con la sua "verve".
In un paio di pubblicazioni storiche anche pregevoli che sono riuscito a reperire sull'attività teatrale a Fiume dalla fine degli anni trenta e fino al 1945, ho l'impressione che ci sia sempre un "buco nero" dal quale emergono rare notizie nebulose che personalmente ritengo distorte perché i personaggi che ebbero la ventura di narrarle dopo un paio di decenni non le vissero agli inizi in prima persona; la guerra li aveva sbattuti soldati, lontano da Fiume. I veri protagonisti non ci sono più, ignoro se altri abbiano lasciato delle memorie.
Mi sembra che siamo rimasti in due: io e quella deliziosa signora che dopo tanti anni mi ha consentito che l'abbracciassi con tanta commozione nella sua casa, come un'amica di gioventù : Gianna Salvioli. Solo con lei ho potuto rievocare il tempo lontano e mi è venuto poco per volta un proposito: mettere per iscritto quei miei ricordi.

Oggi mi ci voglio cimentare per davvero

Si, Va bene ! C'era il fascismo impiccione, ficcanaso e manesco, e dopo di esso i nazisti, peggiori ancora, ma nella vita d'ogni giorno, a Fiume, se non si era compromessi o "beccati" con le mani nel sacco, con un po' si sagacia ed anche di fortuna, si riusciva a menare il can per l'aia, a farla franca, a sgusciare come anguille e noi fummo tra quelli che lo fecero, fin che ci andò bene; e dire che allora c'era più di un cane da caccia mordace ! Ai cultori del vernacolo triestino basterà rammentare un nome molto noto: il comico Angelo Cecchelin, per noi un idolo che nei primi tempi ci studiavamo d'imitare; pochi come lui dal palcoscenico ebbe il fegato di canzonare in modo tanto caustico il Regime, quando era all'apice del suo potere.Ebbe le sue grane, lo misero a stecchetto, andò anche a finire in gattabuia, gli impedirono di calcare le scene, ma non lo fecero morire di stenti e di botte, non lo mandarono in una " Goli" qualsiasi, se la cavò sempre. Eppure a Trieste i tedeschi avevano inventato pure "La Risiera". Ma tutto il mondo è un po' paese e non finì lì; al povero Angelo gliene combinò tante anche "la Democrazia" che dalla sua Trieste lo fece scappare. Chissà con quale dispiacere pure lui morì, a modo suo esule a Torino, senza sentire la sua bora e dire che la sua ora venne nel 1964 !
Forse il motivo di tante lacune sul nostro passato teatrale si potrebbe individuare pure nel fatto che buona parte dei fiumani protagonisti di quel tempo periglioso si sono dispersi per il mondo come le foglie al vento e di tanti loro documenti non rimane più traccia, dopo quel ciclone. Degli anni '30 e '40 trascorsi a Fiume io ho un ricordo personale vivissimo anche se non documentato e di quel poco che avevo portato con me, molto ho smarrito negli innumerevoli traslochi del mio esilio. Non possiedo incartamenti, è tutto impresso nella mia memoria, in poche vecchie fotografie dietro le quali in tempi lontani ho scritto delle date e qualche parola. Molte foto furono scattate dell'indimenticabile Edmondo Tich, compagno di scuola dei miei amici del "Nautico", che già allora aveva il pallino della fotografia e possedeva, beato lui, un valido apparecchio fotografico. Conservo anche pochi e ingialliti ritagli di giornale, sono articoletti de "La Vedetta d'Italia", il quotidiano fiumano del tempo, che custodisco in un vecchio album.

Bruno Tardivelli, quel dei Ferrovieri

(1 e continua)


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La Voce del popolo 11.11.06

Esuli e Rimasti on line a cura di Roberto Palisca

MEMORIE
I tempi della "Filodrammatica Fiumana"

Voglio innanzitutto fare alcune necessarie precisazioni su certe denominazioni che mi sembrano usate impropriamente.
"Filodrammatica Fiumana" era negli anni Trenta quella della compagine che operava nel "Circolo Impiegati" il quale aveva la sua sede in Via Giuseppe Mazzini, che mi pare sia stata poi chiamata ulica Rade KonCar, tra l'attuale Piazza Adria e l'ex Piazza Dante, nell'edificio dove si trovava il Caffè Centrale. La Filodrammatica era diretta dal dott. Rodolfo Permutti.
Era composta da persone mature di un certo censo in quanto il Circolo era aperto solo al ceto impiegatizio, ai commercianti, professionisti ed insegnanti, in genere a persone con un certo grado d'istruzione. Allora persisteva ancora una certa discriminazione nelle classi sociali, come s'intende dalla denominazione del sodalizio.
La prima attrice era una bella signora: la Trigari.
Noi al tempo della" Filodrammatica Fiumana" eravamo "muli", studenti delle Medie e poi delle Superiori, lì non avemmo mai potuto accedere.
Soltanto dopo la fine della guerra, in seno al nostro gruppo Tullio Fonda assunse nel 1945 una posizione preminente, probabilmente perché Paolo Venanzi ambiva a più alti incarichi, ma tutto durò poco tempo, perché Paolo e Tullio se ne andarono ben presto, uno dopo l'altro, in Italia, prima degli altri. Tullio Fonda era stato mio compagno di classe alle elementari e alle Medie e poi aveva studiato al Nautico senza avere l'inclinazione del navigante e con profitto non brillante. Né io né lui eravamo delle cime, lui s'arrangiava bene in Italiano , io in Matematica e alle Medie ci aiutavamo a vicenda. Era dotato in Lingua Italiana, aveva un'ottima dizione che si studiava sempre di migliorare. Alla fine degli anni '30 era un grande ammiratore di Robert Taylor, andava pazzo per Greta Garbo, con i ritratti della quale aveva tappezzato la sua cameretta, nell' appartamento di Via Littorio, di fronte alla Stazione Ferroviaria.
Snobbava un po' gli attori italiani del cinema. Da anglofilo qual'era, aveva in antipatia il Fascismo, anche se doveva come tutti indossare la divisa, aggiustata per benino da sua madre; si studiava d'imitare la recitazione piena di pathos e di espressività lirica di Alessandro Moissi che aveva visto da ragazzo e quella di Memo Benassi. Non aveva una grande opinione di Vittorio De Sica e di Enrico Viarisio. Quando fummo cresciuti un po' mi snobbò, divenne ambizioso, si sentiva a me ed agli altri superiore per capacità e censo, non fummo più grandi amici pur restando in ottimi rapporti.
Dico questo per affermare che nel 1944 Tullio aveva la mia età, cioè 21 anni, era un ottimo attore ma non aveva né la preparazione, né l' esperienza, né la credibilità ai nostri occhi per dirigere una vera Filodrammatica. Tale impegno richiedeva grande dedizione, una certa competenza, fatica anche fisica e lui non era il tipo che s'abbassasse a fare lavori anche umili, guardava troppo in alto; solo Paolo Venanzi ne era capace.
Il gruppo di "giovani amici" che per passatempo e per passione si radunò dal 1943 nella sede del DIMM, il "Dopolavoro Interaziendale della Marina Mercantile" ricorse all'esperienza di Paolo Venanzi e Nino Bortolotti, che allora avevano poco meno di 30 anni ed una pratica quasi decennale di palcoscenico esso si denominò allora come: "Filodrammatica del DIMM".
Rimpiangevamo l'assenza di Nereo Scaglia, partito militare prima e poi fatto prigioniero. Lo rivedremo con gioia solo alla fine della guerra.
La nostra sede del DIMM si trovava nel Viale, in origine chiamato Corsia Dèak e poi Viale Camice Nere, nell'edificio adiacente alla Chiesa dei Cappuccini, ed era ubicata al terzo piano, sopra il Cinema San Giorgio che era allora di proprietà di quei Frati. La nostra sede consisteva in un ampio e spoglio salone che nel Maggio del 1945 diventò il Circolo dei Poligrafici, su indicazione di Paolo Venanzi, in quei giorni promosso anche Caporedattore del quotidiano "La Voce del Popolo".
Da certi testi mi è sembrato ancora di capire che si confonda il Teatro Fenice con il Cinema San Giorgio dei Frati o viceversa: il Teatro Fenice era il più ampio Teatro di Fiume, quello che dopo fu chiamato "Partizan" e si trova nei pressi del Liceo Italiano; nelle adiacenze del luogo che ora mi pare si chiami "Dolac" .
Giovincelli com'eravamo, avevamo bisogno di qualcuno più esperto di noi e Paolo con Nino rimorchiarono nel nostro gruppo Dante Fabris, la Lidia Treleani e Fernanda Minach che avevano qualche anno più di noi e già fatto esperienza di teatro. A corto di elementi femminili ci demmo da fare per convincere a salire sul palcoscenico Gianna Intravaia, Nella Colonnello, Liliana Paliaga, Sonia Romaz, Jole Leggieri, Lilly Pontoni, Sabina Armieri ed in seguito Gianna Salvioli, la migliore di tutti noi, che divenne la vera Signora della Scena del "Dramma Italiano" per molti anni.
Grazie, Giannina, per tutto quello che hai saputo fare, nel nostro esilio ti abbiamo sempre ricordato con simpatia; io sono un po' fiero per Te, ci hai dato lustro.
Più tardi, quando nel 1944 in città rimanemmo i soli a dedicarci al Teatro, tra allarmi, bombardamenti ed ispezioni poliziesche, per fare riferimento alla nostra Filodrammatica qualcuno, forse memore dei tempi d'oro ormai passati, ci affibbiò la denominazione di "Filodrammatica Fiumana" e ce ne sentimmo un pò usurpatori.
Non ci ritenevamo degni di quel blasone, stimando gli attori dilettanti del "Circolo Impiegati" più esperti e maturi di noi.
Ci consolammo al pensiero che tanto la vera "Filodrammatica Fiumana" non esisteva più e noi potevamo esserne gli eredi !
Con la fine della guerra la denominazione "Filodrammatica Fiumana" fu abbandonata, forse non sembrava più opportuna.

Bruno Tardivelli, quel dei Ferrovieri

(2 e continua)


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La Voce del popolo 18.11.06

Esuli e Rimasti on line - a cura di Roberto Palisca

MEMORIE
Il Dramma Italiano e l'inizio dell'esodo

L'equivoco di ciò che accadde in quegli anni e in cui incorrono gli attuali studiosi ed appassionati del teatro fiumano è secondo me dovuta ad un articolo di Lucifero Martini, redatto molto tempo dopo tali fatti. Sulla "Voce del Popolo" in occasione del ventennale della Comunità degli Italiani di Fiume, il 1mo maggio del 1966 apparve un suo scritto. Nell'articolo in parola egli identifica la nostra primitiva "Filodrammatica del DIMM" non più come "Filodrammatica Fiumana" ma con il Complesso dei "Gatti Selvatici" che erano tutt'altra cosa.
Il complesso dei "Gatti Selvatici" era un gruppo dilettantistico del Dopolavoro di Cosala, che consisteva in un'ottima orchestrina di musica leggera diretta dal bravo Maestro Plazzotta. A questa si erano aggregati dei cantanti dilettanti di canzoni in voga ed in seguito dei comici, ballerini e finanche un prestigiatore. Una curiosità: l'ispirazione per tale denominazione strana e buffa di "Gatti Selvatici" era venuta a qualche tipo ilare del complesso perché nelle adiacenze del Cimitero, nei cui pressi c'era il Dopolavoro di Cosala, s'aggiravano numerosi gatti randagi cioè "Gati Salvadighi", che la gente portava a perdere lassù, nei pressi del Cimitero quando voleva disfarsene.
Dedicandoci a spettacoli di prosa noi ci ritenevamo artisticamente superiori a quei suonatori di canzonette popolari, ai suoi cantanti, ai barzellettieri, ai comici, ai ballerini di tango e di tip-tap, cosi li snobbavamo un po', guardandoli con sufficienza.
Se poi loro si reputavano dei Gatti, noi non volevamo che qualche maligno ci ritenessero dei Cani; la gente di teatro, per chi non lo sapesse è sempre un pò bizzosa e sospettosa Quando qualcuno di noi non s'impegnava troppo nella parte assegnatagli, Paolo o Nino per stimolarlo lo apostrofavano dicendogli: "Ti ti sarii bon per i Gatti Sevatici!"
In ogni caso c'è da tenere presente ancora una differenza tra noi ed "I GattI": con gli spettacoli loro facevano "cassetta" e noi, sovente, non uscivamo con le spese; ma si sa, a questo mondo hanno sempre più successo coloro che valgono meno ma sanno però accontentare la folla, facendo magari i pagliacci.
È da tenere presente che tale gruppo ricorse a Paolo Venanzi ed ai suoi consigli sulla messa in scena, quando decisero di darsi agli spettacoli importanti, perchè in fatto di rappresentazioni teatrali la sapeva più lunga di tutti gli altri messi insieme.
Lucifero Martini, ai tempi dell'8 Settembre 1943, aveva altre gatte da pelare: era ufficiale degli Alpini a Cefalonia e sarebbe stato fucilato dai tedeschi se Fiume, città dalla quale proveniva non avesse fatto ormai parte dell'"Adriatische Kunstendland".
Al suo ritorno a Fiume, sempre in tempo di guerra, ebbe notizia delle attività teatrali dilettantistiche fiumane tra il 1940 e il 1943 da Paolo Venanzi, che doveva conoscere bene, durante la Resistenza, assieme ad Osvaldo Ramous. Quest'ultimo lavorava al quotidiano di Fiume, "La Vedetta d'Italia", la cui tipografia si trovava in un vicolo nei pressi di Via Ciotta, dove abitava Paolo. In definitiva la nostra compagnia di prosa, fino a quando fu dilettantistica, si chiamò "Filodrammatica del DIMM", ed ebbe come capocomico e regista solo Paolo Venanzi; altri le affibbiarono denominazioni diverse come "Filodrammatica Fiumana" o più impropriamente "Gatti selvatici" e ancora, dopo il Maggio 1945 "Filodrammatica di Fiume", forse perché "Fiumana" era politicamente inopportuno, e ancora, da ultimo, a nostra insaputa, "Gruppo Venanzi". Il suo nome mutava ma i componenti eravamo sempre gli stessi. Finita la guerra, in una comunicazione del Comitato Popolare Regionale per il Litorale Croato- Servizio per l'Istruzione, datata 25 Maggio 1945, al nostro complesso di prosa venne affibbiata la denominazione "Compagnia Teatrale di Fiume".
Essa doveva operare in città assieme alla Compagnia Teatrale (croata) Nikola Car e l'Orchestra Teatrale. Ai tre gruppi era assegnato il compito di promuovere a Fiume l'attività artistico-culturale presso il Teatro Verdi (a quei tempi lo chiamavano ancora così) ed a tale scopo i loro responsabili vennero convocati per il giorno successivo, il 26 Maggio 1945, alle ore 14.
Chi venne convocato per il nostro gruppo? Io credo di ricordare che alla riunione con i massimi esponenti croati della Città, in cui si decise la formazione delle compagini che dovevano operare nel Teatro "Verdi" parteciparono Paolo Venanzi e Tullio Fonda. Tra i due ci dev'essere stato un passaggio di consegne. Infatti Paolo, pur frequentando la nostra Compagnia, era diventato caporedattore de "La Voce del Popolo". Nino Bortolotti, con maggiore esperienza e degno della nostra fiducia, che era stato da noi designato unanimemente ad accompagnare Paolo, non ne volle sapere; Nino litigò con Paolo e se la prese pure con noi che avevamo proposto tutti il suo nome, ma non c'era tempo da perdere, bisognava provvedere alla sua sostituzione.
Io ero escluso, ero politicamente inaffidabile.
Mi ero rifiutato giorni prima di partecipare a certi cortei che non mi garbavano ed ero stato biasimato. Avevo addotto il motivo che l'atmosfera mi appariva ostile agli italiani; non mi sembrava bello che certa gente nelle vocianti manifestazioni accomunasse tutti i fiumani ai fascisti che si erano macchiati di delitti; e poi c'era uno slogan che spesso veniva scandito e m'indisponeva moltissimo. Gridavano nella loro lingua:
"Gettateli fuori, gettateli fuori, noi non li vogliamo !"
Cosa significavano e a chi si riferivano? E poi, gettarli dove?
Con le notizie che filtravano, nonostante tutto dal circondario, le voci e le allusioni a fatti oscuri successi in Istria, c'era poco da stare tranquilli.
Nino per me era un punto di riferimento, ne avevo una grande stima perché era prudente e pacato ed aveva ragione, fino a quando le cose non si sarebbero chiarite e non si chiarirono mai, era meglio stare alla larga da ogni incarico di rappresentanza e glielo confessai tornando a casa, strada facendo. In una nota del dott. Djuro Rosic, datata 4 gennaio 1946, egli precisa di essere stato prescelto quale direttore del Teatro di Fiume. Erano passati 7 mesi dal maggio del 1945, in Città la situazione si evolveva in modo a noi sfavorevole.
Il Teatro stesso cambiò denominazione,si doveva chiamare "Narodno Kazalište Rijeka-Teatro del Popolo Fiume".
Noi italiani restammo male a tale notizia.

Bruno Tardivelli

(3 e continua)


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Il " DRAMMA ITALIANO" del Dramma Italiano


Caro Furio, dal notiziario di Tele-Capodistria ho appreso giorni fa dello spettacolo presentato dal "Dramma Italiano" del Testro Stabile di Fiume, nella nostra Città e in giro per l'Istria, per ricordare i sessant'anno della sua istituzione.
Ho cercato di saperne di più ed è saltato fuori questo articolo pubblicato sulla "Voce del Popolo" di Fiume una decina di giorni fa.
Mi interessava questo avvenimento perchè quando fu fondato il "Dramma Italiano" dentro c'ero anch'io. Se le cose stanno come si afferma, per le superiori esigenze della locale politica, la Compagnia Italiana poteva fare a meno di presentare una MEZZA VERITA' senza prestarsi ad equivoci, e scegliere qualcosa di ameno, almeno avrebbero fatto ridere la gente. Non lamentiamoci poi che qualcuno ce l'abbia con loro e con chi qui in Italia vorrebbe sostenerli. Peccato, hanno perduto una buona occasione per smentire certe voci con cui non ero daccordo e forse non hanno davvero tutti i torti, mi dispiacemolto !

Ti invio il testo integrale della recensione, fatta senza peli sulla lingua; bravo quel giornalista, c'è da levargli il cappello !
ciao, bruno tardivelli

Anche se è uno spettacolo che ha scene di grande pregio, questo Dramma Italiano - Kuca cvijeca koje leti, presentato ieri sera in un Teatro gremito di pubblico, non convince del tutto. La pièce ha inaugurato la nuova stagione della compagnia teatrale italiana e costituisce uno dei momenti più significativi inseriti nel programma delle celebrazioni del 60.esimo anniversario della sua fondazione. Sei decenni dunque, di interrotta attività teatrale, in parte vissuti con successo e momenti di gloria, in altra segnati da situazioni difficili, spesso contrassegnate da battaglie combattute per bloccare i vari tentativi di delegittimazione della realtà teatrale italiana di Fiume e dell'Istria. Il lavoro, lo ripeteremo, è stato scritto su commissione da Edoardo Erba, uno dei maggiori scrittori e drammaturghi italiani, il quale è ritornato in quest'occasione a Fiume, una realtà che aveva conosciuto un anno prima in occasione dell'allestimento dell'applauditissima e premiata Maratona di New York. Dramma Italiano - Kuca cvijeca koje leti ha intenzionalmente questo titolo bilingue e ambiguo: un titolo che risulta differente nella versione italiana rispetto a quella croata, ossia Dramma Italiano e Kuca cvijeca koje leti (La casa dei fiori che volano). A leggere soltanto la "parte croata" del titolo, la prima impressione che se ne ricava è di richiamo alla tomba di Tito. Fughiamo subito ogni dubbio: la recita non ha alcuna connotazione di questo tipo. Né contiene riferimenti al mausoleo del maresciallo scomparso nel 1980. La dicitura croata è ripresa da una frase (tradotta in croato) proferita dalla protagonista principale: Elsa, interpretata da una grande Elvia Nacinovich.
Le radici dolorose della Fiume di oggi
Un'apertura di stagione, dunque, all'insegna della nostra storia, che risale alle radici dolorose della Fiume di ieri. Uno spettacolo che va alla ricerca della memoria del passato.
La trama ci trasporta nel burrascoso 1948, alla vigilia dell'esodo. Per molti versi la guerra non è ancora finita. Ci sono gli strascichi. Pesanti strascichi. Il "contenzioso di Trieste" è ancora aperto: la situazione è piuttosto pesante. C'è la grande paura di un nuovo conflitto delle forze militari jugoslave con quelle americane, stanziate a Trieste.
Di riflesso a Fiume, come nel resto dell'Istria, la popolazione italiana vive momento terribili: è sottoposta a continue angherie e a pressioni. Tanta gente si ritrova a dover fare delle scelte dolorose. Occorre decidere se partire oppure restare. In tutti e due i casi si viene involontariamente "catalogati": nel primo come fascisti, nel secondo come comunisti. Una via di mezzo non c'è. Non esiste. Non è riconosciuta. Quelli che decidono di restare devono fare i conti con un'ideologia che si sta rilevando in tutta la sua brutalità.
L'esodo in scena per la prima volta
Certo. Questa è la prima volta, in 60 anni di storia, che il Dramma Italiano propone al suo pubblico una rappresentazione scenica sulla questione dell'esodo: ci si confronta con un pezzo di storia che riguarda da vicino la Comunità Nazionale Italiana. Negli oltre trecento allestimenti portati in scena dalla Compagnia a partire dalla stagione 1946/1947 fino ai nostri giorni, c'è stato un altro approccio su quest'argomento, per lo più di carattere indiretto, sfiorato attraverso il prisma (auto)biografico di uno degli intellettuali più illustri della nostra CNI, con Alessandro Damiani nel suo "Album di Famiglia". Una costruzione che non funziona del tutto
La pièce Dramma Italiano - Kuca cvijeca koje leti è proposta in due atti, sotto forma di tre quadri. Lo spettacolo ha un avvio promettente e interessante. Eppure qualcosa nella costruzione sembra non funzionare: nell'allestimento di Lorenzo Loris la scrittura drammaturgica di Erba non trova sulla scena la sua vera realizzazione. La regia di Loris è assurdamente statica, quasi "da vigile urbano". Sulla scena si alternano in continuazione due personaggi, appena ne esce uno, subito ne entra un altro. Magistrale è l'interpretazione di Elvia Nacinovich. Validissima quella di Mirko Soldano. Entrambi i due attori portano (consapevolmente) sulle spalle dei personaggi che interpretano tutta la rappresentazione.
Elsa ha perso il dono della parola. Una parte inconsueta per Elvia, che durante tutto il primo atto e fino alla metà del secondo, pronuncia soltanto fonemi, scanditi da movenze e atti corporali: che grande attrice. Mirko Soldano porta in scena una vena di freschezza, rendendo perfettamente l'idea al pubblico dell'ingenuità impostagli dal personaggio che interpreta. La ribalta è illuminata da luci a terra, in un susseguirsi di quadri (in realtà porte) scanditi dall'aprirsi e dal chiudersi. In più la scenografia è di un argenteo che ricorda il mare, l'acqua del mare di Fiume.
Per certi aspetti tuttavia non convince del tutto nemmeno il testo. Indubbiamente il lavoro di Erba è poetico: parla dell'anima; è molto cechoviano. Ma la ricostruzione storica viene lasciata in disparte e tutto si concentra sulle vicende umane di alcuni personaggi, in primo luogo Elsa. Di conseguenza soltanto attraverso la disgrazia capitata a lei (un'attrice che perde il dono della parola) e al doppio ruolo di Polan ("operaio" e "spia") si può leggere la storia della comunità italiana rimasta a Fiume, privata della sua lingua (la scomparsa di tutte le scritte e le insegne bilingui del '54), defraudata dei suoi diritti, svilita nella presenza numerica e nel peso politico e sociale.

Ciò che ci è parso paradossale è il fatto che in tutto il pezzo non ci sia nemmeno un riferimento alla tragedia delle foibe. Quali erano le nostre aspettative? Una denuncia più forte dei crimini commessi nei confronti di tante persone; crimini che fino a poco tempo fa erano avvolti nel silenzio e che tuttora, nella maggior parte dei casi, sono rimasti impuniti.

Una delle poche cose che danno un tono a questo triste affresco su Fiume e sul Dramma Italiano, oltre alle musiche di Bruno Nacinovich, è la scena finale in cui Polan e Dori, rimasti soli, approdano appunto alla compagnia teatrale. Una scena ben concertata e piena di movimento. I due ballano "senza confini", e di colpo, con un gioco di scenografie, si trovano all'interno dello "Zajc". Dori è piena di speranze. È ansiosa di fare l'attrice. Polan invece, è carico di paure. E non lo nega. Infatti dice: "Lo chiuderanno, il DI, dia retta a me. Tempo due o tre anni non ne sentirà parlare". Per fortuna la storia, quella vera, l'ha smentito. Speriamo per sempre.

Bruno Tardivelli 27.11.2006


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UNA GUERRA LAMPO

(seconda parte)


Era la fine dell'inverno 1941.
Un giorno udii mio padre dire alla Zia:
"Francesca xe meio che a Susak no la vadi più !"

La zia aveva un lasciapassare locale sul quale ero iscritto anch'io per andare lì a comprare qualcosa che costava di meno: uova, latticini, ortaggi. Da lì venivano a Fiume per acquistare vestiario, quello nuovo lo indossavano e quello vecchio o lo buttavano o, se non era indecente, se lo riportavano a casa in un fagotto.
Cosa stava succedendo? Il piccolo transito di frontiera era sempre esistito e le mlekarize avevano sempre portato nei loro grandi cesti sistemati sulle spalle i loro bidoncini col latte delle loro mucche da Zamet, Pehlijn e ancora da più lontano, da C'avle e da Grobniko, insieme al skoropic' (la panna cotta) e un po' di verdura della loro magra campagna, gli asparagi selvatici, le fragoline di bosco e le borovize (i mirtilli).
Venivano a piedi, camminando per la strada polverosa o fangosa, a secondo della stagione, con qualsiasi tempo, calzando le loro "papuze" di pezza, le calze grosse di lana grigiastra, ruvida. Filavano in casa la sera e lavoravano a maglia durante il lungo cammino d'andata e ritorno dal villaggio, passando attorno al collo il filo del gomitolo che tenevano in una tasca del grembiule azzurro, a fiorellini.

La Zia si girò stupita:
"Ma perché no se pol andar più a Susak? Volevimo giusto andar con la Mimiza e la Zora dala Madona de Tersatto" che el 25 casca la Festa dell' Annunciazion, ma la sa che questa xe una grande festa!."

Mio padre s'irritò.
"Ma cossa me importa de la festa !
Ma cossa ve ocore proprio andar da la Madona de Tersatto, cossa non ve basta le Madone che xe per tuta Fiume e per l'Italia!. "
" Ma noi andavimo sempre a Tersato !!"

" E alora mi ve digo che" oltre " no la deve più andar e gnanca parlar croato, anzi dimentichevelo, altrimenti i ne trasferise in Calabria, con tute le straze!
La vol capir che in ne spedise in Calabria?
Altro che andar Tersato!
A remengo andaremo per colpa vostra !"

La povera Zia si metteva dei segni di Croce.
"Ma per l'amor de Dio, cossa la me dixe ste robe, Tullio?
"Alora basta con ste storie, e ste pasegiade oltreponte, xe ora de cambiar musica, basta anche con sto croato e tegnì serado el beco !".

La conclusione di papà non ammetteva repliche e riguardava anche alla mamma Catina che meravigliata e impaurita cullava accanto al tavolo della cucina la mia sorellina Maria.
Sapemmo più tardi il motivo della sua sfuriata : papà era stato convocato dal Tenente della Milizia che gli aveva dato una lavata di testa e invitato, per il suo bene, a richiamare all'ordine le donne di casa sua perché era stato riferito che parlavano tra loro e con estranei in croato e ciò era inammissibile in una famiglia italiana…
Così erano i tempi e le disposizioni del Regime Fascista.
Infatti, quando venivano i nostri parenti dall'Istria, cugine, e nipoti già adulte, tra loro le confidenze e i pettegolezzi del paese venivano fatti in dialetto Istrocroato, una lingua che era un pastrocchio di croato, italiano e sloveno che solo loro capivano per non farsi intendere da noi ragazzi che stavamo lì ad ascoltare con la bocca spalancata e ci cacciavano fuori con una scusa qualsiasi, subito dopo i convenevoli.
Ma allora anche i muri avevano le orecchie e qualcuno, certamente dei vicini si era premurato di informare coi soliti spioni la Milizia che da noi si parlava in modo inammissibile. Nei pressi del ponte di Susak nelle settimane seguenti avvennero degli assembramenti. Certi provocatori, sicuramente imbeccati, se non comandati, apostrofavano con insulti gruppi di persone che sostavano oltre la recinzione del confine. Quelli rispondevano per le rime. In segno di spregio dalla parte italiana si lanciavano pezzi di pane secco per significare che i croati erano dei morti di fame e dall'altra parte si passò alle pietre. Intervenivano le rispettive polizie per sedare e disperdere gli esagitati e la situazione divenne tesa. Oltre il confine furono picchiati certi italiani che erano andati a comprarsi le uova o un pollo più a buon mercato e di qua alle povere mlecarize fu, dai soliti manigoldi, rovesciato il latte in mezzo alla strada e se ne tornarono a piangendo a casa.
Per un po' noi non avemmo più il latte e la frittata a buon mercato e loro i soldi per tirare avanti.

Tutto poi si tranquillizzò ma la situazione politica oltre confine era sempre più travagliata, fino a quando il governo jugoslavo, sempre traballante per i litigi tra le varie etnie, dal tempo in cui era stato assassinato il re Alessandro, fedele amico della Francia e degli inglesi, voltò gabbana e decise di punto in bianco di aderire al patto d'alleanza con la Germania e l'Italia.

Bruno Tardivelli 30.11.2006

Nota:
La 1ª parte é stata pubblicata il 3 ottobre 2006


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UNA GUERRA LAMPO

(terza parte)


Nella primavera del '41, il governo Jugoslavo, contrariamente alla politica che aveva condotto fino ad allora, nel timore di un'aggressione da parte della Germania e dell'Italia preferì aderire ad un'alleanza con loro, nella speranza di evitare il peggio e fu una catastrofe.
Scoppiò un putiferio, la gente che fin dai tempi dell'Austria aveva sentito parlare male dell'Italia non ne voleva sapere di quest'alleanza.
La Jugoslavia aveva fin dalla sua formazione gravitato sotto l'influenza anglo-francese in funzione anti-italiana e la questione di Fiume e della Dalmazia aveva ancora di più avvelenato i rapporti fra gli stati. Ci fu un colpo di stato dei militari per rinnegare il patto d'alleanza, così Germania e Italia decisero di intervenire prima che lo facessero gli inglesi.
La guerra italiana di Grecia andava male ed era condotta peggio. Gli italiani avevano dovuto ritirarsi in Albania.
Gli alpini della Julia erano stati sacrificati per risparmiare dall'annientamento il resto delle armate che rischiavano di essere buttate a mare; in Africa Settentrionale, dopo un successo iniziale erano ripiegati su Tobruk, in Africa Orientale il Duca d'Aosta con i suoi soldati combatteva, accerchiato da tutte le parti e senza mezzi, per salvare l'onore.
Peggio di così non poteva andare, dopo otto mesi di guerra. I tedeschi, padroni del continente europeo, dalla Polonia ai Pirenei, erano intenti a bombardare massicciamente l'Inghilterra per preparare uno sbarco che non avverrà mai!
Gl'inglesi ci avevano messo tra i piedi i popoli balcanici per salvarsi loro e fu l'idea geniale e per noi funesta di Churchill!
Pasqua cadeva in Aprile, forse l'undici. Un paio di settimane prima a Fiume fu proclamato lo stato d'emergenza. Nella fortezza di Santa Caterina si lavorava forsennatamente per approntare nuove difese, si udivano le esplosioni delle mine, giorno e notte per scavare fortini e trincee.
Avemmo la chiara sensazione, di punto in bianco che i tentacoli della guerra che ci sembrava tanto lontana ci avevano avvinto.
In città c'era grande apprensione.
Fu dato un ultimatum alla Jugoslavia, Fiume era in prima linea.
Da Scoglietto, alla Fiumara, a Riva Bodoli la popolazione fu invitata a sgomberare, furono piazzati nidi di mitragliatrice nelle finestre delle case e sulle terrazze prospicienti il confine.
Le persone non utili alla difesa della città furono consigliate di evacuarla. Molti furono trasferiti in Veneto, anche l'ospedale fu svuotato e i malati portati col treno ospedale altrove.
Mio padre fu, come tutti gli uomini validi militarizzato e doveva restare al suo posto. In un primo momento aveva deciso di mandarci tutti a Genova dalle sue sorelle che li abitavano insieme col nonno. La mamma con la zia Francesca non ne volevano sapere e preferirono andare in Istria, a Fianona dalla nipote Angelina, poi forse sarebbero andate a Cosliaco, dalla sorella Tonza (Antonia) o da Barba Jose, il fratello maggiore.
E noi tre fratelli dove saremmo andati ?
Eravamo in troppi per andare tutti da una parte e così papà decise che a Genova saremmo andati noi tre da soli.
Ci ammonì mille volte di essere educati, giudiziosi, mi diede il compito di essere d'esempio ai miei fratelli, di accettare tutto quello che le zie ci avrebbero dato, di ringraziare sempre, anche se non ci piaceva, e per amor del cielo di non fargli fare brutta figura, altrimenti guai a noi!
Con queste raccomandazioni, con il suo grande valigione di fibra, uno zaino da militare e dei fagotti, in un treno affollatissimo partimmo per Genova. Durante l'interminabile viaggio ebbi tutto il tempo per pensare a cosa c'era mai capitato tra capo e collo. Tutti erano convinti che la guerra sarebbe finita in poco tempo, al massimo un anno.
A Genova i nostri parenti furono sorpresi di vederci, mio nonno s'arrabbiò, era convinto che mio padre avesse esagerato, ritenne che non era proprio il caso d'impaurirsi degli jugoslavi; dov'era dunque andato a finire il proverbiale coraggio dei Fiumani e il loro spirito dannunziano ?
Io ero intimorito e non sapevo cosa rispondere.
Tutto sembrò risolversi in breve tempo, e facemmo ritorno a Fiume.
I miei amici che non erano sfollati erano stati mobilitati. In divisa di Giovani Fascisti erano andati a fare servizio d'ordine a Susak.
Qualcuno con la scusa di essere in divisa era pure andato a curiosare in un casino, anche se non aveva 18 anni e non faceva mistero delle sue impressioni. Quando furono smobilitati sfilarono per la Città e la gente li applaudì. Mi dispiacque di non essere rimasto a Fiume, avrei potuto vivere anch'io un'esperienza interessante fare cagnara con loro.
Ricominciarono le lezioni nelle scuole, qualcuno mormorava che la guerra continuava ad allargarsi e non si vedeva la fine………
Alla Centuria Corale il maestro Trevisiol , forse "per ordini superiori" ci faceva sempre cantare " A primavera comincia la partita…."
E il "bello" doveva ancora venire.
Camillo, il mio fratello minore, con la passione del calcio, pensava che si trattasse di una partita di pallone.
Mussolini ci aveva solennemente promesso che lui col suo alleato Hitler si sarebbero sbarazzati dei nemici in quatto e quattr'otto e invece di questa brutta storia non si vedeva la fine, allora o non ci aveva detto la verità o aveva fatto male i suoi calcoli…

Bruno Tardivelli 02.12.2006


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MALANNI e DOLORI

Con un misto di stupore e perplessità, noi, gente nata e vissuta sul confine apprendemmo, nell'Aprile del 1941, le disposizioni assurde che il Prefetto Temistocle Testa prese non appena la provincia di Fiume fu allargata a dismisura per comprendere pure la Regione Montana (il Gorski Kotar) che era alle sue spalle.

In Croazia, fino ad Ogulin, Karlovac, Knin, erano stati distaccati parecchi dirigenti italiani; come facevano ad intendersi con il personale di lingua croata non lo so, perché di quella lingua non capivano una parola. I ferrovieri fiumani che parlavano il croato erano tutti nei pressi di Fiume e diversi erano stati trasferiti nel Meridione come sospetti di simpatia per gli jugoslavi, specie quelli che avevano la moglie o parenti di origine sospetta per il Regime.

Ora noi potevamo andare a Susak esibendo la nostra tessera di Giovani Fascisti, purché munita di fotografia, i susaciani invece dovevano avere un lasciapassare che era concesso con difficoltà. Ciò che più li irritava era l'ordine venuto da Roma che il territorio annesso alla Provincia di Fiume doveva essere italianizzato.

Venne l'ordine che le insegne dei negozi dovevano essere scritte in italiano, si misero di punto in bianco, nomi italiani a tutte le vie della città, con gran disappunto e confusione di tutti, anche dei fiumani che di Susak conoscevano le vie col nome antico.

Apparvero delle scritte sui muri come
"Questa è Terra Nostra"(terra italiana),
"Qui si saluta solo romanamente".
"Qui si parla Italiano".

Si pretese che i ragazzi croati per iscriversi a scuola fossero iscritti alla GIL e furono inviati a loro insegnanti che non sapevano una parola di croato,anche da Napoli e dalla Sicilia così l'incomprensione era totale. Si obbligarono bambini e adulti di indossare la Camicia Nera.
Molti fiumani tacitamente disapprovavano.
Era follia pura, un comportamento da fanatici idioti, fu ripagato con crudeltà e sadismo al tempo debito dagli jugoslavi che si vendicarono in modo terribile con la "pulizia etnica" di Fiume e dell'Istria in barba a tutte le promesse di fratellanza e libertà e fu duraturo.
A loro confronto il comportamento dei fascisti fu roba da dilettanti.

Con estrema chiarezza lo testimoniano Mario Dassovich nel suo libro Fronte Yugoslavo 1941-'42" (a pag. 158), quelli di Anna Maria Mori e Nelida Milani in"Bora" e Graziella Fiorentin in "Chi ha paura dell'uomo nero?" per citarne solo alcuni.
Il malcontento allignava anche tra quei pochi croati che avrebbero potuto nutrire qualche simpatia verso l'Italia più che altro per motivi culturali.

"D'Annunzio, che non andava troppo per il sottile, diede retta ai fiumani che lo avevano chiamato nel Settembre del 1919 e non oltrepassò mai il ponte sull'Eneo, sebbene forse in cuor suo avrebbe voluto farlo per non mutilare il porto fiumano.
Nessuno dei papaveri romani volle dare retta nel '41 ai fascisti fiumani che sconsigliavano quegli eccessi nazionalistici di alcuna utilità e non facevano che rendere insopportabile e odiosa l'occupazione italiana.
In casa nostra la Zia sottovoce commentava quella situazione:
" Ma i xe mati pretender che quei de oltre parli in italian, se i xe croati! Ma nanche se li copa!"
E fu davvero così.
Dopo le prime volte, soddisfatta la curiosità a Susak non ci volli più andare, non mi piaceva l'ambiente e i miei genitori me lo sconsigliavano.
Eravamo facilmente individuabili, noi italiani, oltre che per la lingua anche per il modo di vestire, e poi Susak era piccola si conoscevano tutti e ci evitavano.
La nostra presenza "oltreponte" dava fastidio.

Molti ufficiali e funzionari italiani, venuti per servizio si erano stabiliti nei più bei siti di Susak, nel Boulevard, nelle ville che costeggiavano la scalinata di Tersatto, a Pecine, nei punti più ameni e panoramici in appartamenti requisiti allo scopo e fu un altro odioso errore, ma loro non capivano un accidente. Formavano un circolo separato dall'ambiente locale, avulsi dalla realtà nella quale vivevano e consideravano i croati gente molto riservata e forse un po' retrograda; la realtà però era un'altra. Per la maggior parte di questi era meglio non familiarizzare troppo con gli italiani, non si sa mai, non era prudente rendersi invisi ai propri concittadini, poiché il malcontento era grande e l'ostilità verso gli occupatori, spesso spocchiosi cresceva di giorno in giorno.

Si mormorava che l'occupazione avesse fomentato "oltre" una fastidiosa guerriglia e non erano dicerie. Giungevano all'Ospedale di Fiume militari feriti, eppure li la guerra, durata ben poco, doveva essere finita, così tali notizie non confortanti filtravano per la città.

Bruno Tardivelli 04.12.2006


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" SOGGIORNO FIUMANO 2005 "


(pubblicato "30 Gennaio 2006"con qualche piccolo taglio per renderlo più digeribile)

Sono ritornato a Fiume alla metà di Settembre per una ventina di giorni, ma la mia permanenza questa volta ha assunto un aspetto diverso.
Ho casualmente incontrato e conversato a lungo con un gruppo di concittadini "rimasti" della mia età o giù di li che mi hanno fatto l'impressione di trovarsi "esuli in patria" altrettanto come noi fiumani, sparsi per il mondo.
Essi, al pari di noi, mi sono sembrati sempre alla ricerca di un'introvabile identità, ormai smarrita nel corso della nostra turbolenta storia. Appartengono ad una sparuta comunità frammentata, polverizzata sparpagliata, quantitativamente insignificante nella grande città irta di torri dormitorio dall'altezza vertiginosa. Mi sono apparsi come una sfumatura un pò folcloristica in mezzo ad una folla estranea, per cultura, mentalità, usi, costumanze un tempo da noi vecchi fiumani, considerati forestieri e spesso sconosciuti.
Ho la netta impressione che conversiamo nel nostro dialetto Fiumano, tanto simile al triestino, solo tra noi, per il resto la lingua ufficiale è d'obbligo, altrimenti, chi mai ti capisce?
Concludo: probabilmente sarebbe più facile comunicare col cameriere del Bar che ci serve "il macchiato" o i clienti dei tavoli vicini in inglese o tedesco !
Vorrei tanto sbagliarmi, ma nel mio soggiorno ho colto l'impressione, già avuta altre volte, che nei riguardi della lingua italiana ci sia comunemente una specie di chiusura mentale che blocca sul nascere un dialogo paritario di comprensione, una coercizione sul "diverso" solo apparentemente occulta e nel nostro caso sul Fiumano italofono, perché si appiattisca e si uniformi al comportamento e alla mentalità della maggioranza.
E' il retaggio di una reminiscenza storica ?
L'affermazione di un diritto acquisito ?
Un timore avito di poter essere ancora sopraffatti ?
Un'antipatia congenita?
Una vendetta postuma ?
Un subdolo e preciso disegno politico non scritto da nessuna parte ma instillato da sempre nella gente comune con arte sottile e raffinata, facendo leva su pregiudizi antichi più sentiti delle formali enunciazioni legali e delle aspirazioni europeistiche?
Forse di tutto questo un po' !
Non nego che ci siano degli spiriti illuminati e accoglienti, ma nella vita pratica e in politica, quando si sommano i voti, contano molto di più quelli della maggioranza.

C'è un luogo della "Citavecia", (Citavecia per modo di dire, che ha perduto tutte le sue caratteristiche di dimesso folclore popolare) dove persiste in certe ore della giornata un angolo di autentica "fiumanità". Vi sono stato condotto da un paio di "fiumani autoctoni" che mi hanno rintracciato attraverso "La Voce di Fiume" che pure qui giunge portando notizie dei fiumani sparsi per il mondo.
Mi trovo circondato da una decina di attempati signori che non mi fanno sentire estraneo fin dal primo momento ed ai quali il mio anfitrione mi presenta in modo disinvolto.
"Questo xe el Bruno, quel fiuman dell'Italia che senza neanche conoserne sulla "Voce di Fiume" ne ga ringrazià perché se qualchedun sente parlar nel nostro dialetto ancora in qualche canton della nostra Città, xe per merito nostro !"
Una presentazione migliore non ci poteva essere, l'atmosfera nel nostro crocchio diventa cordiale ed addirittura confidenziale fin dal primo istante.
Io dell'accoglienza dei miei concittadini "rimasti" mi sento lusingato e commosso e l'emozione mi ha colto ogni volta che li ho incontrati, per il calore, l'attenzione e la simpatia che mi hanno dimostrato. Gliene sono tanto grato.
Non me ne voglia qualche lettore della "Voce di Fiume" per questo mio infervoramento e se mi rincresce rilevare che l'opinione sui "rimasti"di qualche articolista nostrano talvolta mi è apparsa, a distanza di ben sessant'anni ormai, ancora un po' pelosa.
Se è disposto a mettere da parte con buona volontà obsoleti pregiudizi, gli consiglio una "ciacolada" bonaria con gli interessati per riflettere sulla sua opinione.

Di che cosa abbiamo parlato ?
Dei nostri problemi, della nostra esistenza, delle esperienze particolari che hanno toccato i più cari e sacri sentimenti d'ogni Fiumano, esule o rimasto, indifferentemente.
Una frase che spesso da più parti ho sentito ripetere dai miei interlocutori è questa:
" No sta creder che per noi la vita sia facile.
Voi che se andà via, ghe ne gavè provà de cote e de crude e se gavè rifatto la vita con gran sacrificio ma anca noi qua ghe ne gavemo gustà de crude e de cote e gavemo dovù ricominciar tuto da capo, come pesci fori dall'acqua!
Bela la ne ga tocà a noi fiumani, noi e voi, tuti quanti ! "
Mi coinvolge questa condivisione del nostro destino.

Comprendo questi concittadini rimasti a cui mi lega una comunanza di indefinibili sentimenti per una speranza svanita.
Aleggia su di noi una delusione per le numerose incomprensioni, le belle promesse enunciate e poi sempre rinviate, da una parte e dall'altra del confine e nel frattempo col fluire degli anni abbiamo perso lungo il cammino, i nostri vecchi, gli amici che hanno anch'essi sperato e sofferto ed ora non ci sono più.
Finalmente riposano in pace !
Che cosa ci rimane ?
Ci unisce il sentimento d'essere originari o discendenti di gente semplice e laboriosa, una trascurabile entità e perciò inerme, che il destino ha voluto far nascere in un piccolo lembo di terra dove ha dovuto pagare errori per colpe non sue, di ambizioni malsane venute da lontano.
E' forse questo disorientamento, questa frustrazione il motivo della scarsa coesione che c'è anche tra una parte dei "rimasti" in cui mi sono imbattuto e si tramuta in una vana, indefinita e deludente attesa che amareggia.
Prigionieri del nostro passato, In tale stato d'animo i fiumani più anziani cercano sempre di contarsi e d'incontrarsi, esuli e rimasti, per parlare di ciò che ormai è perduto o di quello che per loro sembra irraggiungibile.
Si rimprovera ai governi italiani di avere per troppo tempo trascurato la minoranza italiana di quei luoghi, pur di normalizzare e promuovere le buone relazioni economiche con la Jugoslavia, ed in seguito con gli stati nati dal suo smembramento, fin troppo suscettibili al riguardo dei diritti delle altre nazionalità presenti sul territorio, ossessivamente memori nel rinfacciare agli Italiani un estremismo di cui c'è da noi ancora una traccia che oltre confine viene ad arte amplificata a dismisura come uno spauracchio e un pericolo incombente.
Ancora oggi pur riconoscendo l'aumentato impegno del governo italiano a beneficio della sua minoranza nella Venezia Giulia, c'è al riguardo insoddisfazione e parecchi si sentono negletti. Può darsi che abbiano il loro peso su tali sentimenti pure problemi economici e il fatto che da lì molti siano costretti a venire da noi in cerca di un'occupazione per sollevare il loro bilancio familiare.

A dire il vero mi sembra strano che per parlare tra noi di fatti così particolari, il nostro ritrovo non sia il Circolo Italiano di Cultura, aperto ogni giorno nella bella e prestigiosa sede di Palazzo Modello, poco distante da dove ci troviamo;
voglio essere sincero con loro e a questi amici glielo dico, anche a costo di essere indiscreto. Mi accorgo così di avere toccato un tasto delicato che crea qualche imbarazzo.
Mi parlano di certe beghe che io, non addentro nei particolari non comprendo e che mi appaiono come dei marginali puntigli personali, così mi rammarico con loro solo per l'occasione perduta d'incontrarci in un ambiente bello, accogliente e tutto sommato più familiare dell'anonimo bar in cui ci troviamo.

Ce ne andiamo dal ritrovo e facciamo conversando in gruppo, come ai bei tempi, sul far del Mezzogiorno, un giro per il Corso.
Non sembra Ottobre, è una splendida mattinata, "ciacolemo" animatamente quando una coppia attempata, dall'aria forestiera, ci affianca, si volta, poi si ferma quasi sbarrandoci il passo.
La signora ed il signore ci sorridono, poi lui con fare gentile ma esitante ci apostrofa:
"Scuseme, ma voi sé Fiumani !"
Il più loquace tra noi conferma:
"Si signor, semo fiumani de Fiume! "
"Ma che piacer, anche mi son fiuman, ma abitemo in Svezia."
"Ah che bel, sé vegnudi a pasegiar ancora per el Corso?"
"Si , come una volta !"
Io, vista la confidenza mi faccio ardito:
"Anche la signora la xe fiumana ?"
"No, la xe svedese."
"Ma la capise l'italian ?" m'informo io.
"No, no, l'italian no, la parla solo in fiuman !"

Ridiamo giulivi di quella spassosa battuta; in quel momento dimentichiamo tutto e ci sentiamo tutti, solo "fiumani", quelli d'una volta.
Raramente sono stato più commosso.
Ricordo quest'episodio con un sentimento di nostalgica dolcezza e simpatia verso tutta la mia gente, qualunque essa sia.
Perché proprio noi, dunque, tra i più tartassati dalle vicende della storia dovremmo dividerci per futili contese, antipatie, gelosie o banali risentimenti antichi che ormai hanno fatto il loro tempo, sono stati superati da altri eventi e ciascuno secondo le proprie capacità e le alterne fortune ha saputo rifarsi una vita onorevole, risalire una china tanto difficile, dall' abisso in cui eravamo precipitati?

Ai fiumani "rimasti" che stimo e considero ricordo che il Circolo Italiano di Cultura merita di essere apprezzato e considerato, è il loro ritrovo naturale.
Esso rappresenta per tutti noi ma soprattutto per loro e per i loro figli un bene insostituibile se hanno intenzione di conservare la loro identità.
A loro spetta il compito di sostenere con la frequenza e la collaborazione tale proposito, senza ignorare che in caso contrario la loro presenza e la loro attraente sede potrebbero essere messe in dubbio. Nelle cose di questo mondo l'indifferenza e le discussioni irrilevanti non hanno mai costruito nulla di positivo; si trova sempre chi sa cogliere al momento opportuno l'occasione per trarne un proprio vantaggio.
La coesione delle minoranze tedesche, ladine e slovene presenti in Italia ai nostri connazionali di Fiume dovrebbe ben insegnare qualcosa, esse nei momenti decisivi sanno essere solidali per far valere le loro istanze nei confronti delle Autorità Italiane.
Forse la maggior parte dei nostri rimasti" non ne è informata e invece sarebbe utile che ne fosse edotta e ne traesse esempio.
Le recriminazioni personali sono inutili e nessun diritto o beneficio è mai piovuto dal Cielo, nemmeno la Manna dei tempi biblici.
I Rapporti umani sono sempre incerti e funesti se non prevale il senso del superiore interesse comune che deve sovrastare le beghe personali.
Il civile confronto farà prevalere a tempo opportuno la soluzione che appare migliore per gli interessi della maggioranza.
L'abbandono del campo non è ammesso per chiunque, pena la sua scomparsa dalla scena.

Alla Messa Domenicale a San Vito si esibiva la Corale di Spinea (VE) che la sera prima aveva ottenuto col suo repertorio, calorosi applausi dal numeroso pubblico nel Circolo Italiano. Sono belle e lodevoli queste presenze provenienti da varie parti d'Italia e vanno incoraggiate, ci fanno sentire più vicini e soprattutto solidali.

Il mio soggiorno volge al termine e sono pervaso da sentimenti contradditori. Cari e struggenti ricordi s'alternano a momenti d'insoddisfazione e disappunto. Ritorno nel Circolo per accomiatarmi da coloro che con encomiabile impegno e sacrificio provvedono alla sua conduzione, superando ogni inciampo con la quotidiana buona volontà.
Mi fermo a sorbire un "cappuccino" nel bar e odo un tramestio insolito: sciama per il corridoio un gruppo numeroso di giovani dall'aria euforica.
Osservo le loro mosse sulla soglia dello splendido salone in stile Liberty in cui sono entrati ed il custode, indicandomi il distinto signore che sta familiarizzando in mezzo a loro mi sussurra: "Quello è il nuovo Console Italiano, si chiama Rustico."
E mi spiega che avrà inizio in quel luogo la premiazione di un Concorso per la diffusione della Lingua Italiana bandito dalla "Dante Alighieri".
Mi si allarga il cuore.
Ho la conferma che questo benedetto Circolo Italiano è vivo, assolve in modo meritorio al suo compito istituzionale, come avevo sentito dire !
Peccato che non mi facciano compagnia in quel momento i miei amici fiumani.

Piove.
Sulla strada, all'entrata, sotto la tettoia, sosta un capannello di ragazzi disinvolti con lo zaino dei libri sulle spalle, scherza. In mezzo a loro c'è una giovane donna, forse un'insegnante; parlano nel nostro dialetto.
Mi soffermo a guardarli, mi fanno tenerezza, vorrei familiarizzare, dire loro quanto fa piacere ad un vecchio esule come me udire la parlata fiumana per le strade della mia città, ma forse non mi capirebbero, mi prenderebbero per matto.
Mi limito a dir loro:
"Ciao, ragazzi !"
Mi guardano di sfuggita e qualcuno sorridendo mi risponde:
"Ciao !"
Mi basta, sono felice.
Sono questi ragazzi la nuova la linfa vitale, la speranza che il Circolo Italiano di Cultura di Palazzo Modello continui a fiorire e a prosperare.

Spero di ritornare a Fiume, vorrei conoscerli e ambirei rivedere "gli amici rimasti" nel bar del nostro Circolo, per sorbire con loro "un macchiato", tra "una ciacola e l'altra".

Bruno Tardivelli


Cara "Voce di Fiume"

Sono stato nella mia Città, ho fatto degli incontri inusuali e ho scritto le mie impressioni. Alla fine mi è venuto un dubbio: forse sono stato troppo sincero e ho toccato un tasto delicato. Sono stato inopportuno ?
Leggendo l'articolo del dott. Lekovich su "La Tore" 2005, mi sembra che sia del mio stesso parere. Sarà una casuale combinazione ?
Non vorrei reggere lo strascico a nessuno, è solo una mia opinione.
Lascio a voi decidere, che la sapete più lunga di me.

Cordiali saluti.
Bruno Tardivelli


***

La Voce di Fiume 30 dicembre 2005

Pagine di vita vissuta: i riti della gioventù

Il fascino degli universitari


Il Corso, era il luogo per il rituale passeggio quotidiano della gioventù, rigorosamente separata in gruppi più o meno numerosi maschili o femminili, a loro volta distinti secondo le scuole che si frequentavano o il censo delle famiglie.
Vi si distinguevano e facevano molto moda i Gufini, cioè i giovani universitari con i loro caratteristici cappelli appuntiti di foggia medioevale che variavano di colore secondo la facoltà frequentata, nelle divise impeccabili, odorosi di lavanda e acqua di colonia. In mezzo a loro, ammassati come fuchi, una o due smorfiose, disinvolte e forse navigate fanciulle che si contendevano i complimenti, le occhiate languide, i vezzi di quei cicisbei. Essi cercavano di ammaliarle con la loro cultura romantica intrisa di classicismi o ancora con le spiritosaggini lette sull'ultimo numero del giornale satirico: il Marc' Aurelio. Nessuno però poteva gareggiare, quando entrava in scena il figlio del Colonnello o del Commissario, che tra loro si evitavano sempre e venivano da Roma o da Milano. Raccontavano le ultime barzellette sentite da Totò, Macario o Rascel e prima di esibirsi al Corso chissà quante volte le avevano recitate davanti allo specchio, magari con la consulenza di "mammà".
Noi, più giovani, imberbi, non liceali o universitari, figli di comuni mortali, squattrinati, in gruppo, transitavamo rallentando il passo, silenziosi zotici, accanto a quest'eletta corte che emanava effluvi di Brillantina Linetti o di Violetta di Parma e dalla quale uscivano spesso ricercate esclamazioni, risatine contenute e sardoniche, gridolini e squittii delle disinvolte pulzelle.
Volevamo captare il senso e l'oggetto dei loro discorsi che a nostro parere dovevano essere le notizie sensazionali del giorno e magari era invece la consueta banalità dettata dalla vanità giovanile in vena di spacconate ed esibizionismo, nel luogo più frequentato della città. Un giorno però… avvenne durante la passeggiata del Sabato un fatto sensazionale: un Gufino, rampollo di elevato rango, un tracagnotto per il quale mammà avrebbe dato tutti i suoi averi e l'onore ma non il blasone, se lo avesse potuto concepire più alto di due spanne, si presentò alla colta e inclita brigata con al fianco una giunonica valchiria che lo sovrastava d'una testa.
Le porgeva cavallerescamente il braccio destro che lei sfiorava con la mano guantata di bianco merletto. Erano ambedue in divisa, lui, da Giovane Universitario Fascista, certamente confezionata su misura presso la Premiata Unione Militare di Mastro Ciro, del quale Babbo, cioè Sua Eccellenza, era un assiduo cliente, in grigioverde, stivaloni da cavallerizzo, rigidi, lucidissimi, con speroni, cappello goliardo nero, il colore degli studenti in legge, pieno di ninnoli appesi, argentati e dorati, con il solito tappo di spumante sulla punta, pugnale dalla guaina nichelata e l'impugnatura dorata appeso al cinturone, una vera sciccheria!
Lei, una biondona dalle trecce lunghe fino alla cintola in divisa color kaki della Hitlerjugend, dal taglio ricercato che ne esaltava le forme procaci, le calze velate, le scarpine col tacco basso, però di lacca nera con la fi bbia dorata. Risaltava al suo braccio sinistro la fascia rossa con la grande croce uncinata nera, l'emblema nazista.
La coppia, conscia di suscitare sensazione con la sua presenza, avanzava fiera, con il petto in fuori e col sorriso fatuo e malizioso, conversando sottovoce, naturalmente verso il crocchio di quei cicaloni in mezzo ai quali vezzeggiavano le due Giovani Italiane: la camicetta di batista bianca larga per non mettere troppo in evidenza le loro forme, fatta in casa, la gonna nera plissettata che arrivava al polpaccio, le scarpe ortopediche col tacco di sughero, calzini bianchi, un baschetto nero in testa messo sulle ventitré, nulla di marziale!
Ad un tratto il loro frivolo chiacchiericcio si zittì e un moto di stupore e di disappunto si stampò sui loro volti: avevano scorto l'Enzino con la sua dama teutonica, sconosciuta a tutti.
"Ma dove l'aveva pescata quel frescone, quello stroppolo rivestito da cioccolatino, quel pallone gonfiato, una stangona simile e per di più tedesca e se la portava fino al Corso per far ciccare gli amici e tutta Fiume?"
Questo fu certamente il pensiero, in quell'attimo, della brigata di elegantoni, mentre i due si avvicinavano pronunciando parole in tedesco intercalate da sonori "ja,ja". In un attimo fu tutto un risuonare di saluti, esclamazioni ammirate, uno sbattere sonoro di tacchi, inchini ad angolo retto, baciamano all'ancien regime e alla faccia dell'ordine impartito dall'alto che perentoriamente stabiliva: "Qui si saluta romanamente!"
La biondona si esprimeva solo in tedesco e l'Enzino faceva da interprete tra il gruppo e lei, che sorrideva a tutti, muovendo altezzosa il capo e facendo ondeggiare le grosse trecce color pannocchia sul prosperoso seno.
Se ne andarono presto tutti nella prospiciente sede del GUF per togliersi dagli occhi di tutti quei minorenni plebei indiscreti, forse a brindare con la bella straniera alla sua salute e alla immancabile rapida vittoria del grande alleato nazista.
Chissà se le due brunette riccioline, un po' paffutelle, avranno seguito quello stuolo di gagarelli in divisa che le avevano corteggiate con passione fino a quando quello scemo di Enzino non si era rimorchiato quella gnocca slavata, quella giraffona con le efelidi sul viso davanti alla quale tutti, pure il Sandrone, che sembrava tanto maschiaccio, si erano sciolti come il gelato, facendo la figura dei perfetti imbecilli! Per le due Giovani Italiane sarebbe stato meglio ripiegare su altri spasimanti meno blasonati ma più gagliardi, come gli allievi del Nautico, che avevano la fama di gran casinisti contestatori, la Rakoviza (il berretto blu degli ufficiali) con lo stemma dorato della Marina, piantata di traverso sui capelli un po' arruffati, sfacciati quel tanto che basta per essere simpatici, disinibiti e decisi con le ragazze. Loro erano almeno più dignitosi.
Già al tramonto, ragazzine e signorine, a gruppi, sciamavano verso casa. Eravamo in parecchi a percorrere la stessa strada: io, Raoul, Piero, studenti;Virgilio e Livio, fattorini; Rolli garzone di barbiere e Aldo, portiere.
Era tutto il pomeriggio che non mangiavamo e dopo la scalmanata del premilitare, la passeggiata per il Corso, sentivamo veramente appetito; allora c'era il solito provocatore che usciva col discorso sadico:
"Muli cossa dirii de una terina de patate e radicio in salata?"
"Magari anche con una testa de zivòla"- continuava un altro.
"E una struza de pan" - aggiungeva un terzo.
Si udiva allora la voce irosa di quello che maggiormente sentiva i crampi della fame:
"Ma andè in mona, cossa non gave altro de parlar!"
Finiva con un gran schiamazzo.
Il gruppo mano a mano si assottigliava; il viale Camicie Nere era ancora più buio con le chiome dei suoi enormi platani. Le fioche luci delle lampade schermate per l'oscuramento proiettavano al centro della strada una luce giallastra. Si procedeva incerti. Chi era solo fischiettava per farsi compagnia e per annunciare la sua presenza. Non c'erano automobili, passava qualche raro ciclista, la bici era un lusso, qualche carro trainato da un cavallo col lume a petrolio appeso dietro, che ballonzolava incessantemente.
Si sentiva venire da lontano il rumore dei passi cadenzati di scarponi chiodati: era la ronda militare. C'erano ancora tutti i compiti da fare e da studiare perché ai professori poco importava che ci fosse il Sabato Fascista, quando c'era il programma da ultimare e bisognava darne ragione al preside, ma tanto l'indomani era domenica e studiare era permesso, lo diceva anche il confessore, non era un lavoro manuale!
Mi alzavo presto la mattina della domenica, mio padre diceva che con la mente fresca e riposata si apprende meglio e io mi mettevo a studiare fino alle 11 meno 10. Correvo poi a Messa. Mi trovavo davanti all'entrata della chiesa superiore dei Cappuccini con i miei amici. Andavamo a sistemarci vicini all'altare, nei banchi laterali riservati all'Azione Cattolica, se mancava qualcuno andavo a servire Messa e dopo esserci intrattenuti alla fine per qualche minuto con Padre Gabriele ce ne andavamo a passeggio per il Corso, soffermandoci davanti al bar Roma, il ritrovo abituale di tutte le clape (gruppi) giovanili.
Passavamo così una mezz'oretta, ci mettevamo d'accordo per trascorrere il pomeriggio assieme e verso la mezza ritornavamo a casa.
In Piazza Regina Elena, al bar Piva, si attardavano ai tavolini, per bere l'aperitivo, l'elite fi umana, gli ufficiali con la sciabola lucente al fianco, belle signore con la volpe attorno al collo, signorine in cerca di un buon partito, qualche Gerarca, gli immancabili studenti del GUF, figli dei notabili della città, tutti in un atteggiamento un po' annoiato e sonnacchioso, fatuo, in attesa dell'ora di fare ritorno a casa per il desinare.

Bruno Tardivelli


***


Siamo fiaccole di vita - Siamo l'eterna Gioventù
che combatte dove il DUCE vuole,
dove ROMA ci chiamò !

ESIBIZIONI SCIOCCHE 1942 - parte 1ª

Nei pressi di Fiume, a Mattuglie, era di stanza un battaglione della Milizia Fascista composto di Fiumani e gente di Abbazia e Laurana.
I Militi, tutti nativi del posto, conoscevano bene gli elementi con cui avevano a che fare, comprendevano o si arrangiavano a parlare il dialetto slavo del Carso. Essi si comportavano correttamente, senza provocazioni e con una certa tolleranza verso chi non aveva atteggiamenti pericolosi. Sembrava che non fossero mal visti e vivevano tutti abbastanza tranquilli, apparentemente tollerandosi a vicenda. I confidenti al Federale riferirono la situazione di quel territorio in termini equivoci, adombrando il sospetto che militi locali fossero poco affidabili, per la loro origine locale, dialogavano con la popolazione; andavano all'osteria del paese e non davano fastidio a chi grane serie a loro non ne dava. Giunse un ordine da Roma : il Battaglione al completo, con tutti gli ufficiali fu trasferito da un giorno all'altro il più lontano possibile: in Sardegna, con disappunto dei Militi, che però in questo modo salvarono la pelle e il rimpianto postumo dei paesani di Mattuglie e di Giordani.
Furono rimpiazzati da una formazione di emiliani e toscani, fascisti sfegatati, sulla cui affidabilità e intolleranza non si poteva minimamente dubitare e la cuccagna finì per tutti.
Fu in tale epoca che avvenne la formazione della "Colonna Servidori" pianificata dal Federale con lo scopo di organizzare delle escursioni "suis generis" per azioni punitive nei confronti di coloro che oltre confine della Fiumara davano man forte ai partigiani comunisti.
So bene, per averlo constatato di persona, che lo scopo punitivo non era all'inizio dichiarato esplicitamente, anche se in fondo l'intenzione era quella.
Veniva detto che i fascisti fiumani avrebbero portato con la loro presenza la solidarietà della città di Fiume ai soldati Italiani proditoriamente attaccati dai ribelli.
Alcuni miei amici con estrema leggerezza, ignari degli obbiettivi che tali "escursioni" comportavano parteciparono alla prima di queste spedizioni che ebbe come meta Mrzla Vodica, Crni Lug , Delnice, cioè nei territori che erano oltre il vecchio confine. Le prime due località croate erano state ribattezzate Acquafredda e Bosconero, traduzione letterale in italiano di quei luoghi, e a noi fiumani tali insensate iniziative facevano un pò ridere e invece era tragiche.
Si, facevano un po' ridere, ma durò per poco tempo, ora è da più di sessant'anni che per l'Istria e pure per la Venezia Giulia attuale i nomi di certe località fanno sorridere chi ne conosce le origini, ma pazienza, nazionalismo, e umoristica acquiescenza, dappertutto sono termini inconciliabili, uno esclude l'altro.
I miei amici mi raccontavano di questa specie di poco avventurosa escursione a bordo di camion militari, con i moschetti carichi sempre imbracciati, per strade solitarie in mezzo a densi boschi di abeti e di faggi.
Ribelli non ne avevano visti, erano stati in mezzo ai nostri soldati, consumato il rancio insieme a loro, dormito per terra una notte sul pavimento di legno di un edificio che doveva essere stato un scuola. La gente del posto se ne stava in casa e li guardava in modo strano, sembrava spaurita. Quasi, quasi mi dispiacque non essere andato con loro perché avrei provato un'emozione fuori dell'ordinario. In fondo che male c'era andare a dimostrare ai soldati che solidarizzavamo con loro, tanto tra poco a militare ci saremmo andati pure noi. Dopo una decina di giorni l'occasione venne e con i miei amici ci offrimmo di partecipare a quella che a noi sembrava una gita fuori dell'ordinario. Non sapevamo quasi nulla di ciò che bolliva in pentola fuori di Fiume e chi sapeva si guardava bene dall'aprire bocca.
Non mi consta che ci fossero delle vere e proprie precettazioni, venivano accettati i giovani che avevano fatto il premilitare, come noi, avevano fatto i tiri col fucile ed erano della classe prossima alla chiamata alle armi.
C'erano Virgilio, Giulio suo fratello presto in partenza per il corso ufficiali a Spoleto, Nevio, Piero, Raoul, Oscar, tanti altri ragazzi del Corso e dell'Oratorio per lo più studenti, qualcuno si era fatto dare la giornata libera e pagata dal lavoro per partecipare alla "gita".
Ci trovammo in Piazza Dante che era ancora buio, faceva abbastanza freddo, davanti alla sede del Fascio Giovanile e andammo ad armarci di moschetto.
Veramente proprio in ordine le nostre armi non erano, qualcuno trovò delle palline di carta o una cicca dentro la canna del moschetto e l'ilarità che faceva sorgere un tale fatto era proprio fuori luogo; usandole senza alcuna manutenzione facilmente ci sarebbero scoppiate fra le mani al primo colpo. Non eravamo però tanto incoscienti noi quanto gli adulti che ci trascinavano in quelle imprese con una leggerezza inconcepibile.

bruno tardivelli 15.12.2006

(continua)


***


ESIBIZIONI SCIOCCHE 1942 - parte 2ª

Eravamo tutti "gasati", non vedevamo l'ora d'iniziare "l'Avventura"
C'era però chi al premilitare aveva saltato o marinato le istruzioni sull'uso delle armi e non sapeva dove s'infilasse il caricatore. Teneva in una mano il moschetto e nell'altra i proiettili. Imbarazzato stava guardando cosa facevano i suoi compagni che si sbellicavano dalle risa e lo canzonavano dicendogli che se non sapeva dove metterli quei proiettili se li mettesse nel culo, tanto assomigliavano alle supposte !
Urlando invettive, condite da parole oscene, il graduato che ci comandava malediva l'ora che simili imbecilli erano dovuti capitare proprio a lui, egli ci ordinò di mettere la sicurezza all'otturatore per non ammazzarci fra noi ancora prima della partenza; non conosceva il nostro nome e non gli interessava saperlo; ci apostrofava con un unico epiteto:
" Tu, coglione !"

Salimmo sul cassone del camion come pecore, seduti uno accanto all'altro sulle quattro panche che vi erano sistemate. Il telone dovette essere sollevato da tutte le parti, appena fummo fuori della città; il buio si stava diradando.
Tre autoblindo: in testa, in mezzo e in coda alla colonna ci scortavano. Ci sembrava di essere i pionieri che vedevamo al cinema o sui giornalini a fumetti, invece eravamo dei ragazzi sciocchi in cerca di avventure, capitanati da fanatici birbanti.
Un milite, con l'elmetto aveva posato la sua mitragliatrice leggera sul tetto della cabina, ci voltava le spalle e osservava la strada, mentre noi seduti di traverso, dovevamo osservare i lati della carreggiata tenendo il moschetto con la canna appoggiata sulla sponda del camion, come se da un momento all'altro dovessero spuntare a cavallo gli indiani.
Mi ricordo ancora molto bene che ad un tratto il milite si girò verso di noi e ci avvisò che se il camion si fosse fermato e avessimo udito degli spari o delle esplosioni, avremmo dovuto saltare subito giù dal cassone, oltre i fianchi e dileguarci dalla strada perché sul mezzo costituivamo un bersaglio facile. Aggiunse, con un sogghigno:
"Se questi manigoldi vi prendono, vi tagliano le palle e ve le fanno mangiare !"

Rimasi impressionato da quelle parole, ma Virgilio che mi era seduto accanto ci rassicurò: eravamo in tanti e non c'era proprio nulla da temere, i ribelli non erano poi così stupidi da attaccarci, perché avrebbero avuto la peggio loro e gli abitanti dei paesi attraverso i quali passavamo.
La nostra colonna era molto lunga, ci saranno stati una ventina di autocarri e su ciascuno eravamo in venticinque giovani babbei.
Il Segretario Federale, Genunzio Servidori con l'elmetto, la sua divisa nera, il cappotto di pelle nera, armato di mitra, uno dei pochi che ce lo aveva e lo portava a tracolla sul petto, sfrecciava avanti e indietro, lungo la colonna sulla sua Moto Guzzi 500, seguito da un altro ufficiale, per rassicurarci e noi lo salutavamo con grida e cenni.
Poi qualcuno intonava l'inno di battaglia

All' armi, all'armi
All'armi siam Fascisti
Terror dei comunisti!
Ribelli,dove siete?
Venite un poco fuori!
Vi aspettano i Fascisti
Di Nunzio Servidori!

Veramente io speravo che quelli se ne stessero buoni. buoni perché noi avevamo solo cinque cartucce a testa e mi veniva in mente quello scemo che non sapeva nemmeno da che parte si introduceva il caricatore nel moschetto. Non che io ne sapessi molto di più, anche se ero andato a fare il tiro a segno nel cortile della Milizia per sparare non più di una mezza dozzina di colpi.
Col telone alzato sui fianchi e davanti, per dare la visuale al mitragliere, eravamo esposti all'aria, faceva un freddo cane, Per fortuna mi ero imbottito di carta sotto la maglia, ma avevo le ginocchia e i piedi gelati e li battevamo per terra cercando di scaldarli.
Ma che desolato, quanto poco ospitale e misero sembrava quel territorio che era stato annesso alla Provincia di Fiume !
Mi sembrava che l'Italia non avesse fatto proprio un buon affare.
Finalmente, dopo un paio d'ore e anche più giungemmo alla nostra meta: eravamo a Gerovo. Non sapevamo per la verità la posizione nella quale eravamo, la conoscevano solo coloro che lì ci avevano condotto fino a lassù, a casa del diavolo. Quando andai a cercare sulla carta geografica quel luogo mai sentito nominare rimasi stupito che ci eravamo allontanati tanto da Fiume.
Più tardi quasi tutti gli adulti, che erano in divisa fascista, mentre noi giovani con i vestiti a tutti i modi, sembravamo l'armata Brancaleone, rimontarono sui camion e si allontanarono, annunciado che sarebbero recati in altro paese che si chiamava Presid, mentre noi saremmo rimasti a Gerovo al aspettarli.
Alcuni militari per rifocillarci portarono verso mezzogiorno delle ceste di pagnotte e ce ne diedero un quarto a testa con un formaggino e una sigaretta Milit, non c'era proprio da sguazzare!
Le Milit erano le sigarette che l'Esercito Italiano passava alla truppa e le fumavano solo gli squattrinati che non avevano di meglio.
M.I.L.I.T. era comunemente interpretata come la sigla di
"Merda Italiana Lavorata In Tubetti."
Tale difinizione diceva tutto sulla qualità del tabacco e il suo aroma. Chi non aveva altro, ed era la maggioranza, si fumò la sua Milit, dapprima facendo le boccacce ma poi ci si abituò.
Nel paese non si vedeva anima viva, eppure qualcuno ci abitava perché fumavano parecchi camini e dietro alle finestrelle delle casupole si riusciva intravedere qualche ombra fuggevole che passava accanto ai vetri.
Sicuramente non eravamo dei gitanti graditi.
Restammo sempre fermi in piazza, con quella ventina di autocarri finchè non ritornarono nel pomeriggio coloro che si erano allontanati e che di armi s'intendevano più di noi, assieme al Federale.
Chiedemmo dov'erano stati e ci risposero che erano andati a sistemare delle faccende. Vista la loro reticenza non insistemmo, in fondo eravamo giovani e dovevamo in quei frangenti solo ubbidire, senza discutere.
L'avventura finì così, ritornammo a Fiume che era già scesa la sera cantando inni guerreschi.

Bruno Tardivelli 17.12.2006

(continua)


***


ESIBIZIONI SCIOCCHE 1942 - parte 3ª


Non tardò molto che ci riconvocarono di nuovo, ma in questo frattempo qualcuno a scuola o all'Oratorio mi aveva posto una domanda che mi mise in imbarazzo:
"Ma dove andè con quei camion?
Non andè miga "oltre" a brusar le case?"
Io e i miei amici non ne sapevamo nulla. Accennando tra noi ad una tale ipotesi ci parve strano che la Milizia ci portasse in giro "oltre", per fare gli incendiari. Quelle cose se mai erano azioni da ribelli, da fuorilegge e da indiani, mica da italiani che andavano per il mondo a portare la civiltà, sopprimere la schiavitù, mettere ordine e legalità dove non esisteva!
Così ci avevano insegnato a scuola e nelle adunate. Le crudeltà erano cose barbare e indegne di un paese civile come il nostro.
Partimmo ancora prima dell'alba su tanti camion, cantando, eravamo più numerosi dell'altra volta. Arrivammo in un paesino, C(i)abar, ancora più lontano di Gerovo. Era pieno di soldati tutti allarmati. Due camion militari erano stati attaccati poco prima dai ribelli.
Andammo a vederli: il cassone era insanguinato, vidi larghe chiazze di sangue a grumi sulle quali camminavano le mosche e dei frammenti chiari: erano pezzetti di osso e di carne, mi parvero delle dita. Rabbrividii, capii, vedendo il sangue vero, che la guerra non era solo sventolare di bandiere, suono di banda e canti, spari che facevano solo baccano.
Aldo vicino a me era pallido e vomitava.
Virgilio, seduto sopra un muretto, fumava nervosamente e sputava per terra, altri più che stupiti, spaventati, ammutoliti si allontanavano con espressione di disgusto e di paura.
Ma dove mai ero capitato!

Me l'ero cercata da solo quest'avventura che noi avevamo inteso come una gita di gaie prodezze. A tutti i muli era passata l'allegria.
Non passò molto che fummo tutti convocati in una vasta radura e lì il Federale ci fece notare come i nostri soldati venivano proditoriamente attaccati, uccisi e feriti da fuorilegge, con la complicità di loro familiari residenti nel paese.
Bisognava dare una punizione esemplare a questi nemici e ai loro complici che si macchiavano di delitti. La Jugoslavia era stata sconfitta, aveva firmato la resa e non c'era alcun motivo ormai per opporsi al nuovo ordine europeo che Italia e Germania volevano per quei popoli.
Il ragionamento non faceva una piega. I banditi andavano eliminati con tutti i mezzi a disposizione. Inquadrati ci avviammo verso delle case discoste dal paese, attorno alle quali c'erano già molti Fascisti e Militi.
Un gruppetto di persone: per la maggior parte donne e fanciulli era poco discosto. Mi sembrarono spaurite, forse piangevano. Attorno a sé, posati sull' erba avevano dei fagotti: lenzuola o tovaglie, gonfie di roba, legate per le cocche. Ebbi la sensazione che qualcosa di grave, che non avevo mai visto stava per accadere e fui pervaso da timore e angoscia.
Alcuni Fascisti con la pistola in mano si diressero verso di noi e da poco lontano ci ingiunsero di seguirli.
I miei amici ubbidirono, con quelle facce c'era poco da scherzare; io dissi che sarei venuto subito, avevo un bisogno urgente e andai a farlo dietro un cespuglio.
Ce l'avevo o no quell'urgenza, non lo ricordo, ma forse si, per l'emozione e lo spavento!.
Da dietro il cespuglio vidi Nevio, Virgilio, Aldo, Raoul e altri, con delle latte in mano che entravano in una casa a due piani assieme a quelli che erano venuti a chiamarci.
Mi soffermai dietro quel cespuglio, timoroso di essere sorpreso e mi slacciai anche i calzoni per giustificare il mio ritardo. Forse mi stavo comportando da codardo ma quella scena m'intimoriva talmente che d'istinto mi sconvolgeva e mi ripugnava parteciparvi.
Dopo un po' vidi i miei amici uscire di corsa dalla casa, subito seguiti dai loro accompagnatori mentre dalle finestre cominciò uscire del fumo.
Avevamo, chi in un modo, chi in un altro, partecipato ad incendiare la casa di quella gente. Mi vennero in mente le parole che giorni prima mi aveva detto qualcuno a Fiume: aveva ragione. Noi, volenti o no andavamo, ignari, a bruciare "oltre" le case!
Ci raggruppammo di nuovo, qualcuno degli amici mi chiese dove mai mi ero cacciato, al che non seppi dire, come sempre mi capita, altro che la verità.
In certi momenti cruciali mi si paralizza la fantasia e resto confuso.
Si misero a ridere, ma non se la presero a male che li avevo abbandonati, solo commentarono: "A ti te xe vegnù mal de panza dela paura!"
E finì lì.

La casa continuava a bruciare, quella gente con i fagotti piangeva, venne fatta salire sopra un camion e noi rimanemmo lì a guardare lo spettacolo per me triste e per altri divertente.

Si sentiva forte l'odore di bruciato e il crepitio del fuoco, poi il rumore di un crollo: era venuta giù la copertura del tetto e alte si levarono le faville e le lingue delle fiamme.

Bruno Tardivelli (18.12.2006)

(continua)


***


ESIBIZIONI SCIOCCHE 1942 - parte 4ª

( da "La Mia Gioventù - 1940 - 49)


La povera casa continuava a bruciare.
Quasi al termine del rogo, quando rimanevano ancora gli ultimi guizzi delle fiamme e fumanti s'intravedevano i muri anneriti e i vani vuoti delle finestre, simili ad occhiaie spente, ci inquadrammo e ce ne ritornammo in paese.
Anche se non avevo fatto nulla, avevo un senso di colpa.

Gli squadristi intonarono il loro inno:
Ce ne fregammo un dì della galera,
ce ne fregammo della brutta sorte,
per preparare questa prole forte,
che se ne frega adesso di morir.
Il mondo sa che la Camicia Nera
è fatta per Vincere, Combattere
e morir!
DU CE; DU CE!!

Giovinezza, Giovinezza
Primavera di Bellezza………..


Veramente su questa Bellezza della mia Giovinezza avevo dei seri dubbi: tra roghi, morti e spari c'era poco da divertirsi, anche se molti fra gli adulti sembravano assai soddisfatti per la spedizione punitiva contro i ribelli e le loro famiglie.
Pochi tra noi ragazzi, impressionati da quello spettacolo nefando, partecipavano al coro che quasi si stava spegnendo, quando perentorio ci giunse l'ordine:

"Cantare, cantare forte, rammolliti e non fate le mammolette.
Che ci sentano, questi porci, altrimenti canterete fino a domani e il rancio ve lo sognate!."

La faccia del caposquadra era truce e le sue intenzioni non lasciavano dubbi.
Ci fu giocoforza tirare fuori la voce, mentre quello berciava:

"Più forte, più gagliardo!
Facciamogliela vedere a questi pezzentiiii !!"

Il rancio ce lo meritammo per davvero.
Ci fecero girare marciando nel fango, calzavo le mie le scarpe malandate di città, fra quelle casupole e le stalle perché tutti i paesani ci sentissero per bene. Finimmo col radunarci in uno spiazzo dove finalmente ci attendeva il solito formaggino con un pezzo di pagnotta.
Avevo i piedi fradici.

Il giorno dopo non rientrammo subito a Fiume come forse molti tra noi, ormai stanchi, avrebbero voluto, ma dopo Gerovo deviammo per una strada ancora più malandata verso un borgo che si doveva chiamare Podhum o C(i)avle, non eravamo nemmeno sicuri dove eravamo.

Li erano successi fatti gravi: due maestri italiani, marito e moglie erano stati ammazzati.
Come facessero ad insegnare ai bambini croati se non conoscevano la loro lingua non lo capivo proprio.
Il fatto è narrato da Mario Dassovich nel suo libro "Fronte Jugoslavo 1941 - 1942".

I coniugi si chiamavano proprio come dice il libro: Renzi.
Il fatto era avvenuto poco prima, nel Marzo del 1942
I camion si disposero su di una vasta spianata erbosa, a semicerchio, e ricevemmo l'ordine di rimanere sui mezzi in stato di all'erta.
Un gruppo di Militi si unì al Federale, andarono in paese e ne ritornarono poco dopo conducendo in mezzo a loro un uomo robusto e attempato. Non ricordo se avesse le mani legate.
Noi assistevamo alla scena dai camion, muti spettatori.
C'era un gran silenzio nonostante lì fossimo veramente in molti.
Era uno di quei silenzi che precedevano momenti tragici.
Ogni tanto qualcuno di quelli che accompagnavano l'uomo gli dava uno spintone sulle spalle come per farlo procedere più alla svelta, gridando qualcosa.

Sparirono dietro una macchia e poco dopo si udirono tre o quattro spari.
Qualcuno in mezzo a noi mormorò:
"I lo ga copà!"
Rimanemmo in silenzio, disorientati, non sapevo cosa pensare.
Io ebbi paura, stavo commettendo una cattiva azione che avrebbe generato altre vendette ?
Nel grande smarrimento non seppi fare di meglio che dire tra me il "Padre Nostro"

Ritornai a casa niente affatto entusiasta degli spettacoli che avevo visto durante quell'esperienza. Gli ideali che mi erano stati inculcati non corrispondevano, a mio giudizio, con le imprese alle quali avevo assistito.
Un soldato mi aveva mormorato:
"Voi tornate a casa ma noi restiamo in quest'inferno….."
Cominciavo a capire cosa voleva dire!
A casa non dissi nulla, soltanto che ero stanco, e lo ero più moralmente che fisicamente. Ero deluso, disgustato.

Qualche tempo dopo, forse una settimana o più ero alla sede della Centuria Corale, alle prove del coro. Venne un ufficiale della Milizia ad annunciarci che ci sarebbe stata un'altra spedizione e volle interpellare uno per volta i premilitari per assicurarsi la loro partecipazione. Quando fu il mio turno io risposi che avrei chiesto il permesso ai miei genitori, mio padre era malato e comunque avevo tanto da studiare perché ero indietro con la preparazione.
Ebbe un gesto di stizza che interruppe una risata dei miei compagni e brusco mi rispose di non addurre delle scuse, mi ordinò che ci saremmo visti all'appuntamento fissato come sempre prima dell'alba.
Non ci andai.

Subito dapo anche i miei amici si disgustarono di quelle spedizioni, qualcuno mi confidò che andare in giro a bruciare case ed assistere ad esecuzioni a sangue freddo era una faccenda che non gli garbava, lo facesse chi ne aveva voglia o ne era costretto.

Per noi giovani la Patria era un ideale sublime per il quale si poteva dare la vita ma non andava confuso con istinti bassi di crudeli rappresaglie contro gli inermi.

I componenti degli squadroni si assottigliarono e vi rimasero i fanatici e gli sprovveduti; quando poi le cose incominciarono a mettersi male, con il crollo del Fascismo e l'8 Settembre del 1943, i maggiori responsabili, gli organizzatori i partecipanti fanatici di quelle imprese, poco per volta scomparvero dalla circolazione e tanti di noi misero la faccenda nel dimenticatoio.

Bruno Tardivelli FINE - ( 19.02.2007 )


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From: bruno tardivelli
To: Forum_Fiume@yahoogroups.com
Sent: Tuesday, February 20, 2007 6:43 PM
Subject: Re: [Forum_Fiume] *Il Piccolo - lettere ....
L'odio verso il diverso, il nemico, non deve e non può più far parte del nostro tempo. (testo in calce)


cara giovane studentessa che mi rammarico di non poter raggiungre direttamante ha fatto bene andare a Basovizza per "conoscere meglio...senza preclusione e giudizio".

anch'io ci sono stato, però solo soletto perchè conoscevo l'antefatto e a proposito ho scritto una mia impressione sul nostro giornale "La Voce di Fiume" nel marzo 2005 che accludo in allegato alla presente.

non si scandalizzi per certi fischi e certi schiamazzi, ce ne sono tanti in giro, per gli stadi e le piazze italiane e provengono sempre dalla stessa categoria di persone, quelle cioè che credono nella violenza, che si reputano esseri superiori ed invece sono dei frustrati che non riescono esprimersi in altro modo.

il fatto più grave è che vengano tollerati dalla società, ma essi fanno comodo per "opposti "motivi. per un certo disegno politico perverso: si finge da un lato di non conoscerli e in un altro campo si fa loro di nascosto l'occhiolino, così giungono sempre, chissà come, al pari del formaggio sui maccheroni, al momento giusto per fare i guastafeste..
e più di uno gongola in segreto

il mondo da sempre è fatto così, è un miscuglio di buono e di cattivo e nessuna ideologia terrena potrà far raggiungere all'umanità l'utopica Città del Sole

non si scandalizzi,cara giovane e non perda l'occasione per approfondire le sue conoscenze su Basovizza e luoghi cosimili, l'aiuterà a conoscere quale valore ha la libertà di cui lei oggi gode in Italia e a difenderla dai masnadieri che saranno sempre in agguato.

la saluto con simpatia
bruno tardivelli

Allegato:

Ho voluto andarci anch'io.
pubblicato il 30.marzo 2005 nella "Voce di Fiume"

In questi "Giorni di Ricordi" ho voluto andare a Basovizza, alla Foiba, quando il luogo era deserto, per pregare e riflettere in solitudine davanti a "Loro".
Perché, perché l'uomo è capace di tanta crudeltà?

Il mio pensiero corre lontano nel tempo.
Quanto dolore, quanto strazio, quanto odio inutile contro nemici prostrati e vinti, diventati ormai inermi. Qui, in Italia, la pietà umana ha voluto esternarsi erigendo dopo titubanze un grande cippo di pietra del Carso.

Medito e prego, la solitudine mi avvolge; il mio sguardo si spinge lontano e assieme ad esso il mio pensiero valica i colli desolati e brulli del Carso.
Quante Foibe e Cave tragiche ci sono ancora la "Oltre" ?

Perché in tanti, là "Oltre", osteggiano e non vogliono su nessuna di quelle tetre voragini un segno di pietà ?
Li, in quei baratri, in un perverso e sanguinario gioco, i loro padri hanno spinto semplice gente italiana, aborriti nemici ormai vinti, inermi, atterriti, disperati, affranti, feriti, percossi e sanguinanti.
Perché il ricordo di questa vergognosa vendetta, questa cupa "osveta", si protrae ancora in quei luoghi con infame compiacimento?

Non è stato ancora sufficiente tanto sadico orrore per far sorgere nel petto di quella gente l'umana pietà, la ripulsa per una crudeltà inutile, dopo tanti decenni?
La mala pianta del rancore, sulla quale purtroppo speculano da ambo le parti politici faziosi deve essere estirpata con la buona volontà di tutti i semplici se sinceramente si dichiara di voler aprire a Oriente, da ambo le parti, le frontiere dell'Europa, per assicurare a tutti la Pace. Ma quale avvenire ha la Pace, come può essa trovare posto nel fatuo orgoglio e nell'acredine ?

Ho fatto pochi passi e sono giunto sul luogo dove si trova la lapide che ricorda i quattro sloveni fatti fucilare dal tribunale fascista nel 1930.
Anche li ho voluto fermarmi con un gesto d'umana pietà ed ho ricordato il tempo di quand'ero ragazzo; per l'Italia era il tempo dell'odio programmato, seme di queste violenze nefaste.
Io non vorrei che alcun uomo soffrisse ancora per simile maledizione.
La morte ha livellato ogni cosa, ha reso tutti uguali.
Ma perché ciò, i vivi, "di qua e di là" ,non vogliono capire?

Tutti ipocritamente dichiarano che misfatti simili non devono mai più accadere ed intanto, subdoli o incoscienti parolai coltivano la mala piante del risentimento foriero di foschi presagi. E' un monito, Basovizza, cari signori, ma solo per chi vuole intendere !
Altrimenti è vano andarci in pompa magna !

Io prego perché l'odio diabolico non perduri, in nome di tutte queste ossa martoriate che ormai nulla possono e per le quali noi dobbiamo nutrire solo umana pietà.
Non voglio che si ripetano tali orrori e dunque è indispensabile che io debba e voglia rispettare pure la dignità e il dolore degli "altri ".
E'un principio di civiltà.
Già ci siamo fatti avanti noi per primi; proseguiamo come si conviene, con fermezza e serietà, senza diatribe dannose perché noi in Italia abbiamo una cultura antica.
Si soffochi il risentimento, foriero di sciagure e non ritorni, ma davvero, mai più, per nessuno, il fosco passato.

Bruno Tardivelli


----- Original Message -----
From: Furio Percovich
To: Mailing List HISTRIA ; Forum FIUME ; Istria-News ; Gente de Confin ; Dalmazia XXD
Sent: Monday, February 19, 2007 7:02 PM
Subject: *Il Piccolo 19.02.2007 - lettere ....L'odio verso il diverso, il nemico, non deve e non può più far parte del nostro tempo.

Sono una giovane studentessa universitaria che ha deciso di partecipare alla commemorazione alla Foiba di Basovizza per conoscere meglio cosa è successo sessant'anni fa nel territorio in cui vivo. Sono arrivata senza nessuna preclusione o giudizio, non mi occupo infatti di politica e non sono direttamente coinvolta nei tragici fatti, ero lì banalmente per capire di più. Mi ha fatto molto riflettere il modo in cui si è svolta la celebrazione che avrebbe dovuto "rendere giustizia".

I fischi che hanno seguito il "ringraziamo la Comunità slovena" mi hanno fatto credere che dopo gli annali silenzi, le odierne scuse e gli attuali tentativi di "recuperare" con manifestazioni di questo tipo, non siamo ancora riusciti a centrare qual è e dov'è il punto della questione.

Se queste iniziative si portano dietro questi strascichi di inciviltà risultano diseducative nei confronti degli adulti e soprattutto dei giovani che, infatti, si disinteressano di queste questioni e sempre più della vita pubblica.
Quella che si voleva giustizia non è stata civile ed educativa: i fischi e le critiche delle ultime file non possono far altro che tenere accesa la fiamma dell'odio.
E credo che sia proprio questo che genera massacri simili, in quanto fenomeni di inciviltà politica e morale.
Riuscire a tenere fuori della manifestazione la demagogia politica, gli spiriti accesi e la voglia di vendetta forse potrà trasmettere l'idea che le cose si possono superare e che stiamo tutti assieme facendo qualcosa per evitare che tali orrori si ripetano.
L'odio verso il diverso, il nemico, non deve e non può più far parte del nostro tempo.
Viviamo in un'epoca in cui le guerre sono state fatte e i morti ci sono stati, voglio sperare che abbiamo dei mezzi per capire cosa è giusto e cosa è sbagliato e soprattutto una capacità critica per ribadire che eventi simili non li vogliamo più.
Ma questo sarà possibile solo spegnendo l'odio che persevera e, a mio giudizio, tale sentimento è stato alimentato anche durante la manifestazione in questione. Vicenda in cui, soprattutto gli adulti, non sono capaci di vedere che le cose sono cambiate e di capire che non saranno i fischi a portarci avanti, a essere più civili e soprattutto umani.
Presupposti fondamentali per evitare guerre e genocidi.
Non sarà sicuramente dicendo "...è colpa vostra..." e considerando il diverso sempre nemico che riusciremo a costruire una società civile.
Perché così non siamo stati civili.

Lettera firmata